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martedì 31 dicembre 2019

Crisis in Six Scenes: Woody Allen da attore ha ancora tanto da dare

Più che una serie è un film diviso in sei parti ma va benissimo così, perché Allen ci regala una serie intelligente e divertente senza mai cadere di tono.


Passato piuttosto in sordina (forse perché in Italia ci siamo abituati un po' tardi a questi servizi di streaming come Amazon Prime), Crisis in Six Scenes è un prodotto da ripescare, non fosse altro per la curiosità di vedere uno come Woody Allen misurarsi con il mezzo della serie e soprattutto perché potrebbe essere a tutti gli effetti l'ultima volta che vedremo il vecchio Woody recitare.
In realtà Allen si adatta alla serialità a modo suo, visto che si trattano di sei puntate di poco più di 20 minuti, a formare in sostanza un film che supera di poco le due ore ma tagliato in sei parti. Ma basta vedere subito la prima scena dal barbiere per capire che Woody è ancora sé stesso, è ancora capace di divertire nel suo modo personale e molto superiore rispetto alla media. Qui lo vediamo davanti alla macchina da presa per la prima volta da quando ha compiuto gli 80 anni e lo ritroviamo piuttosto in forma: le solite ansie, il solito personaggio ipocondriaco (strepitosa la scena dal medico, uscendo dal quale si capisce che aveva scambiato le labbra screpolate per una cancrena!) tipicamente alleniano si sposano ancora benissimo al vecchietto della medio-alta borghesia, facendo pensare che il newyorchese possa ancora dare qualcosina anche da attore, non solo da autore-regista.

La serie scorre molto bene, con parecchi momenti surreali dovuti al personaggio di Miley Cyrus, sorprendente (un po' come un'altra ex Disney Selena Gomez nell'appena uscito Un giorno di pioggia a New York) perché riesce a risultare tutto sommato credibile nel ruolo da rivoluzionaria, nei discorsi politici maturi che nessuno metterebbe in bocca a una ex starlet della Disney. Allen invece ci prova e ci riesce con ottimi risultati, ottenendo dalla Cyrus anche qualche scontro generazionale parecchio divertente, con le battutine piccate e sarcastiche della giovane nei confronti dell'anziano (specialmente nella terza puntata). Miley Cyrus entra nella scena come un ordigno che scombussola le vite di tutti, portando a situazioni abbastanza deliranti come le vecchiette borghesi del club del libro che finiscono per leggere e citare con convinzione nientemeno che Mao o Karl Marx.

Sono ben centrati tutti i personaggi e a divertire è anche Elaine May, a cui spetta sostanzialmente un ruolo alla Diane Keaton: lei è la moglie di Woody Allen, che dispensa a varie coppie dei consigli stramboidi, come il portare un marito fedifrago e frequentatore di escort a pagare la moglie per provare la stessa ebbrezza, con risultati deliranti.

Si ride parecchio e la serie funziona anche perché Allen evita riempitivi inutili e riesce ad andare al sodo, regalandoci sei puntate di alto livello artistico, umoristico e senza mai cadere di tono. E' un Allen ancora unico nel suo stile, capace di farci ridere senza per forza spegnere le nostre cellule neuronali, anzi riuscendo a mettercele in moto.

Voto 9.

lunedì 30 dicembre 2019

Tre uomini e una gamba: ormai un classico

Un film comico può funzionare e restare fresco a distanza di anni anche se magari è poco "film" come questo.

Perché Tre Uomini e una Gamba resta un film così divertente anche a distanza di oltre 20 anni?
Perché è l'elogio della semplicità, un film creato senza alte ambizioni che punta unicamente sull'estro e l'affinità dei tre protagonisti.
Anche andando a riciclare gli sketch visti in teatro e riproponendoli con una minima rivisione, tutto l'insieme funziona perché permette ad Aldo, Giovanni e Giacomo di dare il meglio di loro, liberi da ogni schema e con la possibilità di esprimere la loro comicità originale.
Pur sapendo quasi per filo e per segno a memoria i dialoghi e le battute dell'intero film, guardarlo ancora ora diverte e questo va ben oltre i limiti che può avere ogni "primo film" di comici televisivi e teatrali, ovvero una sceneggiatura magari imperfetta e una regia soltanto funzionale e nulla più.

Oltretutto il trio qui è in una forma sensazionale, una forma che purtroppo via via s'è appannata portando specialmente nell'ultimo decennio a risultati ben lontani da quanto ci avevano abituati (forse per l'incapacità di sapersi riaggiornare nello stile e nella proposta comica, diventando un po' la copia sbiadita di loro stessi una volta che l'impatto "fisico" di alcune gag per forza di cosa diventata improponibile con l'avanzare dell'età). In particolare Giovanni in questo film appare irresistibile, semplicemente perfetto, con le sue sparate da pignolo, il suo essere arrogante e precisino e con una serie di espressioni facciale passate alla storia della comicità italiana (il "ma vai, ma vieni" per aver battuto un bimbo a braccio di ferro resta una vetta meravigliosa).

Come puoi avere qualcosa da ridire di un film quando una quantità così ampia di battute è rimasta nel nostro immaginario a distanza di anni, quando ancora un prodotto simile è lontano dallo stufare? Sicuramente ci sarà una marea di film superiore a livello tecnico, ma la freschezza di questo film resta irraggiungibile e il voto deve essere per forza altissimo.

Voto 9.

giovedì 19 dicembre 2019

Il mistero Henri Pick: il fascino del film intelligente

Commedia intelligente ma leggera molto "alla francese" che risulta essere piacevole e a tratti anche discretamente divertente. 


In un'epoca in cui media e spettacolo (e la società nel suo insieme) sono affetti da un mastodontico istupidimento generale, è bello vedere ogni tanto un prodotto intelligente, per quanto non certo "pesante" nella sua struttura. Il mistero Henri Pick è un film destinato a essere abbastanza snobbato in Italia, in quanto la Nazione in cui non si legge (più) non può certo accogliere a braccia aperte un film così incentrato sui libri e sulla cultura, ma è l'ennesimo esempio di buona commedia francese in cui basta uno spunto discreto per portare a un film piacevole sostanzialmente nell'intera sua durata.

E' un film che fa della leggerezza il proprio punto di forza, rendendo così interessante il "delirio complottista" (così viene definito da uno dei personaggi del film) del protagonista, un critico letterario un filo arrogante e inizialmente discretamente snob a cui presta bene il volto un ottimo Fabrice Luchini: il suo Jean-Michel Rouche diventa così ossessionato dalla figura di Henri Pick, il pizzaiolo scomparso da due anni che si scopre autore di un capolavoro della letteratura moderna francese, uno mai visto né scrivere né tantomeno leggere nemmeno dai suoi più stretti parenti ma all'apparenza capace di inserire nella sua opera clamorose citazioni provenienti dalla letteratura russa. Può essere davvero lui l'autore di un'opera del genere?

Il film così ci mette la pulce all'orecchio e ci incuriosisce per capire come siano andate davvero le cose, ma nel frattempo segue uno stile tipico della commedia francese, con un'aura di qualità in cui però non stonano nemmeno un paio di gag grevi (nella libreria coi manoscritti rifiutati dagli editori da cui viene scoperto il capolavoro di Pick troveremo poi degli stagisti mandati dalle case editrici a sperare di trovare una nuova perla nascosta ma poi costretti a leggere robe con titoli come un esilarante "Le bambole gonfiabili non hanno problemi di menopausa", un libro che onestamente sarei stato curioso di leggere anche io): è il contesto quello che cambia tutto e persino la classica (e abusata) scena della cannetta viene resa accettabile e ha un suo senso nel quadro del film.

In definitiva un film che senza particolarmente strafare riesce a essere piacevole, ben recitato e che merita sicuramente la visione.
Voto 7,5

giovedì 5 dicembre 2019

Cena con delitto: giallo gustosamente divertente

Discreto a livello di giallo puro, con qualche inceppo di sceneggiatura, ma trova la propria forza nella capacità di essere ironico e cattivo in una fase centrale molto più vicina alla black comedy, tanto da risultare alla fine anche gustosamente divertente. Eccellente Ana de Armas.

Il delitto del titolo italiano (comunque insulso, chiaro segno che chi ha scelto questo titolo non ha visto il film) arriva subito, evitando inutili preamboli. Proprio questo permette al regista Rian Johnson di instaurare un ritmo costante che risulta essere una delle forze della pellicola, tanto che la durata di oltre due ore non pesa per nulla, anzi il minutaggio del film scorre via agevolmente.
Partito con la seriosità classica dei gialli, con un'ambientazione che può ricordare i classici gialli alla Agatha Christie (con l'investigatore Benoit Blanc a inserirsi un po' alla Poirot o alla Sherlock Holmes), Knives Out sorprende però nel non essere completamente omologato a questo genere, provando sì (soprattutto nella parte iniziale e finale) a darne una versione rimodernata, ma che dopo la mezz'ora introduttiva ha una virata degna di una black comedy che risulta parecchio divertente. Fondamentale in questo la presenza di quello che (oltre all'investigatore) diventa il personaggio di spicco, la Marta interpretata benissimo da Ana de Armas: in un cast pieno di nomi di primo piano, è proprio la giovane cubana a dare un'anima diversa al film, con la sua infermiera che non è semplicemente la più "vicina" alla vittima, ma che via via assume un carattere parecchio interessante. Ana de Armas riesce a dare al proprio personaggio una naturalissima dolcezza di fondo, aggiungendoci però (specie nelle fasi centrali nel tentativo di nascondere le proprie tracce) una goffaggine che porta a scene discretamente divertenti e che proprio per questo la rende come il fulcro del cambio di registro che si vede nella fase centrale del film. In sostanza, queste caratteristiche permettono allo spettatore di trovare (in un pieno di personaggi volutamente poco simpatici) la propria empatia con questa giovane infermiera, tanto da parteggiare per lei nelle parti più critiche del film.

