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mercoledì 30 settembre 2020

Botte da prof.: raro demenziale recente capace di essere divertente

Buon esempio di commedia demenziale all'americana, un genere parecchio svilito negli ultimi anni. E' un film caciarone e di grana grossa, ma in tutte le gag c'è dietro una buona costruzione. Il risultato è piacevolmente divertente.

 
Uno dei generi che solitamente meglio riusciva agli americani, quello della commedia demenziale, da una decina d'anni è in grave stato comatoso, massacrato dalle nuove generazioni di pseudo-comici figli degli Scary Movie che hanno mortificato il genere, pensando (forse neanche tanto a sproposito, visto l'istupidimento della società americana e occidentale in generale) che allo spettatore bastasse la volgarità di grana grossa fine a sé stessa e senza alcuna costruzione comica attorno per far ridere (idea entrata in testa anche ai fratelli Farrelly che produssero quell'abnorme ammasso di sterco che fu Comic Movie, il peggior film di sempre probabilmente). Un vero peccato, perché, senza andare a toccare capolavori del genere, agli americani il demenziale riusciva bene ed era un mezzo efficace di produrre film divertenti pur partendo con pretese e pochi mezzi: insomma, volando basso ci si poteva divertire.
Per questo fa piacere vedere ogni tanto qualche eccezione che conferma la regola, un film di bassa lega, con anche un disceto numero di trivialità e con pretese sostanzialmente nulle come questo "Botte da prof." risultare sorprendentemente piacevole e divertente: certo, come sempre si tratta di film non per tutti i gusti e da sconsigliare al palato particolarmente fine, perché bisogna entrare nella giusta ottica e avere l'attitudine ad "abbandonare la razionalità" (senza per forza "spegnere il cervello": per questo ci sono i programmi della tv generalista odierna) per accettare assurdità e per certi versi anche volgarità, ma in questo caso anche le gag triviali hanno dietro una certa costruzione portando il film a indurre spesso a volentieri alla risata grassa, soprattutto nelle prima e nell'ultima fase della pellicola.
Bisogna accettare anche qualche caduta di tono e qualche trovata non particolarmente riuscita, ma se non si pretende troppo un film come Botte da prof. riesce a divertire parecchio.
 
Funziona la coppia protagonista, con Ice Cube che ormai s'è specializzato in ruoli da omaccione rude e che in questo caso riesce a rimettersi in gioco nel genere della commedia pura come non faceva da parecchi anni, risultando ancora un attore di buon livello.
La forza motrice del film è però Charlie Day, attore magari non particolarmente conosciuto da noi (a parte la sit-com C'è sempre il sole a Philadelphia) ma che appare spesso e volentieri funzionale in ruoli demenziali, come già visto nello svalutato (ma in realtà parecchio divertente) Tre uomini e una pecora.
Attorno a loro, oltre ai soliti giovanotti nei ruoli degli studenti (a cui finiscono assegnate le gag meno gustose della pellicola), un cast con qualche nome noto a livello televisivo, soprattutto Dean Norris (l'ex Hank Schrader di Breaking Bad, qui nel ruolo del preside) e Christina Hendricks (ex Mad Men e adesso protagonista nella buona serie Good Girls, sempre uno spettacolo per gli occhi anche se qui in un ruolo parecchio secondario).
 
Il risultato è un film di grana grossa, spesso caciarone, ma di ottimo ritmo, che solo nella fase centrale perde un po' di attrito per poi riaccelerare in modo convincente nella fase finale (che avrà un finale anche di maniera, ma sostanzialmente funzionale). Buono per passare 90 minuti di divertimento senza pensieri, o magari per una serata di totale cazzeggio in compagnia.
Sarà pure cinema "usa e getta", ma riesce nell'obiettivo di intrattenere e tanto basta: nessuno pretendeva il nuovo classico della comicità da un film del genere.
 
Voto: 7

sabato 26 settembre 2020

Baby Driver - Il genio della fuga: adrenalina a mille

Action a ritmi folli, con un buon cast e soprattutto diretto con una tecnica di prim'ordine, con inquadrature sempre azzeccate combinate a una colonna sonora eccellente.


Se c'è un genere che forse più di tutti sta pagando il progressivo appiattimento del cinema americano, sempre più omologato e privo di idee, questo è quello degli action movie, diventati via via sostanzialmente uguali e sé stessi e nei casi peggiori abbastanza ridicoli, con picchi di grottesco involontario.
Per questo vedere Baby Driver, film uscito nel 2017, è una boccata di aria fresca e fa enormemente piacere ritrovare un film d'azione in grado di essere così coinvolgente e di intrattenere in maniera eccellente.
 
