Discreto a livello di giallo puro, con qualche inceppo di sceneggiatura, ma trova la propria forza nella capacità di essere ironico e cattivo in una fase centrale molto più vicina alla black comedy, tanto da risultare alla fine anche gustosamente divertente. Eccellente Ana de Armas.
Il delitto del titolo italiano (comunque insulso, chiaro segno che
chi ha scelto questo titolo non ha visto il film) arriva subito,
evitando inutili preamboli. Proprio questo permette al regista Rian
Johnson di instaurare un ritmo costante che risulta essere una delle
forze della pellicola, tanto che la durata di oltre due ore non pesa per
nulla, anzi il minutaggio del film scorre via agevolmente.
Partito
con la seriosità classica dei gialli, con un'ambientazione che può
ricordare i classici gialli alla Agatha Christie (con l'investigatore
Benoit Blanc a inserirsi un po' alla Poirot o alla Sherlock Holmes),
Knives Out sorprende però nel non essere completamente omologato a
questo genere, provando sì (soprattutto nella parte iniziale e finale) a
darne una versione rimodernata, ma che dopo la mezz'ora introduttiva ha
una virata degna di una black comedy che risulta parecchio divertente.
Fondamentale in questo la presenza di quello che (oltre
all'investigatore) diventa il personaggio di spicco, la Marta
interpretata benissimo da Ana de Armas: in un cast pieno di nomi di
primo piano, è proprio la giovane cubana a dare un'anima diversa al
film, con la sua infermiera che non è semplicemente la più "vicina" alla
vittima, ma che via via assume un carattere parecchio interessante. Ana
de Armas riesce a dare al proprio personaggio una naturalissima
dolcezza di fondo, aggiungendoci però (specie nelle fasi centrali nel
tentativo di nascondere le proprie tracce) una goffaggine che porta a
scene discretamente divertenti e che proprio per questo la rende come il
fulcro del cambio di registro che si vede nella fase centrale del film.
In sostanza, queste caratteristiche permettono allo spettatore di
trovare (in un pieno di personaggi volutamente poco simpatici) la
propria empatia con questa giovane infermiera, tanto da parteggiare per
lei nelle parti più critiche del film.
A differenza dei
gialli tipici alla Agatha Christie, che sono ambientati nell'alta
borghesia ma con una nota di forte rispetto per questa, qua la scrittura
è cattiva e per certi versi ci propone una specie di satira sulla
famiglia in questione, mostrandoci tutte le ipocrisie dei figli e dei
nipoti della vittima: ci viene descritta una famiglia avida e anche
viscida, il cui unico ricordo di Harlan Thrombey è legato alle fortune e
alla proprietà. Una serie di caratteri ambigui che mostrano tutte le
loro bassezze in particolare dalla godibilissima scena della lettura del
testamento in poi, quando appunto ognuno dei figli (e dei nipoti)
arriva ai ferri corti. Bene sia Toni Colette che Don Johnson, ma a
piacere anche di più in questo ruolo ambiguo sono gli ottimi Michael
Shannon e soprattutto la sempre bravissima Jamie Lee Curtis, i cui primi
piani "acidi" danno un altro volto interessante e pepato al film.
All'apparenza
più di secondo piano, ma ben tratteggiate anche le figure giovanili,
quelle dei nipoti della vittima, con la Meg di Katherine Langford che
sembra avere il piede in due scarpe, provando a essere sia amica
dell'infermiera (non aggiungendo altro per evitare spoiler) sia a tirare
l'acqua al mulino familiare, mentre il 16enne (definito "neonazista")
Jacob (interprato da Jaeden Martell) è volutamente inespressivo e
rappresenta per certi versi il ragazzino viziato e perfido con chi non
ritiene alla propria pari. Tra i nipoti spicca (anche per carisma, ma
non solo) l'eccellente Chris Evans, che con il suo cinismo e la sua
strafottenza regala un paio di risate grasse (straordinario nella già
citata scena della lettura del testamento).
Insomma, i
Thrombey si rivelano la classica famiglia perfetta solo di facciata, per
poi trasformarsi in squallidi avvoltoi alla prima occasione utile, con
nessuno a salvarsi e a dimostrare una maggiore morale rispetto agli
altri. Anzi, la famiglia dimostra anche un razzismo di fondo, non solo
nei discorsi (in realtà non così incisivi) sugli immigrati, ma
soprattutto nel dare all'infermiera una nazionalità ogni volta diversa
qua e là nel film, in una sorta di mini-gag che si ripete almeno quattro
volte (a memoria Marta viene descritta dell'Honduras, dell'Uruguay, del
Paraguay e del Brasile).
Ovviamente un film del genere
non può riuscire se la figura di squilibrio come quella
dell'investigatore privato non fosse ben centrata e in ciò sorprende
l'interpretazione di Daniel Craig, che evidentemente crede fortemente
nel proprio personaggio: in un film che fondamentalmente vuole
riaggiornare i canoni del genere giallo, il suo Benoit Blanc sembra
volersi ispirare per certi versi alla deduttività dello Sherlock Holmes,
all'affabilità e al sottile humour dell'Hercule Poirot e in qualche
modo anche al tenente Colombo nel suo rapporto con l'infermiera Marta.
Craig appare più sciolto di quanto personalmente potessi immaginare e
risulta assolutamente funzionale (se non di più) sulla piacevolezza del
film.
In sostanza è un film che magari da giallo puro non è
troppo brillante o originale (e in alcune fasi si nota qualche inceppo
di sceneggiatura), ma che si fa piacere per fluidità, per buona tecnica
(bellissima la scenografia, ottima la fotografia, di ottimo livello la
regia) e soprattutto per la capacità di non prendersi eccessivamente sul
serio, tanto da risultare anche gustosamente (senza essere sguaiato)
divertente. Il voto sarebbe tendente al 7, ma dò un punto in più per la
fase finale, quella immediatamente successiva alla risoluzione del caso.
Nessun commento:
Posta un commento