A differenza dei gialli tipici alla Agatha Christie, che sono ambientati nell'alta borghesia ma con una nota di forte rispetto per questa, qua la scrittura è cattiva e per certi versi ci propone una specie di satira sulla famiglia in questione, mostrandoci tutte le ipocrisie dei figli e dei nipoti della vittima: ci viene descritta una famiglia avida e anche viscida, il cui unico ricordo di Harlan Thrombey è legato alle fortune e alla proprietà. Una serie di caratteri ambigui che mostrano tutte le loro bassezze in particolare dalla godibilissima scena della lettura del testamento in poi, quando appunto ognuno dei figli (e dei nipoti) arriva ai ferri corti. Bene sia Toni Colette che Don Johnson, ma a piacere anche di più in questo ruolo ambiguo sono gli ottimi Michael Shannon e soprattutto la sempre bravissima Jamie Lee Curtis, i cui primi piani "acidi" danno un altro volto interessante e pepato al film.
All'apparenza più di secondo piano, ma ben tratteggiate anche le figure giovanili, quelle dei nipoti della vittima, con la Meg di Katherine Langford che sembra avere il piede in due scarpe, provando a essere sia amica dell'infermiera (non aggiungendo altro per evitare spoiler) sia a tirare l'acqua al mulino familiare, mentre il 16enne (definito "neonazista") Jacob (interprato da Jaeden Martell) è volutamente inespressivo e rappresenta per certi versi il ragazzino viziato e perfido con chi non ritiene alla propria pari. Tra i nipoti spicca (anche per carisma, ma non solo) l'eccellente Chris Evans, che con il suo cinismo e la sua strafottenza regala un paio di risate grasse (straordinario nella già citata scena della lettura del testamento).

Insomma, i Thrombey si rivelano la classica famiglia perfetta solo di facciata, per poi trasformarsi in squallidi avvoltoi alla prima occasione utile, con nessuno a salvarsi e a dimostrare una maggiore morale rispetto agli altri. Anzi, la famiglia dimostra anche un razzismo di fondo, non solo nei discorsi (in realtà non così incisivi) sugli immigrati, ma soprattutto nel dare all'infermiera una nazionalità ogni volta diversa qua e là nel film, in una sorta di mini-gag che si ripete almeno quattro volte (a memoria Marta viene descritta dell'Honduras, dell'Uruguay, del Paraguay e del Brasile).

Ovviamente un film del genere non può riuscire se la figura di squilibrio come quella dell'investigatore privato non fosse ben centrata e in ciò sorprende l'interpretazione di Daniel Craig, che evidentemente crede fortemente nel proprio personaggio: in un film che fondamentalmente vuole riaggiornare i canoni del genere giallo, il suo Benoit Blanc sembra volersi ispirare per certi versi alla deduttività dello Sherlock Holmes, all'affabilità e al sottile humour dell'Hercule Poirot e in qualche modo anche al tenente Colombo nel suo rapporto con l'infermiera Marta. Craig appare più sciolto di quanto personalmente potessi immaginare e risulta assolutamente funzionale (se non di più) sulla piacevolezza del film.

In sostanza è un film che magari da giallo puro non è troppo brillante o originale (e in alcune fasi si nota qualche inceppo di sceneggiatura), ma che si fa piacere per fluidità, per buona tecnica (bellissima la scenografia, ottima la fotografia, di ottimo livello la regia) e soprattutto per la capacità di non prendersi eccessivamente sul serio, tanto da risultare anche gustosamente (senza essere sguaiato) divertente. Il voto sarebbe tendente al 7, ma dò un punto in più per la fase finale, quella immediatamente successiva alla risoluzione del caso.

Prendi i soldi e scappa: la meravigliosa storia di Virgil Stark

Il Woody Allen degli inizi, quello più sfacciatamente comico, ci regalava già chicche imprescindibili. 

Nonostante il suo stile debba essere (giustamente, essendo ancora il suo esordio vero) affinato, Prendi i soldi e scappa resta comunque un capitolo fondamentale nella filmografia di Woody Allen, soprattutto per assaporare la sua fase puramente comica, con punte di grande cinema demenziale (a ricordare ciò che sostengo sempre, ovvero che per fare il vero demenziale bisogna essere parecchio intelligenti).

La carriera criminale di Virgil Stark, seguita nello stile del finto documentario (genere che solitamente non amo, perché raramente è brillante e centrato come in questo film), porta a spunti di splendida comicità, per un film che è una serie di gag senza pause. Demenziale, anche surreale, Woody Allen esalta il suo talento comico con tante scene destinate a entrare nella storia.

Si può però anche vedere qualche momento dell'Allen che sarà, in particolare nelle riflessioni con la voce fuoricampo che seguono il primo incontro con la futura compagna Louise con la celebre "dopo quindici minuti avevo già deciso di sposarla, dopo mezz'ora avevo rinunciato del tutto all'idea di rubarle la borsetta".

Insomma, in futuro Woody si migliorerà (e tanto), ma già il suo esordio rappresenta una chicca per il cinema comico americano. E dopo tutti questi anni (adesso ne sono passati 50) resta una visione assolutamente piacevole.

Voto 8.

giovedì 28 novembre 2019

Un giorno di pioggia a New York: Woody con le polveri bagnate

La scelta disastrosa di Timothée Chalamet come protagonista appesantisce un film certamente non brutto, ma comunque da considerare minore nella eccellente filmografia di Woody Allen.


Il tanto atteso e altrettanto tribolato (e checché se ne dica nella Nazione che tutto perdona, tutto dimentica e tutto abbuona come la nostra, le motivazioni c'erano tutte per una vicenda inquietante, ancora troppo nebulosa e impossibile da dimenticare anche dopo tutti questi anni, questo genere di accuse non possono mai andare in prescrizione nella memoria generale e a dirlo è un alleniano come il sottoscritto) "Un giorno di pioggia a New York" ci propone un Woody Allen minore e non particolarmente ispirato, in un film che regala comunque 90 minuti leggeri per il solito mestiere di un artista che sa ancora dirigere e scrivere come pochi, ma per un film che allo stesso tempo difficilmente verrà ricordato tra qualche anno.
Non è certo un film brutto come Vicky Cristina Barcelona e To Rome With Love (i due grossi passi falsi della filmografia alleniana che ormai si approssima al cinquantesimo film), ma è uno di quei film che scorrendo i titoli delle produzioni alleniane ti farà dire "ah, ma ha fatto anche questo?".

I punti di forza sono la bravura registica del vecchio Woody, che riesce a scrivere come sempre dei dialoghi ben al di sopra della media (anche se su questo c'è qualcosa da dire più avanti) e creare quell'atmosfera inimitabile, dovuta al mix tra le solite musiche jazzate e il forte impatto visivo, ancora più forte quando l'ambientazione è quella newyorchese tanto cara ad Allen. Questo basta a far scorrere velocemente i 90 minuti senza mai annoiare, ma le avventure dei due protagonisti nella magnifica New York piovosa non sono certo memorabili, sono incapaci di appassionare e di lasciare il segno. Specialmente le vicende di Gatsby senza i dialoghi ricercati degni di Woody Allen sembrerebbero quelle di una mediocre serie tv adolescenziale.

Oltretutto non convince il casting maschile del film. La popolarità che ha Leiv Schreiber per me è un totale mistero: in sostanza questo attore sa fare unicamente l'espressione un po' da cane bastonato tipica di Ray Donovan e quella soltanto, il che può andare bene (in parte) in quella serie tv che gli calza a pennello, ma qua ci si accorge di una totale mancanza di alternative. Insomma, la sensazione che hai è che Ray Donovan sia finito a fare il regista, nulla più.
Ruolo difficilissimo nei film di Allen in cui il regista non è presente da attore (ormai per ovvie ragione, la quasi totalità) è quello del protagonista maschile, perché viene facile ripensare a certe pellicole memorabili e a paragonare la presenza principale con quella storica di Woody Allen. Un ruolo difficilissimo che sulle spalle dell'imberbe Timothée Chalamet pesa come un macigno: vedere certe frasi e certe citazioni in bocca a Chalamet sembrano davvero poco credibili. Chalamet non regge la scena quando deve tirare fuori quelle due-tre frasi sarcastiche "a la Woody Allen" e annaspa senza meta, senza sapere cosa fare in un ruolo che proprio gli sta troppo largo. E la scelta disastrosa dell'attore protagonista è una delle peggiori piaghe del film.