Ovviamente, per un film che parte a 200 all'ora (figurativamente ma non solo) e che incredibilmente nella seconda metà riesce non solo a non frenare, ma anche ad accelerare ulteriormente, la chiave principale per la buona riuscita è nella regia e Edgar Wright (che già aveva dimostrato buon gusto in passato) fa un lavoro prodigioso, per un film che procede a ritmi folli senza essere eccessivo, ma regalando adrenalina a fiumi e mostrando una qualità tecnica in regia di livello totalmente superiore alla media: non solo con sequenze parecchio godibili, ma anche e soprattutto non sbagliando un'inquadratura anche nei momenti più caotici. Il tutto aggiungendo l'uso sapiente della colonna sonora, con la musica che accompagna sostanzialmente ogni fase del film e che diventa un ulteriore punto di forza, per come si accompagna perfettamente all'immagine e per come contribuisce a rendere accesissimo il ritmo: tra i tutti i brani conosciuti che si alternano, forse il momento più azzeccato arriva nel finale con l'uso di "Never never gonna give ya up" di Barry White nella scena al diner, impagabile.
 
Baby Driver è così un gran bel film, con Wright (anche unico sceneggiatore) che riesce a inserire qua e là anche qualche elemento umanizzante (soprattutto nel rapporto ben congeniato tra il protagonista Ansel Elgort e Lily James) senza sprofondare nel manierismo, senza dimenticare che la componente principale è quella action, tra inseguimenti e situazioni anche fracassone come vuole il genere ma sempre divertenti.
Non manca una dose di ironia di fondo (memorabile la rapina con le maschere di Mike Myers), anche questa ben calibrata e non eccessiva, per un film che vanta anche qualche eccellente nome nel cast: se Kevin Spacey e Jamie Foxx impreziosiscono la pellicola, a spiccare anche più di loro è l'ex Don Draper di Mad Men Jon Hamm, che specialmente nel finale regala delle espressioni allucinante di straordinaria fattura.

Azzeccato anche il protagonista Ansel Elgort, col viso pulito d'ordinanza e credibile nelle sequenze d'azione, per un film con davvero pochi difetti e con un altissimo livello spettacolare. Combinando tutto a una tecnica visiva di prim'ordine, viene fuori un esempio (ormai purtroppo raro di questi tempi) di grande cinema.

Voto: 9

venerdì 18 settembre 2020

Lavoro a mano armata: buona serie tristemente attuale (e non solo per la Francia)

La naturalezza e l'esplosività dell'interpretazione di Eric Cantona si sposa benissimo con la penna di Pierre Lemaitre e con una sceneggiatura in grado di miscelare generi e cambiare volto quasi a ogni puntata.
 
 
Parlando di "Lavoro a mano armata" non si può che iniziare dal nome di Eric Cantona, uno dei personaggi più particolari e unici che si siano visti negli ultimi 30 anni, in ogni campo. Per chi è cresciuto con un certo tipo di calcio (calcio inglese in particolare), il nome di Cantona non può che essere quello più significativo di tutti gli anni '90, uno dei primissimi calciatori globalizzanti a livello mediatico, per le sue doti tecniche ma anche (se non soprattutto) per una personalità magnetica, a volte controversa, sempre capace di creare interesse e attenzione: e questo ben prima dell'arrivo dei social media e degli Instagram con calciatori che si auto-definiscono degli dei.
Il post-carriera calcistica di Cantona non poteva che essere egualmente interessante visto il suo carattere e la sua mediaticità e, pur continuando a divertirsi giocando e allenando a beach soccer, il suo passaggio alla recitazione è sembrato parecchio naturale, visto che a suo modo è sempre stato anche un personaggio parecchio teatrale.
L'Eric Cantona che troviamo a recitare in questa serie tv è esattamente quanto ci si possa aspettare: in grado di accentrare l'attenzione su di sé, ma anche di apparire naturale e di mostrare eccellente capacità di immedesimazione. Non si può certo dire che la vita di Alain Delambre possa essere simile a quella dell'ex star calcistica, ma il marsigliese di origine italo-spagnola rende benissimo nel ruolo dell'uomo di mezza età devastato dalla disoccupazione e dall'incapacità di trovare sbocchi. A livello caratteriale invece Delambre diventa abbastanza affine a Cantona, che deve riportare un personaggio tendente all'irascibilità e di estrema passionalità: e Cantona convince molto, anche nelle parti riflessive, dimostrando (ma ormai confermando) di essere ben più di una star sportiva prestata alla recitazione, ma di essere un attore a tutto tondo.
 
