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sabato 27 giugno 2020

Che vita da cani! Il film più maturo di Mel Brooks

"La vita è così, un insieme di momenti: la maggior parte sono terribili, ma ogni tanto succede qualcosa di buono"


Pochissimi, se non nessuno, citeranno Che vita da cani! tra i film memorabili del geniale Mel Brooks, di certo non alla pari con classicissimi come Frankenstein Junior o Mezzogiorno e mezzo di fuoco. Eppure questo film ha una sua importanza nella sua filmografia, perché è il lavoro più maturo di Mel Brooks, che per la prima (e unica) volta si cimenta nel campo della commedia classica e che per certi versi (lui fautore assoluto del politicamente scorretto) sposa per l'unica volta la causa del politicamente corretto.
Certo, chi si aspetta il solito film alla Mel Brooks in cui ridere a crepapelle quasi a ogni momento può restare sicuramente deluso, ma in questo film si può vedere come (se avesse voluto) il regista di Brooklyn avrebbe potuto dire la sua anche nel linguaggio della commedia.

La storia del ricco che si trova (per scommessa) a vivere da senzatetto, con un retrogusto critico contro le varie speculazioni edilizie, non sarà nulla di particolarmente originale ma funziona perché Brooks come attore è migliore di quanto probabilmente egli stesso si sia mai considerato (visto che questo e Alta Tensione sono gli unici due film in cui si è scelto come vero protagonista) e perché il film è portato avanti con un gusto notevole: si inizia in modo eccellente, il film si stabilizza e si mantiene piacevole per poi arrivare a una notevole impennata conclusiva, con un finale davvero ben riuscito.
Per quanto non sia un film sguaiato, a momenti seri si alternano scene parecchio divertenti, con un paio di stoccate alla Mel Brooks ("Dov'è il vostro senso di lealtà e di rispettabilità?" "Signor Bolt, siamo avvocati!") e con una straordinaria comparsata delirante e scatenata di Rudy De Luca ("sono più ricco di te!") a impreziosire il tutto.
Eccellente anche la prova di Lesley Ann Warren come spalla principale di Brooks (meravigliosa quando simula la morte nel sonno, con un possibile richiamo a Meg Ryan che simula l'orgasmo in Harry ti presento Sally), che regala il momento più toccante con la frase "La vita è così, un insieme di momenti: la maggior parte sono terribili, ma ogni tanto succede qualcosa di buono".

Un Mel Brooks sicuramente atipico, ma un film a suo modo riuscito.

Voto: 7

Lei: la fragilità e la solitudine dell'essere umano

Un film di forte impatto filosofico, decisamente più interessante sull'aspetto umano che su quello teoricamente "tecnologico". 


Theodore è un uomo modesto, uno di quelli che confonderesti e non sapresti distinguere all'interno di un gruppo di persone, uno tra tanti, anonimo e incapace di spiccare. Il suo lavoro stesso lo porta a nascondersi dietro altre esistenze, visto che si guadagna da vivere scrivendo lettere per gli altri.
L'esistenza di Theodore è in una fase complessa, l'essersi lasciato di recente con la moglie (e a lungo non ha il coraggio e la forza di firmare le carte per il divorzio), con cui in sostanza ha condiviso la propria intera esistenza fin da piccolo, lo ha portato in una spirale di solitudine. Le poche amicizie rimastegli provano a trovargli una possibile nuova compagna (vedi l'appuntamento al buio con nientemeno che Olivia Wilde), ma Theodore mostra un lato comune a tanti esseri umani, il bisogno di attaccamento che lo rende fragile.

Lei è soprattutto questo. E' un dramma che fotografa lo stato di solitudine che può colpire tanti essere umani (indistintamente dal sesso, dalla condizione sociale e da ogni cosa), una nostra fragilità psicologica che porta il protagonista a proiettare tutto sé stesso, emozioni e sensazioni, felicità e frustrazioni, passione e sentimento, in qualcosa di astratto: il bisogno di Theodore di attaccarsi a qualcosa è talmente grande che il suo alter ego diventa un computer, un sistema operativo impostato con la voce femminile (in lingua originale quella sensualissima di Scarlett Johansson, che peraltro in una breve scena canta anche ricordandoci come non sia malaccio neppure come cantante, come se le necessitassero altre doti naturali). L'alter ego di Theodore non esiste realmente e fisicamente, ma il bisogno che ha la fragilità umana a sentirsi unito a qualcosa lo porta a creare un legame irrealizzabile.
E' questo il forte impatto di Lei, un film dalla fortissima valenza filosofica e comportamentale, che vuole essere un ritratto dell'aspetto umano molto più che di quello teoricamente "tecnologico". Un film che ha una notevole forza di fondo, capace di far riflettere sulla nostra condizione.