Per quanto (giustamente, ripeto senza voler creare fraintendimenti, visto che le accuse non sono mai state cancellate in maniera chiara, anzi sono rispuntate in maniera pesantissima con la forte e toccante intervista di Dylan Farrow alla CBS: davvero mi sconcerta leggere in questi giorni certe assurdità in riviste e siti di queste latitudini) lui sia visto ora come un cancro dalle correnti femministe americane, Allen invece difficilmente sbaglia il casting delle attrici femminili, anzi riesce sempre a creare ruoli importanti per loro e a esaltarle: senza voler tornare a nomi storici come quelli di Diane Keaton e Mia Farrow per un paragone impossibile da reggere, il pensiero va alle varie Scarlett Johansson, Helen Hunt o Mira Sorvino di turno, viene difficile ricordare delle protagoniste femminili non esaltanti nelle pellicole del newyorchese. E il bersaglio è ancora centrato pur puntando su un'attrice molto giovane come Elle Fanning, che regge splendidamente la scena e (pur in un personaggio costretto a girovagare tra registi, sceneggiatori e attori senza un reale colpo di coda notevole) riesce a dare un tocco elegante alla propria recitazione.
A stupire più di tutti però è la presenza di Selena Gomez, il cui personaggio deve punzecchiare il protagonista Gatsby con delle battute abbastanza cattive: non diresti mai che un ex volto della Disney possa essere credibile nel recitare battute simili, eppure invece la Gomez sorprende per credibilità e riesce a far sorridere (cosa che invece Chalamet non riesce mai a fare nelle battutine tipiche alleniane).

Infine, pur apprezzando la solita regia (magari non indimenticabile come in altre pellicole, ma comunque efficace e professionale), stupisce dover vedere un errore tecnico marchiano da uno che invece sul piano tecnico è ricercatissimo come Woody Allen. Il mio riferimento è alla scena del taxi, in cui i capelli bagnati di Selena Gomez cambiano pettinatura a ogni inquadratura, una roba grossolana che si ripete una quarantina di volte (tanto che addirittura i capelli bagnati diventano asciutti, poi di nuovo bagnati, poi cadono in modo diverso sull'orecchio, tutto senza una logica). Un errore sconcertante davvero clamoroso e che probabilmente nell'intera filmografia alleniana si era visto soltanto nel già citato To Rome With Love.

Insomma, la pioggia del titolo ha avuto anche un po' l'effetto di bagnare le polveri di Woody Allen. Nonostante tutto, un film non sufficiente ma che è impossibile stroncare completamente: evidentemente Allen riesce a salvare anche delle pellicole poco ispirate come questa.

giovedì 21 novembre 2019

Cetto c'è, senzadubbiamente: Albanese c'è, la sceneggiatura no

Cetto Laqualunque funziona ancora e Albanese riesce a creare qualche momento divertente, ma il film è annacquato da una sceneggiatura troppo spenta e per nulla creativa.

Dopo un primo capitolo capace di essere ancora adesso divertente (pur nei suoi difetti di fluidità) per l'introduzione al cinema di un personaggio sfavillante come Cetto Laqualunque, ma anche dopo un secondo capitolo riuscito piuttosto male e dimenticabilissimo, Antonio Albanese e Giulio Manfredonia (più il primo che il secondo) ci riprovano cambiando un po' il mirino per gli sviluppi sempre più biechi dell'attualità italiana: basta questo per fare un buon film?
Ovviamente no, serve (specialmente al terzo atto) una sceneggiatura forte, capace di far male sui temi attuali interni o perlomeno capace di creare un clima surreale insolito. Purtroppo tutto questo in "Cetto c'è, senzadubbiamente" non c'è proprio (senzadubbiamente). I riferimenti che qualcuno poteva aspettare sulla corrente becero-sovranista sono minimi (sempre se ci sono), quindi in realtà la satira viene tagliata fuori in partenza, così come la componente grottesca è poco viva. Di fatto, il film segue logiche da commedia vista e stravista, tanto che buona parte degli spettatori con una non eccelsa esperienza cinematografica può capire fin da subito dove il film vuole più o meno andare a parare nella sua storia, troppo lineare e troppo prevedibile. Tutto ciò impedisce la caratterizzazione dei personaggi di contorno a quello che (ovviamente) è il grande protagonista, cosa che invece in Qualunquemente era un po' più presente: il figlio di Cetto sembra il luogo comune del giovane attuale e non ha carattere, l'ex moglie di Cetto purtroppo di vede solo un paio di volte (ed è l'unico personaggio capace in sé di regalare delle risate nella sua sfuriata contro l'ex marito), la nuova moglie è un corpo e poco più, l'onnipresente Pino sorprende solo quando cita Giulio Cesare ma per il resto nulla aggiunge.

Il film è quindi troppo sulle spalle di Antonio Albanese, che pure è debordante e non a caso riesce a regalare i momenti più divertenti quando riesce a liberarsi da un contorto troppo lineare e a garantire le stravaganze tipiche del personaggio di Cetto: la sceneggiatura infatti non regala poi momenti così divertenti, quindi tutte le risate sono dovute all'estro di Albanese. Devastante alla cena con i nobili (sorpreso di quanta gente ci sia che non faccia nulla nelle proprie giornate), trascinante quando al matrimonio canta il ritornello dell'assurdissima Il Vero Amore, inno al meretricio che sembra calzare fin troppo bene al carattere di troppi uomini che si ricordano di avere gli attributi solo durante l'atto sessuale ("Il vero amore è solo a pagamento, se pagherai in contanti ti sentirai contento, il vero amore non cede al sentimento, la paghi la saluti e non c'è sfracanamento").

Per cui si ride sì, perché il talento comico (e anche attoriale, Cetto non è solo volgarità spiazzanti ma anche espressioni strafottenti interpretate perfettamente da questo grande attore) di Antonio Albanese resta eccelso, ma purtroppo resta superiore agli stessi film che interpreta. Il personaggio funziona ancora, perché purtroppo l'odiernità italiana lo rende fin troppo attuale (basta appunto spostare un minimo il mirino), ma allo stesso tempo non può ottenere un voto superiore alla sufficienza perché alle spalle del protagonista si vede troppo poco. Ed è un vero peccato, senzadubbiamente.

E poi, mi chiedo: solo io avrei voluto vedere cosa avrebbe fatto Cetto Laqualunque da re?

giovedì 7 novembre 2019

La belle époque: Quel délice!

Cinema sognante capace di alternare risate e momenti toccanti con sorprendente facilità. Grandissimo film.


La vita reale di Victor prende una brutta piega e allora lui si rifiugia in una finzione, o meglio nell'idealizzare i propri ricordi.
Su questo semplice incipit, viene costruito un film più complesso del previsto, che stenta giusto nei primi 20 minuti che sembrano un po' caotici ma che a posteriori si capisce quanto fossero funzionali nell'introdurre ogni situazione che poi verrà approfondita in seguito.
Appena Victor inizia a entrare nella ricostruzione del suo 1974 il film accelera e non si ferma più, diventando semplicemente perfetto, con ingranaggi che girano al meglio.

La capacità del miglior cinema francese di rendere delizioso un soggetto all'apparenza semplice lascia ancora a bocca aperta. La Belle Epoque è cinema sognante, che ti fa entrare in un mondo "fantasioso" ma senza mollare il contatto con la severa realtà, in un miscuglio molto ben amalgamato. Tutto gira attorno al Victor ritratto in maniera impeccabile da Daniel Auteuil (meraviglioso il suo sguardo sognante una volta inserito completamente nella vita alternativa), ma attorno a lui si intreccia molto di più, dalla moglie Marianne che lo tradisce con un suo amico al "regista" Antoine con la sua storia ad alti e bassi con l'attrice che impersona la giovane Marianne, senza dimenticare il figlio del regista e vari personaggi secondari tutti capaci di aggiungere qualcosa all'opera (personalmente mi ha fatto impazzire l'assistente del regista ossessionato dal fatto che tutti gli altri attorno si divertano a eccezione di lui). Questa complessità impedisce al film di diventare stucchevole, viaggiando su un filo romantico-sognante che conquista e commuove senza mezzi termini.
Oltretutto il film vanta una scrittura arguta che permette di spezzare le situazioni più toccanti con battute azzeccate, riuscendo così a emozionare e far ridere con la medesima facilità.
Il tatto con cui tutto viene gestito è tale che pur toccando argomenti grevi (non mancano parolacce, battute sul sesso, la parte dominata dall'erba) il film mantiene una classe incredibile.
La regia di Nicolas Bedos che nella fase introduttiva sembra eccessivamente accelerata (quasi da puntata breve di una serie tv) trova il giusto passo a lungo andare.

Un finale con una buona morale (è giusto tenere dentro i ricordi migliori, ma bisogna sempre sapersi riadattare a tutto ciò che accade nella vita) e ben centrato consente poi di uscire dalla sala completamente soddisfatti, per un film che merita ampiamente il massimo dei voti e che è decisamente consigliato. Perché questo è davvero grande cinema.

sabato 2 novembre 2019

The Big Bang Theory: a.k.a. Sheldon & Co.

Diventata sempre più negli anni la "serie di Sheldon Cooper", dopo un inizio sfolgorante paga l'aver avuto alcune stagioni centrali piuttosto mediocri, per poi comunque riuscire a ritrovare una discreta vivacità nelle stagioni finali.