C'è tanto di Cantona in Lavoro a mano armata, ma non c'è solo Cantona, perché dietro c'è una delle penne migliori del panorama francese, quella di Pierre Lemaitre, scrittore capace come pochi di saper leggere il panorama attuale della società francese.
I rischi di riportare in una serie tv un romanzo (per giunta di buona popolarità) sono sempre tanti, ma gli sceneggiatori riescono con successo a restare fedeli allo scritto e allo stesso tempo ad aggiungere degli accorgimenti capaci di risultare intriganti e avvincenti agli occhi dello spettatore. In particolare, piace e stupisce la capacità di miscelare generi e sostanzialmente cambiare volto quasi a ognuna delle sei puntate che compongono la serie.
La prima puntata introduce il personaggio di Delambre e mostra le difficoltà di un disoccupato nella società moderna, iniziando a dare una lettura sulla crudeltà delle grandi aziende del mondo capitalista. La seconda puntata vede Delambre pianificare la sua azione, ma è molto un dramma familiare, con il difficile rapporto con le figlie e con la moglie che al momento prova a essere comprensiva. Nella terza puntata si vira all'azione per il gioco di ruolo con la presa di ostaggi organizzando dall'azienda. Quarta e quinta puntata portano alla claustrofobica vita carceraria. La sesta puntata diventa fiction giudiziaria e ha la risoluzione.
 
Ognuna di queste anime è molto ben costruita, portando così a una serie tv di alta qualità: ficcante nella sua accusa, avvicincente e in grado di portare lo spettatore a immedesimarsi con il protagonista.
Una serie tv decisamente da vedere.
 
Voto: 8

martedì 15 settembre 2020

The Ranch: e tutto va in vacca

Sit-com di una lentezza e staticità straziante, con battute pessime se non proprio urticanti: un disastro


 
Dopo che la serie tv  That '70 Show lo aveva lanciato, lo showbiz americano ha fatto di tutto per trovare un modo per dare un senso alla carriera successiva di Ashton Kutcher, che invece è diventato un vero e proprio oggetto misterioso tra le "star" d'oltreoceano: prima una sequela di film uno meno riuscito dell'altro, poi il tentativo di rilancio in tv come sostituto di Charlie Sheen in Due Uomini e Mezzo, per Kutcher sostanzialmente c'è stato un fallimento dietro l'altro, ma questo non ha mai minato la sua popolarità a livello nazionale e globale (se davvero i dati dei social contano per quantificarla).
Allora l'idea di Netflix è stata semplice: riunirlo con un'altra delle star declinanti di That '70 Show come Danny Masterson (con apparizioni da guest per altri volti di quello show, come Wilmer Valderrama, Debra Jo Rupp o Kurtwood Smith, tra i tanti ex "compari" di Kutcher apparsi nelle quattro stagioni a confermare un tentativo di creargli una assoluta comfort zone) per rilanciarlo a livello televisivo/di streaming.
Peccato che poi la stessa Netflix a metà della terza stagione decida di tagliare i ponti con Masterson per i classici scheletri nell'armadio che rispuntano, spaccando a metà progetto il tentativo.

Sia prima che dopo il licenziamento di Masterson, con The Ranch c'era un problema: la serie era sballata dall'inizio.
Ne è uscita fuori una sit-com che non ha i crismi di una sit-com: questo tipo di prodotto funziona solitamente per la velocità e il ritmo delle puntate, ma lo stile scelto per The Ranch invece è compassatissimo, per una serie che va via lentissima per tutta la sua vita e che ha una spaventosa staticità. Ne esce una serie di chiacchiere, parole, blateramenti, con attori sempre immobili, inquadrature sempre uguali, in cui le azioni sono solo raccontate, mai viste. 
Oltretutto il livello delle battute, già mediocre nella prima stagione, è diventato alla lunga disastroso, perché Masterson ripete sempre le stesse tre-quattro cose stancando, perché Kutcher ripete il personaggio del bambinone e perché (come avrebbe detto Sandra Mondaini) non succede mai niente.
Alla lunga l'idea degli autori è stata addirittura di dare un tono drammatico al personaggio di Kutcher, mandando la serie completamente al baratro: l'ex modello non ha proprio l'espressività e la credibilità per questo ruolo. E oltretutto il "dramma" è risaputo (separazioni, figli) o addirittura di nullo interesse, perché oggettivamente a chi può interessare realmente un plot incentrato sulle mandrie in una serie tv in una piattaforma di streaming?