Forse il minutaggio è eccessivo e in tal senso probabilmente l'Oscar come migliore sceneggiatura è esagerato, perché a un certo punto si nota una certa ripetitività, ma resta un film in generale molto forte che merita la visione.
Come sempre grandissimo Joaquin Phoenix, probabilmente l'attore di questa generazione capace di essere più duttile, di saper adattare sé stesso (anche visivamente) e lo stile di recitazione a seconda del copione: può essere gigionesco (ma anche lì con una forte fragilità) e esagerato come in Joker e allo stesso tempo rendersi standard e anonimo all'interno del mondo che lo circonda come in Lei, stimmate di un attore davvero strepitoso.

Bel film.
Voto: 8,5

venerdì 26 giugno 2020

Eurovision Song Contest - La storia dei Fire Saga: déjà vu all over again

Commedia musicale discretamente gradevole e graziosa, che però ha una storia piuttosto canonica e che non regala momenti memorabili.


Probabilmente scottato dal flop abbastanza pesante del suo Sherlock Holmes (probabilmente il film peggio accolto della sua carriera), Will Ferrell aggiusta il tiro e sceglie un film di basso rischio forse per rimettersi in sesto o forse per carenza di idee, sceglie come spalla un'attrice magari sottovalutata ma di indubbio talento come Rachel McAdams e propone un film decisamente meno fracassone rispetto ai suoi standard, tentando anzi la strada della commedia musicale piuttosto consueta.
Sembra chiaro infatti il tentativo di addocchiare a quello spicchio di critica (e forse di pubblico, che in tempi recenti lo aveva un po' abbandonato) di bocca buona per cercare un minimo rilancio e sostanzialmente il problema del film è proprio questo: Ferrell (autore anche della sceneggiatura, insieme ad Andrew Steele) non vuole prendersi alcun rischio e sostanzialmente ci porta a un "déjà vu all over again", come avrebbe detto il mitico Yogi Berra, ovvero a una sensazione di visto e stravisto.

Il film è tutt'altro che malvagio, anzi la storiella è pure graziosa, ma si entra nei canoni dei film musicali e non se ne esce più: gli artisti poco apprezzati che in qualche modo riescono ad avere il proprio momento di ribalta, con l'aggiunta dell'intrinseca love story tra i due componenti del gruppo, non è certo un'idea particolarmente allettante e creativa.
Lo scenario scelto è quello dell'Eurovision Song Contest, che Will Ferrell in passato aveva seguito e dimostrato di apprezzare: e nel film si nota chiaramente il rispetto che l'ex Saturday Night Live ha per la manifestazione, un rispetto però per certi versi anche eccessivo. Da Ferrell ci si sarebbe aspettato un minimo senso dissacratorio, che manca completamente.

Detto di un cast di supporto perlopiù anonimo (compreso il nome pesante di Pierce Brosnan, che interpreta il padre di Ferrell e che non incide), come spesso le capita la cosa migliore del film è Rachel McAdams, un'attrice che probabilmente non ha sbagliato mai nella vita un'interpretazione: anche qui riesce a esprimere il suo talento (per quanto a cantare non sia lei, bensì la cantante svedese Molly Sanden, che in effetti ha una voce notevolissima: al contrario, Ferrell canta realmente per sé) e la sua notevolissima grazia, dimostrandosi ancora una volta attrice di rango, che probabilmente meriterebbe una notorietà anche maggiore.

A livello umoristico, si ridacchia nel primo terzo di film, grazie alla solita ingenuità di Will Ferrell che riesce sempre a essere simpatica e divertente, ma alla lunga il film diventa abbastanza serioso con soltanto alcuni sprazzi di ironia: in sostanza il film è anche gradevole ma senza alcun momento realmente memorabile.