The Big Bang Theory è la perfetta dimostrazione di come alcune serie vengano tirate troppo per le lunghe, o perlomeno come in alcuni casi il livello tra le varie stagioni non è omogeneo.
Dopo un inizio abbastanza sfolgorante, in cui la serie mostra una certa originalità anche nel tema "nerdate", con il surreale innesto di Penny-Kaley Cuoco (vista in varie serie tv e qui nel ruolo che la lancia definitivamente), la serie ha una fase di stanca pesante a metà della propria "storia" con un paio di stagioni piuttosto brutte e comunque una pesante assenza di ispirazione.
In qualche modo gli autori riescono a risollevare la situazione e le ultime quattro-cinque stagioni risultano simpatiche, per quanto comunque si capisca che questa serie sia restata in vita per un unico motivo: il personaggio di Sheldon Cooper, con un Jim Parsons spesso strepitoso e capace di far dimenticare l'insulsità di tanti sub-plot (il peggiore probabilmente resta il viaggo nello spazio di Howard, una situazione capace di creare non una gag perlomeno simpatica).
Non è un caso quindi che l'ultima stagione si concentri quasi unicamente su Sheldon per dare una chiusura a questa serie che comunque è stata in grado di entrare nell'immaginario di tanti negli USA e all'estero, ma probabilmente (per quanto il voto finale resti positivo) lo status di "cult" resta eccessivo proprio perché diverse stagioni sembrano tirate via per forza d'inerzia.

martedì 22 ottobre 2019

Se son rose: film pieno di spine

Per quanto meno disastroso rispetto alle precedenti opere di Pieraccioni, resta un film insufficiente e insoddisfacente

Pieraccioni continua nella forsennata e infinita ricerca di quell'ispirazione avuta e persa nel giro di tre film a metà degli anni '90, un'ispirazione lontana per l'incapacità dell'attore-regista di sapersi riproporre in vesti nuove.
In sostanza, persa la vitalità e l'originalità dei primi tre film, Pieraccioni s'è impantanato troppo a lungo in film dalla storiella sempre uguale, con lui protagonista a trovare un modo sempre più improbabile di incontrare la bellona di turno, con forse soltanto Io e Marilyn a regalare qualcosa di interessante per il tipo di storia surreale che si andava creando.

Il problema di Pieraccioni è che nei primi film la sua spontaneità trovava contraltare in spalle ispirate, come potevano essere Rocco Papaleo o Massimo Ceccherini, da lì in poi il toscano s'è trovato quasi sempre solo a dover reggere i propri film, o comunque senza delle spalle forti. In questo "Se Sono Rose" ci prova con un alternarsi continuo di spalle femminili, ovvero le proprie ex a cui arriva l'sms inviato dalla figlia. Il film in sostanza ha solo questo spunto come collante, per il resto è una serie di scenette scollegate fino al finale melenso tipico delle produzioni pieraccionesche.

Si vede un passo avanti a livello di produzione e di maturità, il film è molto meno scialbo delle ultime improponibili pellicole di Pieraccioni, ma c'è anche il solito ricorso a gag vetuste e semplicemente brutte (l'app "aputtane" è un momento imbarazzante, ma non si va meglio con la partita a tennis, per non parlare della tremenda caduta di tono della scena al ristorante con la ex alla ricerca della nuova sessualità) che annulla l'effetto di quelle fasi simpatiche e di un film che riesce a non annoiare.

I fasti dei primi film però rimangono lontani e si continua a vedere opere incompiute di un attore-regista ormai incapace di trovare uno stile efficace.

Jamie Carragher e una grande vittoria personale



Posto solo un piccolo link con un video su quanto detto ieri sera da Jamie Carragher a Patrice Evra nello studio di Sky Sports inglese.

Aggiungendo solo poche parole: immagino che certi personaggi dopo 8 anni si scuseranno anche con me 🤣 No dai, scherzo. Non parlo con certa gente.

Saranno poco, arrivate in ritardo, ecc, ma queste parole di Carragher le ritengo una grande vittoria personale su certi individui, senza dilungarmi su particolari che risulterebbero oggi parecchio vergognosi per costoro. ‪Spero giusto che a qualcuno gli fischino le orecchie, che si ricordino di cosa dicevano 8 anni fa e si ricordino me.

La dignità di Jamie Carragher nel riconoscere la stupidaggine di otto anni fa è anche qualcosa che ritengo forte a livello personale e ci tenevo a rivendicare qualcosa su cui ancora ci sono tanti capitoli personali aperti (che non tengo nemmeno a chiudere).

So long e goodbye

Jamie Carragher: Liverpool made huge mistake with Luis Suarez T-shirts after Patrice Evra racism row

giovedì 17 ottobre 2019

Jesus Rolls - Quintana è tornato: un film vetusto in partenza

Tra un furto d'auto e l'altro, resta impresso davvero poco in un film piuttosto pallido e senza vere idee.

L'idea di riproporre il personaggio cult di Jesus Quintana, anche a oltre 20 anni di distanza e completamente fuori dal contesto de Il Grande Lebowski poteva anche essere un'idea spendibile. Il fatto però che John Turturro abbia pensato di farlo con quello che sostanzialmente è un remake già di partenza (prima ancora di vedere il film) faceva storcere il naso. Purtroppo la visione del film conferma queste perplessità.

Chi si aspetta qualcosa di bizzarro sul filo del demenziale resterà per forza di cose deluso, il film è una piatta commediola sull'inserimento (o presunto tale) di Jesus Quintana dopo il periodo di detenzione, in una girandola di auto rubate e scene scollate, senza un vero e proprio filo di continuità, con una rappresentazione posticcia dell'atto sessuale che sembra piuttosto fuori dal tempo.

Oltre a non avere profondità (né di trama né di dialoghi, il che porta anche a una pesante assenza di ironia), il film ha proprio il problema di sembrare un prodotto scritto negli anni '70 inserito a forza senza alcun aggiornamento nel panorama attuale. Col risultato che finisce per annoiare.

Sprecato il cast, anche perché nessun personaggio è realmente caratterizzato. Bobby Cannavale così si fa ricordare più per espressioni alla Luigi Di Maio, Audrey Tatou prova a cambiare registro rispetto alle sue tipiche interpretazioni ma annaspa, Christopher Walken si vede giusto per due minuti e persino la grande Susan Sarandon non può cambiare il registro (e sembra più lei a dare un carattere vero al proprio personaggio più che la sceneggiatura).

Da salvare una discreta regia dello stesso Turturro che riesce a non far precipitare la pellicola, che però senza piuttosto dimenticabile.

sabato 12 ottobre 2019

Non succede, ma se succede...: la scorrettezza si vede quasi solo sulla locandina

Una seconda parte pessima mostra i pesanti difetti di sceneggiatura e finisce per sprecare una coppia Rogen-Theron che sembrava funzionare. Film davvero troppo poco coraggioso e che finisce per arenarsi malamente.


Quando un film vuole avere una facciata finto-trasgressiva ma sotto sotto vuole mantenere quei canoni poco coraggiosi per provare ad abbracciare un pubblico quanto più ampio possibile, si arriva a un punto in cui si capisce che la coperta è troppo corta e che si assiste a qualcosa senza una vera anima.
Questo è quanto succede con "Long Shot" (il titolo originale è ben più coerente dell'insulso titolo italiano), un film che inizia in un modo magari imperfetto ma comunque gradevole per poi arenarsi completamente nella seconda parte, in sostanza dalla scena a Manila in poi, mostrando mancanza di coraggio e una scrittura misera.

Neanche la prima parte era del tutto perfetta a ben vedere, considerando la scarsa verve nelle scene a introdurre il personaggio di Charlize Theron, ma quando a Seth Rogen basta davvero poco per piazzare le sue gag anche volgari ma in alcuni casi divertenti: per quanto rispetto ai suoi soliti film sono meno le gag che funzionano, anche qui ci sono un paio di scene davvero irresistibili, vedi l'evoluzione continua del tatuaggio della svastica o la perquisizione quando giustifica il possesso di erba come una cura per l'ansia (tanto che poi quando tira fuori le cartine se ne esce con un meraviglioso "servono per avvolgere gli ansiolitici"), a conferma di un attore che ormai ha trovato uno stile personale efficace e capace di divertire con la sua presenza.

Il problema del film è che tutta la seconda parte si allontana troppo dallo stile Rogen (i cui film pure hanno la tendenza al calo nella seconda parte per provare a chiudere in modo positivo la storia, ma in questo caso lo si prova a fare staccandosi troppo dalla verve del protagonista) per infilarci in una commediola romantica piuttosto banale, in cui davvero nulla più funziona e si nota una scrittura davvero mediocre, in particolare in più situazioni dilungate allo stremo. Si nota l'incapacità di trovare gag (anche la scena dello sballo finisce per non dire nulla) e si butta via un po' tutto.

Così si spreca una coppia protagonista che era apparsa discretamente affiatata, con Charlize Theron che (a parte la solita splendente bellezza davvero sensazionale per classe e naturalezza) sembra essere bene in parte e tutto sommato parrebbe tenere testa alla stravaganza di Seth Rogen, per poi però perdersi anche lei in una seconda parte difficilmente salvabile. Ma davvero, è difficile dare colpe agli attori, il neo è della scrittura senza idea e incapace di incidere.

Tante scelte di sceneggiatura sembrano buttate lì e mal sfruttate, basti pensare alla buona idea del Presidente-attore interpretato da Bob Odenkirk che sembra poter essere una buona fonte di gag ma che si vede in due scene in croce, così come sarebbe stato più interessante non tagliare fuori completamente in tutta la fase centrale (per poi farlo riapparire nelle battute finali, quando ormai si è entrati nella melassa da finale romantico) il personaggio di O'Shea Jackson jr, il migliore amico di Seth Rogen.