E in tutto ciò è disastrosa la presenza di una vecchia volpe come Sam Elliott, che diventa alla lunga l'unica fonte di "battute" per gli autori. Le battute? Deliri da nazionalista e vecchio bacucco che lo rendono completamente insopportabile, un vecchio petulante che a confronto Clint Eastwood in The Mule era di ampi orizzonti! 

Il risultato è una serie piuttosto imbarazzante, resa ancora peggiore dall'addio di Masterson, che era mediocre di suo ma almeno rendeva meno monotono il tutto: alla lunga viene rimpiazzato da Dax Shepard, che fa una figura piuttosto ridicola.
Lo schema delle puntate è quasi sempre lo stesso: litigio, ripensamento, litigio, riappacificazione.

L'unica cosa salvabile? Il sottofondo con la musica country, insolito e piacevole.
 
Incredibilmente questa roba è stata portata avanti per 80 puntate, spalmate in 4 stagioni.

Insomma, aspettiamo il prossimo tentativo di rilancio di Ashton Kutcher. Il quale sarebbe anche un personaggio non malvagio, ma che deve trovare progetti più sensati e meglio costruiti per nascondere qualche limite a livello attoriale: e soprattutto, se ti consideri un liberal-socialista e te ne vanti continuamente, cosa costruisci una serie così antiquata con ridicole e continue battute filo-repubblicane, soprattutto quelle imbarazzanti di Sam Elliott?

Voto: 1

giovedì 10 settembre 2020

Hearts Beat Loud: "Quando la vita ti presenta dei problemi, trasformali in arte"

Nick Offerman e Kiersey Clemson si esprimono alla grande in una commedia musicale a ritmi bassi ma capace di deliziare


Padre e figlia mettono in piedi una piccola band in concomitanza con la chiusura del negozio di dischi del primo e con la partenza per il college della seconda.

Nonostante un buon cast di contorno (Toni Collette, Sasha Lane, Ted Dawson e Blythe Danner), il film è tutto centrato nel gioco a due tra Nick Offerman e Kiersey Clemson, che dimostrano un'ottima chimica e la capacità di calarsi perfettamente nel ruolo, in un film che fa via a toni bassi, quasi sommesso, ma riesce a colpire con la sua delicatezza.
E' un film di disillusioni, con dentro l'accettazione di dover andare avanti nella vita, si saper chiudere alcune porte e strade impraticabili, con però la voglia di dare l'ultimo sussulto ai propri sogni.
Accompagnati da una buona colonna sonora (molto bella la title track cantata dalla stessa Kiersey Clemson) e da una sceneggiatura che non brilla certo per originalità ma che riesce a esprimere bene il tema trattato, i due attori protagonisti (che peraltro entrambi hanno un passato in serie tv sfacciatamente comiche) si calano con totale serietà in una commedia musicale che, nonostante la presenza di Offerman, non ha alcun picco di umorismo, mostrando così una dimensione diversa per l'ex attore di Parks and Recreation, che convince molto in questo ruolo molto serioso. Kiersey Clemson non solo risulta alla sua altezza, ma diventa forza motrice del film mostrando un'espressività e anche una dolcezza nell'interpretazione non da poco.

Hears Beat Loud finisce così per essere un "piccolo" film ma con una grande anima, sincero nel proprio racconto, capace di non scivolare in pietismo e in eccessiva nostalgia, ma raccontando una necessità di cambiamento come nuovo capitolo di vita con buon tatto e sensibilità. E sono proprio queste caratteristiche che lo rendono un film parecchio delizioso, da vedere assolutamente.
Perchè "Quando la vita ti presenta dei problemi, trasformali in arte".