Voto: 5

mercoledì 24 giugno 2020

Rag. Arturo De Fanti, bancario precario: l'ultimo Villaggio originale

L'ultimo lavoro del binomio Salce-Villaggio è una farsa surreale e paradossale un po' altalenante ma sicuramente divertente.


C'erano tempi in cui il cinema italiano, invece di ricorrere a insulsi e inutili remake di film stranieri più o meno conosciuti mostrando un'atavica carenza di idee, cercava in qualche modo anche di sperimentare idee nuove, specialmente nel campo della commedia, ponendo i personaggi in situazioni nuove. Non sempre i risultati erano riusciti, ma perlomeno si poteva apprezzare un evidente tentativo di variare, di essere originali.
Se si legge a posteriori la carriera cinematografica di Paolo Villaggio si possono notare due fasi chiare e distinte, quella calante in cui sostanzialmente il comico genovese si trovava a ripetere sé stesso all'infinito (con qualche risultato anche decente come in Fracchia la belva umana o Ho vinto la lotteria di Capodanno, in entrambi i casi più per la propria bravura e per l'affinità con le varie spalle che per la forza dei copioni, ma per la maggior parte con lavori dimenticabili), e quella iniziale in cui c'era un diverso tentativo di costruzione dei personaggi: in tal senso, il meglio della sua carriera cinematografica arriva quasi unicamente nel binomio con Luciano Salce, con cui Villaggio ha fatto se non sempre i suoi film migliori (il pensiero mi va al non riuscito Alla mia cara mamma nel giorno del suo compleanno), quelli che sono sostanzialmente i suoi film da protagonista più originali.
Rag. Arturo De Fanti, bancario precario è il film che cronologicamente chiude questo binomio, che ha titoli da cercare e rivedere per capire come con Salce c'era un tentativo forte di proporre un Villaggio non canonico e non fossilizzato sulle solite abitudini (come invece capiterà di fatto sempre dagli anni '80 in poi): non solo Fantozzi e Il secondo tragico Fantozzi (i due capitoli più completi e inarrivabili della saga), ma anche il tentativo di critica sociale de Il... Belpaese (discontinuo ma comunque divertente) e la riproposizione cinematografica del Professor Kranz. In sostanza, la differenza tra il tentativo di sperimentare del Villaggio con Salce e il continuo ripetersi del Villaggio successivo (in particolare con Neri Parenti) è colossale.

Questo è probabilmente il film di Salce in cui Villaggio è meno protagonista in assoluto, per quanto sostanzialmente sempre presente sullo schermo. Rag. Arturo De Fanti è una farsa tutto sommato godibile, in cui viene preso in giro un ideale impossibile di coppia aperta, con la coppia sposata composta da Villaggio e Catherine Spaak che si trova a convivere con una serie infinite di amanti e contro-amanti, creando un quadretto surreale e per quasi tutto il film anche parecchio divertente. Non tutte le gag sono egualmente riuscite, ma (come anticipato) si vede un chiaro tentativo di costruzione originale e una vivacità che attira la simpatia dello spettatore: basti vedere le scene delle rapine in banca, ritratto completamente surreale ma clamorosamente spassoso.
Il soggetto crea un numero sufficiente di situazioni paradossali su cui creare scene mediamente divertenti e un cast pieno di nomi noti si trova a suo agio. Forse il finale è creato in modo eccessivamente caotico senza scatenare grosse risate, ma alla fine la chiusura risulta funzionale.

Tra tutti i volti che si vedono, oltre ovviamente a Villaggio, a mio modo di vedere spicca una sorprendente e spassossima Enrica Bonaccorti, la quale interpreta la domestica per certi versi con il capo-famiglia ha un rapporto comparabile a quello che Florence ha con George Jefferson ne I Jefferson.
Anna Maria Rizzoli tra le icone sexy della commedia di quei tempi è probabilmente quella dal portamento più di classe, ma anche qui non appare realmente portata per i tempi comici (per quanto comunque faccia la sua presenza fisica e affascini tantissimo), Giuffré si trova un personaggio più funzionale alla trama che realmente riuscito, mentre Reder e la Mazzamauro sguazzano allegramente nella situazione assurda che si crea in casa (specialmente Reder si conferma spalla ideale per Villaggio) e Ugo Bologna non si discosta di troppo dal suo tipico personaggio ma si conferma caratterista di rango, una sicurezza assoluta per questo genere di parti.