Insomma, visto il tema politico, questo film non arriva ai livelli pretestuosi del disastroso The Interview: il problema è che va proprio completamente al contrario e vola troppo basso, finendo per mostrare una certa mancanza di coraggio e infilandosi in una serie di situazioni già viste e straviste piuttosto evitabili.

venerdì 13 settembre 2019

Big Little Lies. Piccola grande serie.

Una splendida Nicole Kidman (e un grande cast femminile) impreziosiscono una serie davvero ben scritta, consigliata anche ai non fan delle serie drammatiche.


Specialmente alla fine della prima stagione non si può che togliersi il cappello.
E' davvero una serie ben congeniata, impreziosita da un eccellente cast femminile, in cui spicca una strepitosa Nicole Kidman: in grande forma fisica (resta bellissima, anche di più), riesce a interpretare con estremo tatto un personaggio delicatissimo, in particolare in questo periodo in cui (finalmente!) il tema della violenza domestica è all'ordine del giorno (e non sottovalutata come al solito). Nella prima e seconda stagione, Nicole è la star che spicca di più in un cast comunque pienissimo, che nella seconda stagione aggiunge una "spalla" di livello assoluto come la sempre perfetta Meryl Streep.

Non è però banalmente una serie che sfrutta temi attuali per creare un dramma facile, questo Big Little Lies è molto di più, una descrizione eccellente di una comunità come tante, con tutti i difetti e le ipocrisie e le piccole bugie che montano fino a creare delle etichette pesantissime.

Davvero piace il modo con cui questa serie è stata scritta, dopo una prima puntata interessante ma di transizione che serve tuttavia a introdurre tutti i personaggi, le tensioni via via montano puntata dopo puntata per poi sfociare in una grande puntata finale di prima stagione, con sottofondo riuscitissimo con le canzoni Elvis Presley.

Funziona un po' tutto, persino un attore che non amo particolarmente come Adam Scott è funzionale nella riuscita della serie (per quanto i personaggi maschili siano secondari, le protagoniste sono le attrici).

Molto ben fatta davvero. Voto alto meritatissimo, soprattutto considerando che il sottoscritto non è esattamente un fan delle serie drammatiche.

Meglio la prima stagione, ma anche la seconda è ben scritta e resta di altissimo livello.

martedì 20 agosto 2019

Orange Is The New Black. La forza della coralità

Un vero gioiello. E' un dramma (non senza alcuni sprazzi di sottile ironia) corale che si mantiene di livello alto nel corso delle stagioni. Una delle migliori produzioni di Netflix. 


Il grande gioiellino tra le produzioni di Netflix.
Una serie che fa della coralità il proprio punto di forza, ottima nel mescolare momenti di sottile ironia con il dramma della difficilissima vita in galera. I personaggi sono sostanzialmente tutti ben caratterizzati, l'uso del flashback è intelligente e ci fa capire come ognuno è finito in quella situazione e la vita in detenzione è scandita bene in ogni suo passaggio.

La forza di questa serie è in fase di sceneggiatura: Orange Is The New Black è scritta in maniera egregia e capace di rimanere di alto livello medio in tutte le puntate e di conseguenza in tutte le stagioni.

Il personaggio di spicco, quello da copertina, è ovviamente Piper Chapman, interpretata in modo magistrale da un'immensa Taylor Schilling, impacciata agli inizi e poi via via "adattata" alla vita da detenuta, capace di ficcarsi in qualche guaio per il suo carattere e di riallacciare i rapporti con la sua ex, l'Alex Vause di una Laura Prepon mai così incisiva (davvero sembra aver trovato il personaggio della sua carriera). Ma la forza di ogni puntata è la capacità di dare spazio a tanti personaggi ogni volta, così sia le detenute che le guardie che gli stessi dirigenti del penitenziario (vedi soprattutto Joe Caputo) sono parte integrante e fondamentale. Questo ci regala davvero tanti personaggi a cui a proprio modo affezionarsi, nonostante poi nessuno di questi sia senza difetti: un'altra forza è quella di saperti dare forte empatia pur con tutte le pecche dei vari personaggi.

La settima è stata l'ultima stagione e sostanzialmente è giusto che si chiuda prima che arrivi un possibile cedimento, che in realtà appariva distante: è anche normale però provare a chiudere prima che sia troppo tardi, visto che le idee in una serie in ambiente chiuso come questa non possono essere infinite. Ne è uscita fuori una settima stagione con toni un po' più malinconici rispetto alle precedenti, ma senza esagerare. Anche l'ultima è un'ottima stagione, con un buon finale di serie. Una chiusura adeguata per quella che è stata una serie tv di altissimo livello.

Degna di nota anche la sigla, d'impatto sia visivamente che per le parole della canzone.

sabato 3 agosto 2019

Stranger Things. Diciamolo: è una colossale vaccata

Piuttosto sopravvalutata. E' una serie che parte discretamente, ma che dopo due brutti finali nelle prime due stagioni affonda in maniera impietosa in una ridicola terza stagione e diventa insalvabile.




Il concetto base di questa serie è semplice semplice: "Pigliamo una città sperduta e riempiamola di mostri improbabili, mischiamo tutto quanto ci viene in mente da film o altre serie e infiliamoci uno pseudo-effetto revival che piace sempre".

Per la verità un certo costrutto e un certo fascino in parte lo si vede pure nella prima stagione, ma lo sviluppo diventa tragico. Già il finale di prima stagione era davvero brutto, poi si era visto un pesante calo di qualità nella seconda stagione (con tanto di ulteriore finale brutto) per poi toccare il fondo con una disastrosa e pietosa terza stagione, in cui oltre al ritorno dei mostri (bastano sti mostri a valere il genere di "fantascienza"?) vengono infilati a forza dei russi da macchietta a dare giusto un effetto da americana. Una roba improbabile e piuttosto imbarazzante da vedere (e un altro finale di stagione piuttosto ridicolo, per giunta dilungatissimo).

Quanto seminato bene all'inizio della prima stagione poi viene rovinato in maniera disastrosa, il gruppetto protagonista all'inizio aveva un senso logico (peraltro entrava dentro anche il tema del bullismo, completamente dimenticato in seguito in maniera anche incoerente) per poi diventare farsesco e assolutamente irreale.
Fotografia di ciò è il personaggio di Undici, che era affascinante nella prima stagione quando non parlava e che in seguito diventa piuttosto insulso (spettacolare la terza stagione in cui la si vede sostanzialmente fare la stessa faccia sconvolta per tutte le puntate, oltre ad avere sempre il naso gocciolante e non degnarsi di portarsi mai appresso qualcosa a tamponarselo).
Che dire poi del personaggio di Will Byers, il ragazzino che scompare nella prima stagione e che poi nelle altre due sta lì con la stessa espressione?

Peraltro i piccoli attori non recitano nemmeno malaccio, il problema è come vengono sviluppati tutti i loro personaggi.

Altra componente tragica della terza stagione sono i battibecchi tra Winona Ryder e David Harbour, per non parlare del personaggio di Erica Sinclair, la ragazzina nera che si aggiunge al gruppo e che è talmente insopportabile con il suo sarcasmo da due soldi che ti viene da sperare che il mostro la sbudelli il prima possibile.

Dopo le prime due stagioni avevo dato (su FilmTv) come voto un 5 (o due stelline e mezza), ma la terza è talmente catastrofica che devo rivedere in completo ribasso. E attenzione perché in previsione c'è ancora almeno un'altra stagione, chissà cosa di nuovo potranno inventarsi (ovvero niente, perché seconda e terza stagione non hanno nulla di nuovo, se non appunto la ridicola introduzione dei russi).

Serie pompatissima e clamorosamente sopravvalutata. E' vero che il genere non è attinente ai miei gusti, ma qua davvero c'è poco che funzioni. E non bastano certo i rimandi agli anni '80 a renderla accettabile, anche perché al ben vedere queste sono delle grosse ruffianate.
Insalvabile. Ci sono serie ben migliori (e molto meno pubblicizzate) su Netflix. Questa per me è ciò che per Fantozzi era la Corazzata Potemkin.

Il segreto di David - The Stepfather. Sceneggiatura a casaccio

Modesto thriller con pesanti vuoti di sceneggiatura.




Il super serial killer cattivissimo sterminatore di famiglie è talmente geniale dallo sfuggire alla polizia per la capacità di non lasciare alcuna traccia di sé, nessuna impronta digitale, addirittura nessuna foto, tanto da restare impunito e riuscire a farsi una vita altrove. Questo stesso spietato personaggio però visita il sito dei più ricercati d'America e cosa fa, si dimentica di cancellare la cronologia di internet!!

Una situazione delirante, una vera sconcezza di sceneggiatura che rappresenta il punto più basso di un film altresì piatto, mai capace di creare vera tensione nonostante si lasci trapelare una presunta spietatezza del protagonista. Il film non accelera mai e ha un finale piuttosto raffazzonato (anche qui con un paio di situazioni "rivedibili" per un occhio critico).

Film modesto.

Alta fedeltà. Basso risultato

John Cusack che parla continuamente in camera è la dimostrazione di una trasposizione troppo rigida e poco efficace del buon libro di Nick Hornby. Non funziona.




