Cetto Laqualunque funziona ancora e Albanese riesce a creare qualche momento divertente, ma il film è annacquato da una sceneggiatura troppo spenta e per nulla creativa.
Dopo un primo capitolo
capace di essere ancora adesso divertente (pur nei suoi difetti di
fluidità) per l'introduzione al cinema di un personaggio sfavillante
come Cetto Laqualunque, ma anche dopo un secondo capitolo
riuscito piuttosto male e dimenticabilissimo, Antonio Albanese e Giulio
Manfredonia (più il primo che il secondo) ci riprovano cambiando un po'
il mirino per gli sviluppi sempre più biechi dell'attualità italiana:
basta questo per fare un buon film?
Ovviamente no, serve
(specialmente al terzo atto) una sceneggiatura forte, capace di far male
sui temi attuali interni o perlomeno capace di creare un clima surreale
insolito. Purtroppo tutto questo in "Cetto c'è, senzadubbiamente" non
c'è proprio (senzadubbiamente). I riferimenti che qualcuno poteva
aspettare sulla corrente becero-sovranista sono minimi (sempre se ci
sono), quindi in realtà la satira viene tagliata fuori in partenza, così
come la componente grottesca è poco viva. Di fatto, il film segue
logiche da commedia vista e stravista, tanto che buona parte degli
spettatori con una non eccelsa esperienza cinematografica può capire fin
da subito dove il film vuole più o meno andare a parare nella sua
storia, troppo lineare e troppo prevedibile. Tutto ciò impedisce la
caratterizzazione dei personaggi di contorno a quello che (ovviamente) è
il grande protagonista, cosa che invece in Qualunquemente era un po'
più presente: il figlio di Cetto sembra il luogo comune del giovane
attuale e non ha carattere, l'ex moglie di Cetto purtroppo di vede solo
un paio di volte (ed è l'unico personaggio capace in sé di regalare
delle risate nella sua sfuriata contro l'ex marito), la nuova moglie è
un corpo e poco più, l'onnipresente Pino sorprende solo quando cita
Giulio Cesare ma per il resto nulla aggiunge.
Il film è
quindi troppo sulle spalle di Antonio Albanese, che pure è debordante e
non a caso riesce a regalare i momenti più divertenti quando riesce a
liberarsi da un contorto troppo lineare e a garantire le stravaganze
tipiche del personaggio di Cetto: la sceneggiatura infatti non regala
poi momenti così divertenti, quindi tutte le risate sono dovute
all'estro di Albanese. Devastante alla cena con i nobili (sorpreso di
quanta gente ci sia che non faccia nulla nelle proprie giornate),
trascinante quando al matrimonio canta il ritornello dell'assurdissima Il Vero Amore,
inno al meretricio che sembra calzare fin troppo bene al carattere di
troppi uomini che si ricordano di avere gli attributi solo durante
l'atto sessuale ("Il vero amore è solo a pagamento, se pagherai in
contanti ti sentirai contento, il vero amore non cede al sentimento, la
paghi la saluti e non c'è sfracanamento").
Per cui si ride
sì, perché il talento comico (e anche attoriale, Cetto non è solo
volgarità spiazzanti ma anche espressioni strafottenti interpretate
perfettamente da questo grande attore) di Antonio Albanese resta
eccelso, ma purtroppo resta superiore agli stessi film che interpreta.
Il personaggio funziona ancora, perché purtroppo l'odiernità italiana lo
rende fin troppo attuale (basta appunto spostare un minimo il mirino),
ma allo stesso tempo non può ottenere un voto superiore alla sufficienza
perché alle spalle del protagonista si vede troppo poco. Ed è un vero
peccato, senzadubbiamente.
E poi, mi chiedo: solo io avrei voluto vedere cosa avrebbe fatto Cetto Laqualunque da re?
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