Insomma, nelle sue imperfezioni questo film è l'esempio di un cinema italiano che tanti continuano a rimpiangere, un cinema che provava a essere creativo e che non era diventato la terra della compiaciuta mediocrità di adesso.

Voto: 7+

venerdì 19 giugno 2020

Cambio Tutto: ma nel cinema italiano non cambia mai niente

Uno script scarso e una atavica mancanza di coraggio condizionano un film che solo nella fase centrale riesce ad apparire interessante, ma che inizia in modo snervante e chiude col solito "happy ending" spento e banale.


Il titolo del film è "Cambio Tutto", ma nel cinema italiano quando cambieranno le cose? Siamo infatti nella solita febbre da remake che ha contagiato il cinema italiano recente, essendo questa una revisione del film cileno "Una Mujer Sin Filtro", film che onestamente non conosco ma che a esempio su IMDB ha al momento un voto medio di 4,8. Insomma, non ci sono idee e si vanno a riprendere dal cinema straniero: per un po' lo han fatto puntualmente con le commedie francesi, adesso hanno cominciato con la mania delle misconosciute pellicole sudamericane, e in questo caso (a fidarsi del giudizio di IMDB, sito in cui anche pellicole mediocri hanno voti oltre la sufficienza) nemmeno da un film buono!
Cambio Tutto è solo nel titolo, perché poi si vedono sempre le stesse cose: luoghi comuni sulle nuove tecnologie e personaggi banalmente stereotipati. Si punta sulla solita vivacità al montaggio e alla regia, una tecnica che potrebbe anche funzionare in parte ma che non è poi così difficile (lo ripeto sempre, lo sanno fare bene anche gli youtuber) e che in casi del genere risulta a tratti parecchio snervante, anche perché dopo un po' capisci che questo serve a nascondere i vuoti dello script.

La prima mezz'ora è parecchio brutta. Ci fanno entrare nel mondo della Lodovini, che si trova circondata da un insalvabile quadro umano: dal vicino del piano di sopra con i party alle 4 del mattino al marito solito pseudo-artista senza sbocchi, passando alle frustrazioni del posto di lavoro con il capo figlio di papà che gli mette a fianco (anzi anche al comando) l'influencer senza cervello (anche qua stereotipi à gogo). Il tutto in un mondo completamente rimbambito dalle nuove tecnologie. Ok, magari in parte è anche così, in parte queste personalità potrebbero anche riflettersi nella realtà (per quanto qua tutto sia portato fastidiosamente all'estremo), ma a livello di costruzione cinematografica cosa dovrebbero dirci questi personaggi? Dietro le varie scene a mostrarci questi caratteri c'è poco, ci fanno vedere dei personaggi snervanti senza provare a costruire delle gag, insomma portandoci nell'esasperazione che farà scoppiare la protagonista.
La quale quindi decide di andare da questo pseudo-guru dei nostri tempi (un Marcorè che non può far altro che riciclare quanto visto e stravisto nella storia del cinema per personaggi simili), che con delle fantomatiche gocce porta la nostra eroina allo sfogare tutta la frustrazione repressa: dopo l'imbarazzante scena in cui la Lodovini deve abbaiare a un cane (mamma mia...), il film ha un minimo sussulto qualitativo, il ritmo del montaggio diventa meno ossessivo e fastidioso e qualcosa di leggermente migliore inizia a vedersi nella sua ribellione di orgoglio: in particolare, la cosa più riuscita è il ridicolizzare il maschio alpha medio che non sapendo affrontare alla pari la reazione della donna si trova a risponderle con il terribile "ho capito, hai il ciclo!".
Dopo questo sussulto il film torna ad accartocciarsi su sé stesso, mostrando la tipica carenza di coraggio del cinema italiano attuale, con un finale spento in cui si vede una specie di pentimento della protagonista, una fase finale che lascia il tempo che trova e che non dice nulla agli occhi dello spettatore, un finale alla stregua del solito falso "volemose bene".