Come accadrà anni dopo con Juliet, Naked, in Alta Fedeltà viene tentata un'americanizzazione delle opere di Nick Hornby. E come previsto, l'obiettivo non viene centrato.

Per quanto la cosa lasci perplessi, non è lo spostare l'ambientazione dell'opera da Londra a Chicago il grosso problema del film. Il problema è che la trasposizione appare troppo rigida e con poco cuore.
Vedere John Cusack parlare ogni due per tre alla telecamera stanca dopo mezz'ora, è un mezzo poco consono di provare a non perdere buona parte dei pensieri espressi dal romanzo. Non funziona.

E' un film che non ingrana, non ha le fasi umoristiche del libro (che è un buon libro, anche se non il mio preferito tra quelli di Hornby, pur essendo il più famoso), lascia la musica un po' in disparte e non centra bene alcuni personaggi: lasciare così defilato il personaggio (fondamentale) di Marie DeSalle è una scelta suicida che rende più povero il film.

E poi... manca Got to Get You Off My Mind!

Dead to me - Amiche per la morte. Serie assolutamente piacevole

Ottima l'interazione tra le due protagoniste, specialmente grazie a una eccellente Christina Applegate, per una serie che mixa bene black humor e dramma.




Tra i produttori di questa serie c'è il nome famoso di Will Ferrell, ma non aspettatevi nulla di caciarone e grossolano.
Dead To Me è una serie che vanta un buon mix tra un sottile black humor e il dramma, che mostra il rapporto di amicizia tra due donne legate in modo più stretto rispetto a quanto possa apparire all'inizio.

Se con i film le produzioni Netflix troppo spesso lasciano qualcosina a desiderare, con le serie tv il livello è mediamente buono e questa Dead To Me si inserisce benissimo nella media.
Il tutto si basa sulle interpretazioni delle due protagoniste, la bizzarra Judy Hale a cui dà volto Linda Cardellini e soprattutto Jen Harding, che affronta il dramma della morte del marito e che vede una Christina Applegate davvero eccellente esibirsi in quella che è una delle migliori prove della carriera.

Tutte e 10 le puntate (della durata media di mezz'ora) hanno una qualità costante e il finale è assolutamente coerente.
Promossa.

Top Gun. La peggiore americanata di sempre?

L'americanata più americanata possibile. Il film che odio di più di sempre.




Il film che odio di più nella storia?
Assolutamente Top Gun.

La perfetta americanata, nonché spottone per il riarmo militare di Reagan, finto machismo degno dei peggiori maschilisti attuali, ripieno di quelle pagliacciate militari patetiche con contorno della storiellina d'amore da due soldi.

E questi sono i pregi.

L'unica cosa buona di sto film è l'aver ispirato una parodia molto più riuscita, Hot Shots!.

Ma se lo vedo mi viene il latte alle ginocchia. Ne sono completamente allergico.

Mamma o papà? Colpi bassi tra Albanese e Cortellesi

Dopo un inizio stentato, il film si accende e riesce a trovare delle scene divertenti. Meglio Albanese della Cortellesi, penalizzata da un fastidioso accento veneto.




Vista la cronica assenza di idee, il cinema italiano continua ad affidarsi alla proposizione di remake spesso improbabili.
Ogni tanto (proprio ogni tanto) capita un remake che ha senso di esistere.

Non sembrava nulla di ciò in realtà questo "Mamma o Papà?" che ha un inizio lento e che stenta a decollare. Quando però la situazione del divorzio entra nel vivo e i due protagonisti si contendono il... "non-affidamento" dei figli, ecco che il film accelera e riesce a imbroccare una serie di scene abbastanza divertenti, in particolare quella in cui il padre porta i figli in sala parto per mostrar loro quella che è la vita del medico, gag piuttosto delirante.

Tra i due protagonisti vince ai punti Antonio Albanese, che al solito è molto professionale e riesce a eccellere nel suo mix tra il misurato e il surreale. Per quanto riguarda Paola Cortellesi, bisognerebbe capire perché gli autori le impongano un improbabile (e a tratti fastidioso) accento veneto, completo sintomo di un cinema italiano che proprio non riesce a uscire da una certa provincialità (ma d'altronde abbiamo anche vari personaggi di serie tv americane a cui viene affibbiato nel doppiaggio un assurdo accento napoletano...). E' questa la zavorra per la pur brava attrice, che tuttavia riesce a non affondare nonostante una penalità simile.

Puro contorno i figli e i personaggi secondari, con il bravo Claudio Gioè che si ritrova a un ruolo senza anima: e dispiace perché questo signore è molto bravo e meriterebbe ruoli ben più ampi.

Finale un po' forzatello ma per fortuna relativamente breve, per un film che tutto sommato ha parecchi difetti ma che riesce a farli dimenticare in parte con la forza dei propri pregi.

Modalità aereo. Un soggetto che scema dopo 20 minuti, tutto il resto è porcheria.

Ennesima schifezza in salsa brizziana, con l'idea del soggetto che viene sprecata in 20 minuti e che poi viene sostituita con fasi di una banalità estrema.




Spiace vedere buoni esponenti della commedia italiana come Lillo, come Abbrescia e come Caterina Guzzanti (pure sprecatissima) costretti ad arrabattarsi in filmetti senza speranza come questo. Spiace soprattutto vedere ancora l'ennesima mega-boiata in salsa brizziana.

L'idea del soggetto è sprecata in 20 minuti, che peraltro non sono neanche così divertenti (con l'ennesima ruffianata tipica di Brizzi che arriva subito con l'apparizione tristissima di Sabrina Salerno).
Il resto della pellicola è un inutile dilungamento utile per raggiungere la durata dei 100 minuti.
Con l'arrivo del figlio di Ruffini si apre una fase piena di melassa insulsa.
Mentre il finale con la vicenda dell'azienda sempre scopiazzato da maree di film.

In sostanza, il film è una totale perdita di tempo e uno spreco di buoni attori. Specialmente Lillo prova a dannarsi e prova a tirare fuori qualcosa, ma davvero il copione è ridicolo, pieno di frasi fatte con la chiusura patetica coi luoghi comuni sui cinesi.

Le parti peggiori probabilmente sono quelle con il duo Ruffini-Placido, con la solita scrittura banale a provare a rendere meno ruvido il personaggio di Ruffini, senza alcuna credibilità. Il personaggio è infelice di suo, ma Ruffini riesce a renderlo ancora peggiore con un'interpretazione improbabile.

Completamente insalvabile. Una schifezza colossale. Come sempre con Brizzi.

Quando l'amore si spezza. Massacrato dai critici, ma in realtà non così male.

Buon thriller dell'ossessione, con trama lineare e coerente. 




"When the Bough Breaks" (che non si sa perché in Italia è già stato proposto con più titoli, tipo su Netflix viene dato col bruttissimo titolo di "Birth Mother - Ossessione Fatale": che senso ha usare un titolo in inglese e cambiare quello originale?) non è certo un film particolarmente originale o che farà urlare al miracolo, ma ha tanti meriti e riesce a regalare un discreto intrattenimento.

Dopo un inizio da filmetto familiare, lento ma alla fin fine funzionale per la trama, il film si accende e diventa il classico thriller dell'ossessione. La cosa buona di questo film è che è lontano da alcuni "vizi" tipici dei thriller di Hollywood, ovvero lontano da quel tipo di sceneggiatura che sembra un po' prendere in giro lo spettatore alla ricerca del continuo colpo di scena, spesso forzato.
Qui anzi è tutto molto lineare e a mio modo di vedere è il merito del film.
La tensione ha un buon crescendo e il finale è coerente con il resto della pellicola.

Funzionale la prova del cast, in cui spicca davvero Jaz Sinclair, che per ovvi motivi interpreta il personaggio più articolato e complesso e risulta molto brava, capace di alternare fasi dolci a un paio di scene di notevole sensualità fino alla follia dovuta alla sua ossessione per il protagonista.

In fin dei conti, un buon film.

Appassionata. Schifezza per voyeur

Apeotosi del trash, simbolo anche di generazioni incapaci di trattare le donne come esseri umani.




Tra una scena pseudo-pruriginosa e l'altra, una serie di dialoghi sconcertanti.
Alcuni highlights:

- La Giorgi va dal dentista e per fingere di avere male al dente inizia a fare versi usciti dal peggior pornazzo.
- Il dentista copula con lei con una grazia da ippopotamo
- La Giorgi per saltargli addosso fingeva di essere sotto effetto di anestestici, quindi poi il dentista chiede a un collega se gli anestetici possono creare "effetti strani"
- "Hai sentito? Daniela viene col suo paracadutista". Risposta della Muti: "Ah sì, e se lo porta il paracadute?"
- Replay della scena allo studio dentistico, ma stavolta il dentista rivela alla Giorgi che non c'era anestestico ma solo acqua distillata, per questo monologo in risposta: "Il ca**o del dottore ha bisogno di discorsi, di spiegazioni, è ancora un sentimentale. Meglio se restate soli voi due così potete spiegarvi" (dove "voi due" sono il dottore e il suo membro)
- La Muti con camicetta aperta al padre: "Fossi in te avrei amanti ovunque, in India..."

