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martedì 31 dicembre 2019

Crisis in Six Scenes: Woody Allen da attore ha ancora tanto da dare

Più che una serie è un film diviso in sei parti ma va benissimo così, perché Allen ci regala una serie intelligente e divertente senza mai cadere di tono.


Passato piuttosto in sordina (forse perché in Italia ci siamo abituati un po' tardi a questi servizi di streaming come Amazon Prime), Crisis in Six Scenes è un prodotto da ripescare, non fosse altro per la curiosità di vedere uno come Woody Allen misurarsi con il mezzo della serie e soprattutto perché potrebbe essere a tutti gli effetti l'ultima volta che vedremo il vecchio Woody recitare.
In realtà Allen si adatta alla serialità a modo suo, visto che si trattano di sei puntate di poco più di 20 minuti, a formare in sostanza un film che supera di poco le due ore ma tagliato in sei parti. Ma basta vedere subito la prima scena dal barbiere per capire che Woody è ancora sé stesso, è ancora capace di divertire nel suo modo personale e molto superiore rispetto alla media. Qui lo vediamo davanti alla macchina da presa per la prima volta da quando ha compiuto gli 80 anni e lo ritroviamo piuttosto in forma: le solite ansie, il solito personaggio ipocondriaco (strepitosa la scena dal medico, uscendo dal quale si capisce che aveva scambiato le labbra screpolate per una cancrena!) tipicamente alleniano si sposano ancora benissimo al vecchietto della medio-alta borghesia, facendo pensare che il newyorchese possa ancora dare qualcosina anche da attore, non solo da autore-regista.

La serie scorre molto bene, con parecchi momenti surreali dovuti al personaggio di Miley Cyrus, sorprendente (un po' come un'altra ex Disney Selena Gomez nell'appena uscito Un giorno di pioggia a New York) perché riesce a risultare tutto sommato credibile nel ruolo da rivoluzionaria, nei discorsi politici maturi che nessuno metterebbe in bocca a una ex starlet della Disney. Allen invece ci prova e ci riesce con ottimi risultati, ottenendo dalla Cyrus anche qualche scontro generazionale parecchio divertente, con le battutine piccate e sarcastiche della giovane nei confronti dell'anziano (specialmente nella terza puntata). Miley Cyrus entra nella scena come un ordigno che scombussola le vite di tutti, portando a situazioni abbastanza deliranti come le vecchiette borghesi del club del libro che finiscono per leggere e citare con convinzione nientemeno che Mao o Karl Marx.

Sono ben centrati tutti i personaggi e a divertire è anche Elaine May, a cui spetta sostanzialmente un ruolo alla Diane Keaton: lei è la moglie di Woody Allen, che dispensa a varie coppie dei consigli stramboidi, come il portare un marito fedifrago e frequentatore di escort a pagare la moglie per provare la stessa ebbrezza, con risultati deliranti.

Si ride parecchio e la serie funziona anche perché Allen evita riempitivi inutili e riesce ad andare al sodo, regalandoci sei puntate di alto livello artistico, umoristico e senza mai cadere di tono. E' un Allen ancora unico nel suo stile, capace di farci ridere senza per forza spegnere le nostre cellule neuronali, anzi riuscendo a mettercele in moto.

Voto 9.

lunedì 30 dicembre 2019

Tre uomini e una gamba: ormai un classico

Un film comico può funzionare e restare fresco a distanza di anni anche se magari è poco "film" come questo.

Perché Tre Uomini e una Gamba resta un film così divertente anche a distanza di oltre 20 anni?
Perché è l'elogio della semplicità, un film creato senza alte ambizioni che punta unicamente sull'estro e l'affinità dei tre protagonisti.
Anche andando a riciclare gli sketch visti in teatro e riproponendoli con una minima rivisione, tutto l'insieme funziona perché permette ad Aldo, Giovanni e Giacomo di dare il meglio di loro, liberi da ogni schema e con la possibilità di esprimere la loro comicità originale.
Pur sapendo quasi per filo e per segno a memoria i dialoghi e le battute dell'intero film, guardarlo ancora ora diverte e questo va ben oltre i limiti che può avere ogni "primo film" di comici televisivi e teatrali, ovvero una sceneggiatura magari imperfetta e una regia soltanto funzionale e nulla più.

Oltretutto il trio qui è in una forma sensazionale, una forma che purtroppo via via s'è appannata portando specialmente nell'ultimo decennio a risultati ben lontani da quanto ci avevano abituati (forse per l'incapacità di sapersi riaggiornare nello stile e nella proposta comica, diventando un po' la copia sbiadita di loro stessi una volta che l'impatto "fisico" di alcune gag per forza di cosa diventata improponibile con l'avanzare dell'età). In particolare Giovanni in questo film appare irresistibile, semplicemente perfetto, con le sue sparate da pignolo, il suo essere arrogante e precisino e con una serie di espressioni facciale passate alla storia della comicità italiana (il "ma vai, ma vieni" per aver battuto un bimbo a braccio di ferro resta una vetta meravigliosa).