Insomma, la solita commedia italiana attuale affrontata senza coraggio, creata con una certa dose di opportunismo: in un periodo in cui specialmente negli Stati Uniti si sta puntando parecchio a livello cinematografico e di serie tv sui personaggi femminili forti che affrontano a viso aperto gli strali di una società maschilista, in Cambio Tutto provano a inserirsi in questa linea ma senza riuscire a renderla credibile o a costruire per bene le situazioni che circondano la protagonista. Insomma, questo film va avanti col solito "vorrei ma non posso", non premendo realmente il piede sull'acceleratore forse per paura di far storcere il naso ai soliti repressi che altrimenti si metterebbero a sbraitare contro il "nazi-femminismo" (e di tizi del genere in Italia ce ne sono una marea).
Cambio Tutto quindi, pur non avendo una base forte, resta comunque un'occasione persa per proporre qualcosa di più coraggioso: il cinema italiano continua a voler compatire e coccolare lo spettatore, quando invece dovrebbe avere la forza di dare lo schiaffo in faccia a certe convinzioni dell'italiano medio. Se davvero si ha la convinzione di portare avanti un certo discorso, bisognerebbe usare più il bastone che la carota.
E dire che l'impressione è che Valentina Lodovini potesse essere l'attrice giusta per portare avanti con forza certe caratteristiche.

Voto: 2

giovedì 11 giugno 2020

After Life. Come andare avanti?

Piccola perla, capace di divertire e commuovere allo stesso tempo. Ottima.


Ogni tanto Netflix (specialmente con le serie) ci prende. E quando lo fa, lo fa alla grande.
Questa After Life è una piccola gemma, con sei puntate di meno di mezz'ora che scorrono via come niente, ma molto piacevolmente.
Si entra immediatamente nella psicologia del protagonista, che affronta la depressione per un lutto grave (la scomparsa della compagna) in maniera del tutto personale, sostanzialmente con strafottenza verso tutto e tutti. Così si hanno momenti devastanti, con il sarcasmo di Ricky Gervais che non risparmia nessuno, vedi la fulminante risposta data al nipotino alla domanda "perché Gesù non ha salvato la zia?".
Ma allo stesso tempo After Life riesce a commuovere, a seguire il tentativo del protagonista di crearsi una vita diversa.

La brevità della serie è una scelta vincente, non si vede alcuna lungaggine e anzi piace l'interazione con i vari personaggi.
Una mano felice in regia aiuta a dosare i momenti comici con quelli più toccanti e tutto fila via benissimo.

La seconda stagione è un po' meno continua della prima, ma resta di alto livello.

Una vera chicca.

Voto: 9

mercoledì 10 giugno 2020

Soli contro il crimine: trash totale

B-movie a uso e consumo dei fan di Pamela Anderson: tra dialoghi allucinanti e espressività ridicole, si scade continuamente nella comicità involontaria. 


Visto il successo assoluto (zero), questo film è uscito sotto una quantità enorme di titoli, sia in USA che in Italia. Il titolo originale più noto è "Raw Justice", ma è uscito anche col nome di "Good Cop, Bad Cop" e addirittura "Strip Girl". In Italia è uscito inizialmente come "Soli contro il crimine", ma in DVD (e anche su Amazon Prime) è andato con il fuorviante (sembra il titolo di un pornazzo) "Pam XXX - Indagine ad alto rischio" (oppure "Pam XXX - Squillo ad alto rischio"). Il che già fa capire la traiettoria magnifica avuta da questo film.

E' chiaramente una pellicola nata a uso e consumo dei fan di Pamela Anderson (che in quegli anni non si sapeva come piazzare e fece quattro di film del genere), ma che anche nel campo dei b-movie tocca un livello semplicemente allucinante.
Infatti è un meraviglioso delirio, girato in maniera del tutto improvvisata, con il regista che doveva essere sia svogliato che incapace.