Fantastico.
Tutto per far capire che la sceneggiatura non esiste, è solo un pretesto per mettere insieme scene presunto-voyeuristiche.
Si capisce perché in Italia ci siano generazioni culturamente incapaci di intraprendere un dialogo con le donne (se non trattandole come oggetti), si capisce perché si siano cresciuti pseudo-uomini ossessionati da certe vaccate. Di questi film ce ne sono una marea (e questo possibilmente è tra i peggiori) e i risultati a livello sociale sono ancora sotto gli occhi di tutti.

Austin Powers in Goldmember. Beyonce!

Addirittura con Beyonce come spalla, Austin Powers continua a divertire. Dopo una partenza un po' lenta, il film si accende e diverte.




Il terzo (e a questo punto possibilmente ultimo, anche se qualche voce di tanto in tanto esce su un possibile ulteriore sequel) film della saga di Austin Powers ha il difetto di una partenza più stentata rispetto ai primi due film. Dopo l'azzeccato prologo con una marea di guest star, infatti, si fa un po' più di fatica del solito a trovare ritmo, soprattutto per l'introduzione del personaggio di Goldmember, che non regala moltissimo a livello puramente comico. Così nella prima parte tutte le migliori sequenze le regala il Dottor Male, in particolare nella parodia (solita per il genere) dell'interrogatorio de Il Silenzio Degli Innocenti e nel videoclip parodia di Hard Knock Life.

Quest'ultimo è anche un riferimento al compagno della vita della nuova spalla di Austin Powers, visto che per questo terzo film viene chiamata addirittura Beyonce, di una bellezza conturbante e tutto sommato a suo agio nel ruolo.

Dopo mezz'ora il film entra nell'azione demenziale pura e iniziano a esserci una sequenza di scene devastanti e si ride con una ottima continuità, tanto che il film finisce per ottenere un voto alto nonostante la partenza non convincente.

In particolare piace il salto della quaglia di Mini-Me, che proprio con Austin riesce a divertire. Da notare anche un calo di allusioni sessuali rispetto ai due capitoli precedenti, scelta forse un po' "commerciale" per appetire un pubblico più ampio.

Altro buon capitolo per una saga che forse aveva ancora qualche cartuccia da sparare.
Invece, incredibilmente inizia proprio qui l'allontanarsi dagli schermi di Mike Myers. Solo sei anni dopo ci riproverà con un film molto nel suo stile come The Love Guru, un flop completo (per quanto il film non fosse poi così da buttare, anzi) da cui Myers non s'è più ripreso (a parte qualche piccolo ruolo, come quello dell'agente che si fa sfuggire i Queen in Bohemian Rhapsody, comunque nulla di realmente comico). A volte le cose vanno in modo misterioso, negli States come in Italia, attori che non hanno nulla da dire da sempre continuano a lavorare e altri meritevoli finiscono per trovarsi le porte sbarrate. Peccato, perché per chi ama una certa comicità demenziale, Austin Powers è un must.

Compromessi sposi. Gli spos(s)ati

Tipico film del filone matrimoniale all'italiana, banale e scontato. Lo scontro tra Abantuono e Salemme si risolve in frecciatine di bassissima lega.




Il filone di questi film matrimoniali all'italiana segue sempre lo stesso schema:
- suoceri che si scontrano tra loro e provano a impedire il matrimonio
- future suocere a contorno per dimostrare che esistono
- futuri sposi in balia degli eventi e costretti a sopportare le insulsaggini della sceneggiatura
- figure di contorno (più o meno famose) a provare a creare qualcosa.

Compromessi sposi potrebbe benissimo essere l'ennesimo film matrimoniale di Massimo Boldi, con l'unica eccezione dovuta alla volgarità molto limitata (ok ci sarà qualche parolaccia, ma almeno si evitano certe scenacce oscene). Le idee sono del tutto inesistenti.

Per gli autori si dovrebbe ridere unicamente con lo scontro tra Salemme e Abatantuono, che in realtà si limitano a frecciatine personali di bassa lega sull'aspetto fisico del "rivale", lasciando allo spettatore solo l'imbarazzo di vedere due nomi così importanti costretti all'ennesima parte senza alcun congegno.

Cast ricco di nomi, ma tutti quanti mal utilizzati. Spiace in particolare per Abbrescia, che pure (nonostante il personaggio venga beccato per avere il "mal di mare") non naufraga, e soprattutto per Valeria Bilello, che inizia discretamente nella parte di figlia (di Abatantuono) decisa e anche un po' "cinica", ma che poi deve diventare piuttosto banale: la Bilello, oltre a essere di una bellezza superiore alla media, meriterebbe molto più di quanto gli insulsi autori italiani riescono a inventare per lei.

Le "complicazioni" sono del tutto flebili e tutto si risolve in maniera automatica fino a una fase finale tremenda in cui passa tutto l'ovvio e tutti personaggi seguono l'ovvietà.
Quanti altri di questi filmacci dovranno uscire in Italia? E la gente ancora li va a vedere?

White Chicks. Per gli americani questo è un cult, yikes!

I fratelli Wayans ci appioppano una situazione scatologica dietro l'altra, in un film in cui sorprende la presenza della grande Jennifer Carpenter, ancora di là dal diventare l'epica Debra Morgan.




La vera curiosità di questo filmaccio è la presenza dell'ancora misconosciuta Jennifer Carpenter, presenza che vista adesso a 15 anni di distanza è incredibile. Passerà un paio di anni per la brava Jennifer per trovare il personaggio della vita, quello della magnifica Debra Morgan nella serie tv Dexter. In questo film per la Carpenter c'è una parte abbastanza insulsa, tipica di un prodotto piuttosto misogino che affibbia alle donne parti piene di cliché e senza personalità: può esprimere un minimo sprazzo della propria espressività in un monologo (piuttosto squallido) sui suoi presunti difetti corporei, poco dopo che la telecamera le inquadra il sedere (in slip) in primo piano per fini di minimi pruriti maschili. Insomma, vedere un'attrice di questa portata in un prodotto simile appare strano (quasi al livello di Johnny Depp in una delle sue prime parti: un film in stile Alvaro Vitali, lo scult Una scappatella per due, che peraltro adesso è in circolo con il nome di Posizioni Promettenti),

Il resto del film è da prendere e buttare via. Quando questi tre fratelli Wayans (l'unico assente tra quelli "famosi" è Damon, ovvero il protagonista di Tutto in Famiglia, mentre al fianco all'ancora adesso prolifico Marlon qui troviamo anche il regista Keenen Ivory e il co-protagonista Shawn, due che hanno pensato bene di sparire o quasi dal mondo del cinema da una decina d'anni senza che nessuno li rimpiangesse) uniscono le forze il risultato è quasi sempre catastrofico. Dopo questo filmaccio, in cui Marlon e Shawn si travestono da donne e bianche, ci riproveranno con il pessimo Quel Nano Infame in cui (quante idee) Marlon (in versione nano!) si fingerà nientemeno che un neonato. Il risultato però è quasi sempre catastrofico, perché questi tre hanno comunque avuto il merito di aprire la saga degli Scary Movie, firmando un primo capitolo che fece abbastanza epoca ai tempi e che resta perlomeno un discreto film, sicuramente il migliore di quella saga perché il più fresco e originale, tanto che la formula verrà copiata più e più volte (mentre il secondo era molto più sottotono).

In questo film il livello comico è quasi inesistente, con caos e scene finte-action ad allungare il brodo a fronte di situazioni trite e ritrite, affrontate peraltro senza alcuna verve (se fatte bene anche le situazioni straviste possono far ridere). Si scende anzi parecchio nel pecoreccio, visto che le uniche scene che si ricordano (per lo schifo che creano) sono scatologiche che neanche Massimo Boldi in Natale sul Nilo.
I tre Wayans, come spesso capita, sono solo fintamente trasgressivi e in realtà ci appioppano anche un finale di un melenso osceno, fallendo in questo film in ogni aspetto.

La cosa incredibile è che questo film pare abbia una discreta popolarità negli States, tanto che in queste ore Terry Crews (che qua ha possibilmente il ruolo peggiore della sua carriera cinematografica, e forse della sua carriera pubblica, mettendoci dentro anche lo sport) ha addirittura annunciato che ci sarà un sequel. Viste le non-idee del primo film, c'è da mettersi le mani tra i capelli.

Austin Powers. La spia che ci provava. Fallico Baby!

L'aggiunta di personaggi come Mini-Me e Ciccio Bastardo fa bene a un film divertente proprio per la stupidità (e assurdità) di certe situazioni




Affinando ulteriormente le situazioni del primo capitolo, con l'aggiunta di personaggi chiave anche per il film successivo come Mini-Me e Ciccio Bastardo, con per l'edizione italiana il lavoro di traduzione di Elio e le Storie Tese (a cui spetta il compito di "reinventare" un po' di quei soliti giochi di parole e doppi sensi che si perdono in un'altra lingua), il secondo film di Austin Powers è un altro capitolo irrinunciabile per gli amanti di certa comicità demenziale.

Possibilmente è un film un filo più discontinuo del primo, ma che ha anche dei picchi più alti, specialmente quando il Dottor Male prova a ricucire i rapporti col figlio, o quando lo stesso Dottor Male passa il tempo creando situazioni da musical assurdi, per non parlare della storica scena della tenda e delle ombre. Le assurdità sono inserite ancora a raffica e si ride molto.

Mike Myers ha trovato la propria dimensione perfetta in questa parodia e si "ingrandisce" (in ogni senso) interpretando anche il devastante Ciccio Bastardo, irresistibile quando mostra il desiderio di divorare Mini-Me.