Come puoi avere qualcosa da ridire di un film quando una quantità così ampia di battute è rimasta nel nostro immaginario a distanza di anni, quando ancora un prodotto simile è lontano dallo stufare? Sicuramente ci sarà una marea di film superiore a livello tecnico, ma la freschezza di questo film resta irraggiungibile e il voto deve essere per forza altissimo.

Voto 9.

giovedì 19 dicembre 2019

Il mistero Henri Pick: il fascino del film intelligente

Commedia intelligente ma leggera molto "alla francese" che risulta essere piacevole e a tratti anche discretamente divertente. 


In un'epoca in cui media e spettacolo (e la società nel suo insieme) sono affetti da un mastodontico istupidimento generale, è bello vedere ogni tanto un prodotto intelligente, per quanto non certo "pesante" nella sua struttura. Il mistero Henri Pick è un film destinato a essere abbastanza snobbato in Italia, in quanto la Nazione in cui non si legge (più) non può certo accogliere a braccia aperte un film così incentrato sui libri e sulla cultura, ma è l'ennesimo esempio di buona commedia francese in cui basta uno spunto discreto per portare a un film piacevole sostanzialmente nell'intera sua durata.

E' un film che fa della leggerezza il proprio punto di forza, rendendo così interessante il "delirio complottista" (così viene definito da uno dei personaggi del film) del protagonista, un critico letterario un filo arrogante e inizialmente discretamente snob a cui presta bene il volto un ottimo Fabrice Luchini: il suo Jean-Michel Rouche diventa così ossessionato dalla figura di Henri Pick, il pizzaiolo scomparso da due anni che si scopre autore di un capolavoro della letteratura moderna francese, uno mai visto né scrivere né tantomeno leggere nemmeno dai suoi più stretti parenti ma all'apparenza capace di inserire nella sua opera clamorose citazioni provenienti dalla letteratura russa. Può essere davvero lui l'autore di un'opera del genere?

Il film così ci mette la pulce all'orecchio e ci incuriosisce per capire come siano andate davvero le cose, ma nel frattempo segue uno stile tipico della commedia francese, con un'aura di qualità in cui però non stonano nemmeno un paio di gag grevi (nella libreria coi manoscritti rifiutati dagli editori da cui viene scoperto il capolavoro di Pick troveremo poi degli stagisti mandati dalle case editrici a sperare di trovare una nuova perla nascosta ma poi costretti a leggere robe con titoli come un esilarante "Le bambole gonfiabili non hanno problemi di menopausa", un libro che onestamente sarei stato curioso di leggere anche io): è il contesto quello che cambia tutto e persino la classica (e abusata) scena della cannetta viene resa accettabile e ha un suo senso nel quadro del film.

In definitiva un film che senza particolarmente strafare riesce a essere piacevole, ben recitato e che merita sicuramente la visione.
Voto 7,5

giovedì 5 dicembre 2019

Cena con delitto: giallo gustosamente divertente

Discreto a livello di giallo puro, con qualche inceppo di sceneggiatura, ma trova la propria forza nella capacità di essere ironico e cattivo in una fase centrale molto più vicina alla black comedy, tanto da risultare alla fine anche gustosamente divertente. Eccellente Ana de Armas.

Il delitto del titolo italiano (comunque insulso, chiaro segno che chi ha scelto questo titolo non ha visto il film) arriva subito, evitando inutili preamboli. Proprio questo permette al regista Rian Johnson di instaurare un ritmo costante che risulta essere una delle forze della pellicola, tanto che la durata di oltre due ore non pesa per nulla, anzi il minutaggio del film scorre via agevolmente.
Partito con la seriosità classica dei gialli, con un'ambientazione che può ricordare i classici gialli alla Agatha Christie (con l'investigatore Benoit Blanc a inserirsi un po' alla Poirot o alla Sherlock Holmes), Knives Out sorprende però nel non essere completamente omologato a questo genere, provando sì (soprattutto nella parte iniziale e finale) a darne una versione rimodernata, ma che dopo la mezz'ora introduttiva ha una virata degna di una black comedy che risulta parecchio divertente. Fondamentale in questo la presenza di quello che (oltre all'investigatore) diventa il personaggio di spicco, la Marta interpretata benissimo da Ana de Armas: in un cast pieno di nomi di primo piano, è proprio la giovane cubana a dare un'anima diversa al film, con la sua infermiera che non è semplicemente la più "vicina" alla vittima, ma che via via assume un carattere parecchio interessante. Ana de Armas riesce a dare al proprio personaggio una naturalissima dolcezza di fondo, aggiungendoci però (specie nelle fasi centrali nel tentativo di nascondere le proprie tracce) una goffaggine che porta a scene discretamente divertenti e che proprio per questo la rende come il fulcro del cambio di registro che si vede nella fase centrale del film. In sostanza, queste caratteristiche permettono allo spettatore di trovare (in un pieno di personaggi volutamente poco simpatici) la propria empatia con questa giovane infermiera, tanto da parteggiare per lei nelle parti più critiche del film.