Pam appare nella prima scena, è una prostituta (tanto per mettere subito in chiaro le cose) e un devastante David Keith le ruba i vestiti per inseguire un omuncolo che non aveva rispettato la libertà vigilata. Non rivedremo più Pamelona fino alla mezz'ora del film e ci accorgeremo di quanto non sia lei la peggiore a livello interpretativo nel film.
Intanto una bellona (April Bogenschutz) ha un appuntamento disastroso con quello che è un volto noto: incredibilmente a recitare (malissimo) in questo filmaccio c'è Robert Hays, uno che in realtà sarebbe un attore di culto anche soltanto per essere stato il Ted Striker del meraviglioso L'aereo più pazzo del mondo! Incredibile che sia finito qui, la sua carriera deve aver avuto un capitombolo disastroso.
Si scoprirà poi che la bellona è la figlia del sindaco. Intanto, sempre per capire l'intento artistico della pellicola, la fanno tornare a casa e arriva il cattivone a strangolarla. Tutto qui? No ovviamente, mica poteva morire sporca dopo la faticosa uscita, prima c'è bisogno di metterla (così aggratis) sotto la doccia, per momenti di grandissimo cinema.
I poliziotti ovviamente credono che ad averla ammazzata sia stata Hays e fanno irruzione già in piena notte nel suo appartamento, svegliandolo al buio con la sola luce delle torce e portandolo a dire un meraviglioso "ma è un nuovo videogame questo?".
E via così per tutto il film, contornato da dei dialoghi buttati lì a casaccio e dalle espressioni facciali di tutti gli attori (basti vedere il sicario killer della bellona con che espressione muore al minuto 15) che portano immediatamente nel puro delirio, visto che si arriva continuamente a della splendida comicità involontaria.
Hays intanto viene liberato, torna a casa di mattina, sente un odorino strano, con una naturalezza splendida (??) apre immediatamente il frigo e (mentre alle spalle si nota un orologio da parete con la lancetta dei secondi ferma!) trova dentro di questo (sì, la lettera era dentro il frigorifero, a prendere fresco) la finta lettera con la sua confessione dell'omicidio della bellona, lasciandolo perplesso: "Ma questa è la mia calligrafia!!". Bellissimo. Gli occhi vanno alla cucina, primo piano: il gas è aperto (ecco l'odorino!). E via di corsa in tuffo fuori casa proprio mentre tutto stava esplodendo. Magnifico. Riuscire a far ridere così tanto quando si vuole esser seri è strepitoso.

Ma torniamo a David Keith, che domina il film in quanto a recitazione da cani. Prima mena un poliziotto (che poi si capirà che è nel pieno del mega-complotto) che lo prendeva in giro (e anche Leo Rossi ci regala una faccia magnifica prima di farsi rompere il naso), poi scova Hays con cui ha un dialogo strettissimo di qualità finissima: "Mi hai inseguito!" "Scappavi!!!". Dialoghi di una ricercatezza unica.
Davvero la "prestazione" di Keith è una cosa fuori dal mondo: nella vita ho visto tanti film brutti e tanti attori recitare malissimo, ma quello che combina lui va oltre l'immaginazione, per una delle peggiori interpretazioni possibili. Soprattutto è un disastro quando dovrebbe essere simpatico o sarcastico. Memorabile quando irrompe con la mazza da baseball nell'ufficio di un omuncolo e prova a prenderlo in giro con gli "ohh ci speravo" o i "bugiaaa", regalandoci una mimica facciale devastante soprattutto per la capacità (o l'incapacità) di passare dal sarcastico al cattivissimo nel giro di un secondo, una scena strepitosamente trash.

Pamelona intanto era tornata, ha un dialogo anche qui surrealmente intenso con Hays ("ho scelto l'uomo sbagliato [...], ha detto che avrebbe smesso è saremmo andati in California" "e invece?" "è morto". Sembra black humor, uno scambio serrato da sit-com, in realtà vorrebbero essere struggenti) e poi è chiamata a fare le due scene clou della pellicola (l'unico motivo per cui questo film è stato prodotto), due scene che a quanto racconterà in futuro sono state un "esperienza orribile" per lei: per la serie, ma come diavolo hanno girato sto film? Pam dirà che addirittura pianse per queste scene. Probabilmente il riferimento è all'assurda prima scena di sesso, quella con David Keith che dopo che erano inseguito dal nulla in strada inizia a copulare con lei attaccati al muro, una cafonata unica. Ne farà un'altra poi con Hays (già, lo script raffinato prevedeva che si accoppiasse con entrambi i protagonisti) ma quella più ordinaria, per quanto entrambe le scene (così come la già descritta doccia della Bogenschutz) buttate lì senza motivo in modo gratuito, per mettere una finta patina di eros (che poi l'erotismo sarebbe altra cosa) nella banalissima vicenda poliziesca. In definitiva, coi suoi limiti da attrice, la Anderson resta l'unica (anche per definizione del film) a non essere completamente fuori luogo.