Heather Graham possibilmente aggiunge meno sulle gag comiche di quanto fatto da Elizabeth Hurley nel primo film, ma è una bellissima spalla ed è funzionale nella riuscita del film.

Parte centrale della serie (anche se qualche voce ancora esce su un possibile quarto capitolo) che funziona e che porterà a un terzo film anche superiore.

Miracle Workers. Buscemi è il Dio più bello/brutto di sempre

Dio si difende dai giudizi della propria famiglia: "Ma se ho fatto nove pianeti!" - "Sì, però ne funziona solo uno, e male"



Era da un bel pezzo che dagli Stati Uniti non usciva qualcosa di surreal-demenziale ben fatto.
Se magari non tutte le idee non sono per forza originali, la realizzazione e la capacità di saper colpire con una comicità cinica rendono questo Miracle Workers una vera gemma.

A capo della compagnia del Paradiso (La "Heaven Inc." non a caso) è il miglior Dio mai visto, un Dio a cui viene dato il volto di Steve Buscemi. E già questo al primo fotogramma fa abbastanza ridere. Buscemi però entra perfettamente nei panni di un personaggio completamente distante dalla visione popolare, perché questo Dio ha sì poteri e tutto, ma è un Dio combinaguai e anche un minimo alcolizzato. Un Dio che stufo della Terra si mette a pensare a un progetto di ristorante demenzialissimo, tanto che finisce a proporlo alla propria famiglia in una puntata che ci dimostra come Egli sia lo sfigatello della famiglia. Tanto che messo sotto discussione dai suoi genitori si difende con un "Ma se ho fatto nove pianeti!", trovandosi come risposta un "Sì, però ne funziona solo uno, e male".

E' questo il tipo di umorismo che si trova per tutta la serie, con puntate più o meno dello stesso livello che ci mostrano (a parte la caratterizzazione di questo folle Dio, che è la cosa più riuscita) anche i tentativi per salvare la Terra, dimostrandoci che compiere miracoli non è poi così facile. Anzi, per ogni piccolo miracolo da compiere, come effetto collaterale si scatenano una serie devastante di tragedie, tanto che ogni puntata si chiude con un meraviglioso TG che riassume con incredulità quanto accaduto.

In questo scenario piace e stupisce l'altro nome conosciutissimo della serie, ovvero Harry Potter Daniel Radcliffe, che presta bene la sua aria stralunata a un buon personaggio e dimostra anche dei tempi comici niente male.

La serie non si dilunga più di tanto (anche se vista la qualità della prima stagione, spero personalmente che si inventino qualcosa per dare un seguito), sono 7 puntate di una ventina di minuti, ma intrattiene alla grande e si può considerare riuscita in pieno.

Juliet, Naked - Tutta un'altra musica. Che c'entra Apatow con Hornby?

La produzione Apatow americanizza Hornby e finisce immancabilmente per banalizzarlo. Si va per una rigorosa (più o meno) trasposizione del romanzo, che però resta sterile. Film sufficiente, ma occasione persa per fare qualcosa di più.




Valutare un film dopo aver letto il romanzo da cui è tratto è sicuramente molto più difficile, specialmente se si ama lo stile unico di un autore peraltro molto "cinematografico" come Nick Hornby, specie se si è amato "Juliet, Naked", romanzo in cui Hornby riesce a creare ancora una volta (dopo la sitcom "Barbara (& Jim)" del libro "Funny Girl") una celebrità fittizia e di tratteggiarla talmente bene che sembra essere reale. Se si legge il libro, sembra davvero che questo Tucker Crowe sia un cantante (country, non rock alternativo/indie come nel film) realmente esistito (con tanto di capitoli con una finta descrizione tratta da Wikipedia). L'arguzia, il cinismo e il delirio dei dialoghi quando il libro prende corpo e accelera sono la qualità maggiore dei libri di Hornby, che non è certo un "autore comico" ma che riesce a creare romanzi a tratti esilaranti.

Ecco, a posteriori proprio il diverso modo di vedere il mondo e per certi versi l'ironia fa storcere il naso sul connubio tra Hornby e Apatow Productions, dando la netta sensazione che questo "Juliet, Naked" sia finito in mani sbagliate.

Succede allora che in tutta la prima parte, invece di caratterizzare bene i protagonisti e intersecare le relazioni tra Annie e Duncan e tra Tucker e il figlio Jackson, ci si concentri soltanto su una parte del racconto di Hornby, la serie di mail tra Annie e il musicista Tucker Crowe, per giunta riportandole nel mondo del 2018 (il libro è uscito nel 2009) con un uso della tecnologia dello smartphone che è eccessiva, fredda e del tutto pretenziosa.

Per quanto si cerchi di non abbandonare troppo il libro (salvo poi deviare su un particolare decisivo, ovvero la figlia di Tucker che nel film ha un parto anticipato che lo porta a Londra: no. Nel libro la figlia di Tucker ha un aborto spontaneo e l'artista non diventa nonno. Ancora più marchiano però è lo stravolgimento della vicenda della figlia Gemma con la storia del bano del locale, un inserimento forzatissimo che nulla ha a che vedere con la coerenza che c'era nel libro), si ha una trasposizione che sembra girare attorno ai punti cardine del libro senza mai centrarli e capirli veramente, si vede un film piuttosto sterile che abbandona (a parte un paio di battute riprese pari pari dal testo) il sarcasmo di Hornby, col risultato di americanizzarlo e di falciare via i due terzi della comicità del libro, peccato devastante. Quindi si ha una trasposizione più o meno rigida, ma poco incisiva.

Oltretutto il peccato enorme è quello di rendere la figura di Duncan piuttosto perimetrale nella storia, quando nel libro è invece centrale: ci si concentra solo su Annie e Tucker, quando invece è il terzo cardine a dare un vero senso alla storia. Manca così (viene soltanto accennato) il tema dell'ossessione che Duncan ha per Tucker Crowe, finendo anche qui per banalizzare un aspetto importante del romanzo.

Peccato perché alla fine senza strafare, il film risulta piacevole, non è certo un lavoro da impacchettare e buttare via, anzi si ha la sensazione che il casting sia stato perfetto: Ethan Hawke è un Tucker Crowe credibile (per quanto gli spunti di "autoironia" che ho letto da qualche parte a mio modo di vedere non esistono, le battute sono più o meno quelle che si leggono nel libro), Chris O'Dowd ha davvero l'aria giusta per creare un personaggio che sarebbe stato da approfondire molto più e meglio, mentre Rose Byrne riesce anche a deliziare a tratti.
C'erano insomma le basi per fare qualcosa di più, probabilmente serviva davvero una linea guida diversa in fase di produzione.

Finisce quindi per essere un film sì sufficiente, ma anche una discreta occasione persa. Conferma del fatto che davvero con Apatow si hanno dei limiti ben precisi, più di tanto non si può fare.

Poveri ma ricchissimi. Non può piacervi davvero, dai!

"Toglieteci tutto, ma se ci togliete il calcio..." urla il cittadino in uno sfogo populista: domanda, quando in precedenza avevano tolto la corrente all'intero paese, il calcio come lo guardava? Fotografia di una sceneggiatura imbarazzante e dell'ennesima porcata in salsa brizziana.




Se già il primo film era stato una colossale schifezza, cosa attendersi dal sequel quando le idee (che peraltro erano riprese da un film francese) non ci sono più?
Il fatto che il primo film abbia avuto (chissà per quale motivo) un discreto successo spinge Brizzi & Co a tentare di lucrarci sopra creando un sequel ancora più improbabile e ancora più brutto, con gag da cinema di Serie Z, twist e situazioni da cinema che non appassionerebbero nemmeno un bambino di quattro anni e riferimenti all'attualità (o quasi, le leggi ad personam berlusconiane erano già situazioni dell' "ieri" italico) degni del Bagaglino.

Ne esce allora l'ennesimo film brizziano: il fatto che questo personaggio patetico riesca a trovare ancora dei produttori pronti a investire e degli spettatori pronti ad affollare (più o meno) le sale è lo specchio di un paese ridicolo, il paese in cui un Poveri Ma Ricchissimi può uscire tranquillamente nelle sale.

Tra le schifezze della sceneggiatura, da sottolineare un'incongruenza indegna. Al paesino dei protagonisti viene per circa una settimana tolta la corrente elettrica dallo stato italiano, ma il terrore generale arriva quando lo stesso stato decide di tagliare a questo paesino nientemeno che Sky Calcio, a suon di populistico "potete togliermi tutto, ma se mi togliere il calcio...". Domanda: quando non c'era la corrente elettrica come lo guardavano il calcio?

De Sica ormai è la fotocopia sbiadita di sé stesso, mentre Brignano continua con i suoi personaggi in stile "cane bastonato" tentando giusto un paio di battute (imbarazzanti entrambi). Alla Ocone spetta un'abbozzata parodia delle "50 Sfumature" da far cadere le braccia, mentre è triste vedere uno come Paolo Rossi in un film simile, peraltro dimostrando di essere egli stesso in cattiva forma. La Comello riesce a incespicare pure nelle poche battute che è chiamata a dire. Cast imbarazzante in toto.

Degno contorno le musiche, uscite dalle peggiori soap opera anni '70.

Film dilettantesco. Mi preoccuperei della salute mentale di chi ha apprezzato una robaccia simile.