A differenza dei gialli tipici alla Agatha Christie, che sono ambientati nell'alta borghesia ma con una nota di forte rispetto per questa, qua la scrittura è cattiva e per certi versi ci propone una specie di satira sulla famiglia in questione, mostrandoci tutte le ipocrisie dei figli e dei nipoti della vittima: ci viene descritta una famiglia avida e anche viscida, il cui unico ricordo di Harlan Thrombey è legato alle fortune e alla proprietà. Una serie di caratteri ambigui che mostrano tutte le loro bassezze in particolare dalla godibilissima scena della lettura del testamento in poi, quando appunto ognuno dei figli (e dei nipoti) arriva ai ferri corti. Bene sia Toni Colette che Don Johnson, ma a piacere anche di più in questo ruolo ambiguo sono gli ottimi Michael Shannon e soprattutto la sempre bravissima Jamie Lee Curtis, i cui primi piani "acidi" danno un altro volto interessante e pepato al film.
All'apparenza più di secondo piano, ma ben tratteggiate anche le figure giovanili, quelle dei nipoti della vittima, con la Meg di Katherine Langford che sembra avere il piede in due scarpe, provando a essere sia amica dell'infermiera (non aggiungendo altro per evitare spoiler) sia a tirare l'acqua al mulino familiare, mentre il 16enne (definito "neonazista") Jacob (interprato da Jaeden Martell) è volutamente inespressivo e rappresenta per certi versi il ragazzino viziato e perfido con chi non ritiene alla propria pari. Tra i nipoti spicca (anche per carisma, ma non solo) l'eccellente Chris Evans, che con il suo cinismo e la sua strafottenza regala un paio di risate grasse (straordinario nella già citata scena della lettura del testamento).

Insomma, i Thrombey si rivelano la classica famiglia perfetta solo di facciata, per poi trasformarsi in squallidi avvoltoi alla prima occasione utile, con nessuno a salvarsi e a dimostrare una maggiore morale rispetto agli altri. Anzi, la famiglia dimostra anche un razzismo di fondo, non solo nei discorsi (in realtà non così incisivi) sugli immigrati, ma soprattutto nel dare all'infermiera una nazionalità ogni volta diversa qua e là nel film, in una sorta di mini-gag che si ripete almeno quattro volte (a memoria Marta viene descritta dell'Honduras, dell'Uruguay, del Paraguay e del Brasile).

Ovviamente un film del genere non può riuscire se la figura di squilibrio come quella dell'investigatore privato non fosse ben centrata e in ciò sorprende l'interpretazione di Daniel Craig, che evidentemente crede fortemente nel proprio personaggio: in un film che fondamentalmente vuole riaggiornare i canoni del genere giallo, il suo Benoit Blanc sembra volersi ispirare per certi versi alla deduttività dello Sherlock Holmes, all'affabilità e al sottile humour dell'Hercule Poirot e in qualche modo anche al tenente Colombo nel suo rapporto con l'infermiera Marta. Craig appare più sciolto di quanto personalmente potessi immaginare e risulta assolutamente funzionale (se non di più) sulla piacevolezza del film.

In sostanza è un film che magari da giallo puro non è troppo brillante o originale (e in alcune fasi si nota qualche inceppo di sceneggiatura), ma che si fa piacere per fluidità, per buona tecnica (bellissima la scenografia, ottima la fotografia, di ottimo livello la regia) e soprattutto per la capacità di non prendersi eccessivamente sul serio, tanto da risultare anche gustosamente (senza essere sguaiato) divertente. Il voto sarebbe tendente al 7, ma dò un punto in più per la fase finale, quella immediatamente successiva alla risoluzione del caso.

Prendi i soldi e scappa: la meravigliosa storia di Virgil Stark

Il Woody Allen degli inizi, quello più sfacciatamente comico, ci regalava già chicche imprescindibili. 

Nonostante il suo stile debba essere (giustamente, essendo ancora il suo esordio vero) affinato, Prendi i soldi e scappa resta comunque un capitolo fondamentale nella filmografia di Woody Allen, soprattutto per assaporare la sua fase puramente comica, con punte di grande cinema demenziale (a ricordare ciò che sostengo sempre, ovvero che per fare il vero demenziale bisogna essere parecchio intelligenti).

La carriera criminale di Virgil Stark, seguita nello stile del finto documentario (genere che solitamente non amo, perché raramente è brillante e centrato come in questo film), porta a spunti di splendida comicità, per un film che è una serie di gag senza pause. Demenziale, anche surreale, Woody Allen esalta il suo talento comico con tante scene destinate a entrare nella storia.

Si può però anche vedere qualche momento dell'Allen che sarà, in particolare nelle riflessioni con la voce fuoricampo che seguono il primo incontro con la futura compagna Louise con la celebre "dopo quindici minuti avevo già deciso di sposarla, dopo mezz'ora avevo rinunciato del tutto all'idea di rubarle la borsetta".

Insomma, in futuro Woody si migliorerà (e tanto), ma già il suo esordio rappresenta una chicca per il cinema comico americano. E dopo tutti questi anni (adesso ne sono passati 50) resta una visione assolutamente piacevole.

Voto 8.