Si va avanti così, con i soliti dialoghi buttati a casaccio (ci hanno messo anche un "ora capisco come si sentiva Lee Harvey Oswalt", così senza alcun senso!) e una sceneggiatura forzatissima, con colpi di scena telefonati, arrivando a un finale in cui oltre al sangue a fiotti si vede anche come il regista non abbia alcuna voglia di far nulla nelle scene di azione, di una staticità strampalata.

Il quadro è allora completo per un film degno di entrare nel gotha assoluto del trash mondiale.
Vedere per credere.

Voto: 1--

domenica 7 giugno 2020

The IT Crowd: ha provato a spegnere e riaccendere?

Strepitosa sitcom britannica che gioca sul campo nerd un anno prima che lo facessero gli americani con The Big Bang Theory


Se gli americani hanno il difetto cronico di tirare troppo per le lunghe tante serie tv, i britannici hanno esattamente il difetto opposto, quello di produrne molte meno puntate del dovuto.
Basti pensare a due serie tv per certi versi comparabili, per il fatto che sono nate in periodi ravvicinati (quella americana un anno dopo) e per essere delle sit-com concentrate sul tema dei nerd: in USA The Big Bang Theory viene tirata davvero troppo per le lunghe scialacquando parecchio il proprio potenziale e portando a tanti momenti interlocutori non esattamente interessanti, toccando il numero spropositato di 281 puntate, mentre in UK The IT Crowd chiude dopo appena quattro stagioni (più una maxi-puntata finale) con un totale di 25 episodi quando si vedeva che questa serie poteva ancora dare tantissimo.

Trovandosi in anticipo di un anno sul tema "nerd" rispetto alla più famosa serie americana, The IT Crowd riesce a essere anche più forte, per l'elevatissima qualità media delle puntate e per esser riuscito a rendere molto divertenti i protagonisti principali con una caratterizzazione eccezionale, finendo per renderli meno macchiette rispetto a quanto accade in The Big Bang Theory.
La forza è tutta nella scrittura, molto ricercata e di altissima qualità, capace di rendere quasi tutte le puntate tutt'altro che banali e casuali, con attenta cura nei dettagli che finiscono per tornare buoni a un certo punto della puntata per creare una gag divertente.

Il plot è semplice, Roy (Chris O'Dowd) e Moss (Richard Ayoade) sono gli esperti di computer di un'azienda (da qui uno dei rari tormentoni della serie, l' "ha provato a spegnere e riaccendere?" in risposta ai problemi coi computer dei dipendenti) lavorano nel seminterrato e si ritrovano una manager (Katherine Parkinson) che non conosce assolutamente nulla di tecnologia informatica, tanto da non sapere nemmeno il significato dell'acronimo IT o da pensare che una scatoletta contenesse l'intero internet mondiale.
Questa è la base su cui gli autori si scatenano, trovando interpreti straordinariamente in parte (bravissimi tutti, ma Ayoade merita una menzione speciale) e formulando una serie di puntate incredibilmente divertenti, non per forza concentrate unicamente sul campo tecnologico: basti vedere la prima puntata della seconda stagione, che vanta una finezza di scrittura degna del miglior Seinfield, in cui i tre protagonisti si imbattono in situazioni completamente assurde andando a teatro, possibilmente la puntata migliore dell'intera serie.
Ma questo numero ridotto di puntate ha in sé tantissime situazioni deliranti: si pensi al numero per le emergenze (lo 0118 999 881 999 119 725 3), il generatore automatico di frasi sul calcio (usato da Roy e Moss per non sentirsi inadeguati nei discorsi "da uomini") o lo Street Countdown, per citare giusto alcune delle situazioni che si ritrovano nel corso delle stagioni.

Sostanzialmente forse solo in un paio di puntate non si ride continuamente dal primo all'ultimo momento. Ed è davvero un peccato pensare che non ci sia stato modo di sfruttare un po' di più questo meccanismo strepitoso, perché per come funziona questa serie 25 puntate sono troppo poche: peccato.

Voto 9,5

mercoledì 3 giugno 2020

Una vita spericolata: pattume all'italiana

Uno di quei film totalmente disastrosi e insensati che ti spingono a detestare completamente il cinema italiano attuale.