Voto: 8

lunedì 7 settembre 2020

Boris: cult assoluto

 Si rasenta la perfezione



Non è un'iperbole: Boris è la migliore serie tv mai partorita in Italia.
Pungente, dissacrante, con gag sempre riuscite e personaggi entrati già nella storia. Un cast funzionale con attori che, esaltati da uno script magnifico, tutti si esprimono a livelli irripetibili per loro. E un uso incredibilmente sapiente delle guest star, non una di queste piazzata senza una decisa funzionalità nelle varie puntate (su tutti, un Giorgio Tirabassi devastante in ogni apparizione).
Una serie persino avanti coi tempi, tanto da essere più attuale adesso di quando è uscita. Se era già bellissima a una prima visione, a rivederla più volte è diventata un cult. Strepitosa.
Impossibile non ricordare una marea di momenti memorabili: "Il gioielliere"; i tormentoni di Martellone; gli sceneggiatori; "Cagna maledetta"; Guzzanti che tortura lo stagista; gli sfoghi di Renè Ferretti (tra cui l'epico "viva la merda!").

Voto: 10

Un'insolita missione: film misconosciuto ma divertente

Film dimenticatissimo ma da ripescare. Si segue l'inflazionatissimo genere dell'heist movie in salsa comica, ma è la messa in scena a fare la differenza. Steve Coogan è un eccellente protagonista e spesso induce alla risata con la sua sola espressione e la sceneggiatura mischia bene la demenzialità all'americana con lo humor inglese.

 
 
 
C'è sempre un gusto superiore quando capita tra le mani un film completamente dimenticato per accorgersi che è un film godibilissimo che sarebbe da ripescare, piuttosto che mandare in onda nelle varie tv (generaliste o specializzate) certi film pattume che si vedono però continuamente.

"Un'insolita missione" (titolo italiano banalissimo che non aiuta certo il film a distinguersi dalla massa, molto più efficace il titolo originale "The Parole Officer" che evidenzia il mestiere del protagonista) è un film riuscito, pur infilandosi nel panorama piuttosto inflazionato degli heist movie rivisti in chiave comica per protagonisti dilettanti e per certi versi cialtroneschi.
A piacere molto è come viene affrontata la comicità, che di base punta al demenziale all'americana, ma che viene riletto con gli occhi del ben più raffinato humor all'inglese, in alcuni casi anche discretamente ricercato, un mix che riesce bene per un film che ha davvero pochissimi cedimenti.
In questo quadro sono davvero poche le gag sbagliate (grossolana quella delle montagne russe) e pochi i momenti di pausa (un po' a metà film quando viene elaborato il piano), mentre il film si mantiene di buon ritmo e riesce a far ridere parecchio anche nel caotico finale, piazzando gag assurde a livello visivo e qualche finta frase a effetto davvero riuscita (su tutte la divertente lotta usando la cartelleria da ufficio, seguita da un "non provocate mai un impiegato").

Buono il cast, con un protagonista straordinariamente azzeccato in Steve Coogan, anche autore del film insieme a Henry Normal, molto abile nel riportare con naturalezza sullo schermo il classico protagonista da film comico con le sue goffaggini e e i suoi imbarazzi (in tal senso il prologo è già divertente, con Coogan che scivola dalla sedia e finisce per vedere da sotto al tavolo le gambe della segretaria e rialzandosi prova a giustificarsi con un imbarazzato "non ho visto niente, solo la minigonna" e una delirante dissertazione su come per lui le minigonne siano più igieniche dei pantaloni, devastante!). In alcune parti basta soltanto guardarlo in faccia per ridere, ma anche i suoi gesti provocano ilarità, basti vedere la scena del museo dell'arte sessuale, con la statua della fertilità con il pene gigantesco che Coogan involontariamente stacca: la compagna lo riattaccherà con un chewing gum, ma il pene subito dopo finisce per girare verso il basso sotto gli occhi della successiva coppia di visitatori, con la comparsata di un allora sconosciuto Simon Pegg.
Diverte parecchio anche il ladro pauroso (e che soffre di vertigini) di Ben Miller, mentre come guest star da sottolineare la presenza nientemeno che di Omar Sharif.

Voto: 8

domenica 6 settembre 2020

Thanks! Disgustosa cretinata (prodotta dal solito Luca Barbareschi)

Film spazzatura. Il tentativo dichiarato di fare del "politicamente scorretto" all'italiana riesce soltanto ad avvalorare la forza educativa del linguaggio del politicamente corretto: perché i risultati sono disarmanti. 