Marco Ponti (regista che di solito evito allegramente visto che ha firmato parecchie schifezze con Scamarcio protagonista, ma che avevo già "apprezzato" nello squallido Passione Sinistra, film dominato da banalità e qualunquismo) in questo film vorrebbe giocare a fare il Tarantino de noantri, con pure una dose di cinico opportunismo per provare a entrare (in piena Casa di Carta mania) nella scia del genere dei "ladri buoni": un mix devastante, non solo per chi (come in sottoscritto) non è particolarmente fan di Tarantino, al quale però riconosco la capacità di saper giocare col grottesco. Il grottesco è un genere molto ostico, se lo sai fare raggiungi livelli eccellenti, ma se non lo sai fare scadi facilmente nel ridicolo ed è questo che si finisce a vedere in Una Vita Spericolata, un film dominato da personaggi sbagliati (tutti i non protagonisti sono pure macchiette senza una minima personalità accettabile) e da dialoghi pregnanti di un'idiozia che ricalca perfettamente la generazione attuale. Ponti vorrebbe essere surreale e stravagante, ma lo fa confermando le succitate doti di totale banalità e qualunquismo, aggiungendo la solita triste mancanza di coraggio tipica del cinema italiano, portando a una serie di scene scollate in cui domina unicamente il senso di ridicolo: si passa da smancerie risibili a esagerazioni pseudo-tarantiniane che fanno solo ridere per quanto sono patetiche.

Tutto ciò porta al totale disarmo gli attori protagonisti. Lorenzo Richelmy inizia col solito sguardo totalmente allucinato visto anche (tremendamente) in Dolceroma (di gran lunga il peggior film che ho visto al cinema nel 2019), poi si normalizza e mostra semplicemente di non avere alcuna dote da attore vero: in particolare spicca una certa apatia e antipatia di fondo, che rende impossibile seguire il suo personaggio con un minimo di trasporto o compassione, anzi quando lo vedi malmenato dai cattivi sei pure contento (pur sapendo che è finzione cinematografica).
Eugenio Franceschini vorrebbe fare il James Franco e sostanzialmente ci riesce, bisogna dirlo: raro vedere un attore protagonista restare così anonimo nella totale durata del film, senza una minima impennata, qualità che spesso riesce anche allo stesso Franco.
Matilda De Angelis invece per certi versi non ha nemmeno l'occasione di mostrare un minimo di personalità, visto che si trova vittima del solito maschilismo imperante nel cinema italiano attuale (d'altronde è un mondo in cui Brizzi regna sovrano e con lui la sua visione malata delle donne finisce per contagiare pure gli altri) e quindi si trova appiccicata addosso il solito personaggio femminile vuoto e ricalcato di soli stereotipi, ovvero l'attricetta che ovviamente per tirare avanti vive di favoretti a produttori e non solo ("era solo uno sceneggiatore" dice disperata raccontando di un suo pompino finito su internet). Altrettanto ovviamente non manca la breve esposizione mammellare, per schiacciare l'occhio ai voyeur in finto stile chic, nella scena del threesome che risulta essere di una totale tristezza massima.

Il suo personaggio si sente di essere un iPhone5 in un'era in cui è uscito l'iPhone8: ebbene, agli occhi dello spettatore questo cinema italiano sembra un iPhone1 quando invece gli iPhone di ultima generazione erano già usciti negli anni '60-'70, quindi si va indietro tutta invece di andare avanti. Sì, perché dietro la finta patina "gggiovane" (giochini di regia e di montaggio, roba che però persino gli youtuber riescono a compiere) c'è un marciume che rende già di partenza interiormente vecchio e superato questo cinema, incapace di offrire storie interessanti e appesantito da sceneggiature sciatte e risibili.
Una Vita Spericolata ha in sé più o meno tutte le caratteristiche che sono sbagliate nel cinema italiano attuale. E' un film frustrante, che già dopo mezz'ora ti fa capire di non avere nulla da dire e che all'arrivo dei titoli di coda ti lascia un pesante senso di frustrazione e per certi versi di schifo, cosciente di aver perso 100 minuti di vita per la visione di qualcosa di totalmente inutile (che per fortuna dimenticherai in poche ore).
Poi però ci verranno a raccontare che la causa della crisi del cinema italiano è dovuta alle nuove tecnologie, alle piattaforme di streaming o ad altre boiate a cui attaccarsi disperatamente nello scrivere ogni mese o ogni settimana i banalissimi (e perdenti in partenza) editoriali delle riviste di settore: mica la crisi arriva perché si intestardiscono a proporci pattume del genere, nooo.

Voto: 1