 

Pura spazzatura, ennesimo imbarazzante "regalo" fattoci dall'insopportabile Luca Barbareschi, qui in veste di produttore.
Il tentativo dichiarato di fare del "politicamente scorretto" all'italiana riesce soltanto ad avvalorare la forza educativa del linguaggio del politicamente corretto: perché i risultati sono disarmanti. A parte la fastidiosa recitazione forzatamente sovraeccitata e sopra le righe, i risultati sono disarmanti per il testo e per il linguaggio, con delle espressioni che vorrebbero essere "cattive" e che invece sono unicamente di cattivo gusto, con razzismo di ogni genere spalmato lì in ogni dove. L'unico risultato è di mantenere il film a livelli bassissimi e di rendere difficilissima la visione allo spettatore, a meno che si sia abituati alla tv alla Barbara D'Urso o alla Mario Giordano, al linguaggio dei bifolchi senza cultura alla Pio e Amedeo: per gli altri ogni battuta è una stilettata ai neuroni. Un film che è più che brutto e da evitare: è un film cretino.

venerdì 4 settembre 2020

Perdiamoci di vista: un grande film da rivalutare

Il film di Verdone più sottovalutato: riesce a essere sia pungente che sensibile, sceglie come spalla una Asia Argento clamorosa (mai più vista a questi livelli) e regala un film che scorre senza vere e proprie lacune, riuscendo a trovare gli sbocchi per far sorridere ma anche riuscendo a essere amaro e riflessivo in maniera decisamente convincente


Alcuni film del Verdone degli anni '90 ottengono un giudizio un po' più alto di quanto meriterebbero, per la pulizia della scrittura e la capacità dell'autore romano di distinguersi sempre e comunque in un panorama della commedia italiana che contemporaneamente andava in declino (e di conseguenza in crisi nerissima).
"Perdiamoci di vista" invece è un caso particolare, visto che un po' ovunque il giudizio è smorzato, appena sufficiente, rendendolo palesemente il film di Verdone più sottovalutato: perché in realtà è uno dei suoi migliori film in assoluto.

In quest'opera infatti viene raggiunta una scrittura completa senza momenti di cedimento che probabilmente Verdone non raggiungeva più dai tempi di Compagni di Scuola, per un film che scorre benissimo con dei picchi ma senza alcuna caduta. Come se non bastasse, viene centrato un mix di emozioni non indifferente, che quasi sarebbe da ricollocare all'interno della migliore tradizione della commedia all'italiana: sì, perché in "Perdiamoci di vista" ci sono momenti in cui si sorride, in un quadro generale molto amaro e riflessivo, trovando una sensibilità di scrittura non indifferente.
Come se non bastasse, Verdone non sempre (specialmente nei film successivi) è riuscito a trovare una spalla femminile all'altezza in grado di esprimere al meglio le sue idee per quel determinato film: qui si affianca ad Asia Argento, la quale con la sua interpretazione non fa che confermare quanto di buono ci sia in questo film. Sì, perché la figlia di Dario (che sul set sarebbe diventata maggiorenne) interpreta il personaggio della paraplegica con una sensibilità e una emotività splendida: vedendola qui si penserebbe agli albori di una grande attrice, purtroppo invece Asia non si avvicinerà mai più a questo livello recitativo e se la si vede così convincente e così emozionante ha tanti meriti lei in prima persona, ma evidentemente devono esserci dei meriti enormi da parte di chi ha diretto questo film.

Personalmente di questo film mi piace tutto, ogni sfaccettatura. All'inizio Verdone è eccellente nei panni del cinico e squallido conduttore della tv del dolore che senza vergogna ruba e manda in onda le immagini di una ragazza morta suicida, poi inizia via via a sensibilizzarsi nel rapporto ad alti e bassi (ma meno repentini e meno irreali del solito) con il personaggio di Asia Argento, mostrando un tatto notevole: perché il film riesce a essere a suo modo commovente, evitando in ogni modo la strada della facile lacrimuccia melodrammatica.
E sono azzeccati anche tutti i personaggi di contorno, tra cui va ovviamente sottolineato Aldo Maccione, che propone a Verdone un programma squallidissimo dal titolo "Galline da combattimento", in cui spadroneggia l'ospite Angelo Bernabucci ("Aho che m'hai preso per Zoro?"): scena incredibile perché nel suo tentativo di esagerazione surreale, Verdone ha sostanzialmente anticipato la tv trash di questi tempi andando clamorosamente vicino ai toni e al linguaggio orripilante che ammorbano troppe trasmissioni Mediaset, Rai e di ogni altro canale tv.
Infine, cosa che non sempre accade nei lavori del Verdone maturo, in questo film sono evitate tutte le possibili parentesi futili, scorrendo così senza lacune.

Per questo, andando probabilmente controtendenza, per me questo è uno dei migliori film di Verdone.
Voto: 9