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giovedì 28 novembre 2019

Un giorno di pioggia a New York: Woody con le polveri bagnate

La scelta disastrosa di Timothée Chalamet come protagonista appesantisce un film certamente non brutto, ma comunque da considerare minore nella eccellente filmografia di Woody Allen.


Il tanto atteso e altrettanto tribolato (e checché se ne dica nella Nazione che tutto perdona, tutto dimentica e tutto abbuona come la nostra, le motivazioni c'erano tutte per una vicenda inquietante, ancora troppo nebulosa e impossibile da dimenticare anche dopo tutti questi anni, questo genere di accuse non possono mai andare in prescrizione nella memoria generale e a dirlo è un alleniano come il sottoscritto) "Un giorno di pioggia a New York" ci propone un Woody Allen minore e non particolarmente ispirato, in un film che regala comunque 90 minuti leggeri per il solito mestiere di un artista che sa ancora dirigere e scrivere come pochi, ma per un film che allo stesso tempo difficilmente verrà ricordato tra qualche anno.
Non è certo un film brutto come Vicky Cristina Barcelona e To Rome With Love (i due grossi passi falsi della filmografia alleniana che ormai si approssima al cinquantesimo film), ma è uno di quei film che scorrendo i titoli delle produzioni alleniane ti farà dire "ah, ma ha fatto anche questo?".

I punti di forza sono la bravura registica del vecchio Woody, che riesce a scrivere come sempre dei dialoghi ben al di sopra della media (anche se su questo c'è qualcosa da dire più avanti) e creare quell'atmosfera inimitabile, dovuta al mix tra le solite musiche jazzate e il forte impatto visivo, ancora più forte quando l'ambientazione è quella newyorchese tanto cara ad Allen. Questo basta a far scorrere velocemente i 90 minuti senza mai annoiare, ma le avventure dei due protagonisti nella magnifica New York piovosa non sono certo memorabili, sono incapaci di appassionare e di lasciare il segno. Specialmente le vicende di Gatsby senza i dialoghi ricercati degni di Woody Allen sembrerebbero quelle di una mediocre serie tv adolescenziale.

Oltretutto non convince il casting maschile del film. La popolarità che ha Leiv Schreiber per me è un totale mistero: in sostanza questo attore sa fare unicamente l'espressione un po' da cane bastonato tipica di Ray Donovan e quella soltanto, il che può andare bene (in parte) in quella serie tv che gli calza a pennello, ma qua ci si accorge di una totale mancanza di alternative. Insomma, la sensazione che hai è che Ray Donovan sia finito a fare il regista, nulla più.
Ruolo difficilissimo nei film di Allen in cui il regista non è presente da attore (ormai per ovvie ragione, la quasi totalità) è quello del protagonista maschile, perché viene facile ripensare a certe pellicole memorabili e a paragonare la presenza principale con quella storica di Woody Allen. Un ruolo difficilissimo che sulle spalle dell'imberbe Timothée Chalamet pesa come un macigno: vedere certe frasi e certe citazioni in bocca a Chalamet sembrano davvero poco credibili. Chalamet non regge la scena quando deve tirare fuori quelle due-tre frasi sarcastiche "a la Woody Allen" e annaspa senza meta, senza sapere cosa fare in un ruolo che proprio gli sta troppo largo. E la scelta disastrosa dell'attore protagonista è una delle peggiori piaghe del film.

Per quanto (giustamente, ripeto senza voler creare fraintendimenti, visto che le accuse non sono mai state cancellate in maniera chiara, anzi sono rispuntate in maniera pesantissima con la forte e toccante intervista di Dylan Farrow alla CBS: davvero mi sconcerta leggere in questi giorni certe assurdità in riviste e siti di queste latitudini) lui sia visto ora come un cancro dalle correnti femministe americane, Allen invece difficilmente sbaglia il casting delle attrici femminili, anzi riesce sempre a creare ruoli importanti per loro e a esaltarle: senza voler tornare a nomi storici come quelli di Diane Keaton e Mia Farrow per un paragone impossibile da reggere, il pensiero va alle varie Scarlett Johansson, Helen Hunt o Mira Sorvino di turno, viene difficile ricordare delle protagoniste femminili non esaltanti nelle pellicole del newyorchese. E il bersaglio è ancora centrato pur puntando su un'attrice molto giovane come Elle Fanning, che regge splendidamente la scena e (pur in un personaggio costretto a girovagare tra registi, sceneggiatori e attori senza un reale colpo di coda notevole) riesce a dare un tocco elegante alla propria recitazione.
A stupire più di tutti però è la presenza di Selena Gomez, il cui personaggio deve punzecchiare il protagonista Gatsby con delle battute abbastanza cattive: non diresti mai che un ex volto della Disney possa essere credibile nel recitare battute simili, eppure invece la Gomez sorprende per credibilità e riesce a far sorridere (cosa che invece Chalamet non riesce mai a fare nelle battutine tipiche alleniane).

Infine, pur apprezzando la solita regia (magari non indimenticabile come in altre pellicole, ma comunque efficace e professionale), stupisce dover vedere un errore tecnico marchiano da uno che invece sul piano tecnico è ricercatissimo come Woody Allen. Il mio riferimento è alla scena del taxi, in cui i capelli bagnati di Selena Gomez cambiano pettinatura a ogni inquadratura, una roba grossolana che si ripete una quarantina di volte (tanto che addirittura i capelli bagnati diventano asciutti, poi di nuovo bagnati, poi cadono in modo diverso sull'orecchio, tutto senza una logica). Un errore sconcertante davvero clamoroso e che probabilmente nell'intera filmografia alleniana si era visto soltanto nel già citato To Rome With Love.

Insomma, la pioggia del titolo ha avuto anche un po' l'effetto di bagnare le polveri di Woody Allen. Nonostante tutto, un film non sufficiente ma che è impossibile stroncare completamente: evidentemente Allen riesce a salvare anche delle pellicole poco ispirate come questa.

giovedì 21 novembre 2019

Cetto c'è, senzadubbiamente: Albanese c'è, la sceneggiatura no

Cetto Laqualunque funziona ancora e Albanese riesce a creare qualche momento divertente, ma il film è annacquato da una sceneggiatura troppo spenta e per nulla creativa.

Dopo un primo capitolo capace di essere ancora adesso divertente (pur nei suoi difetti di fluidità) per l'introduzione al cinema di un personaggio sfavillante come Cetto Laqualunque, ma anche dopo un secondo capitolo riuscito piuttosto male e dimenticabilissimo, Antonio Albanese e Giulio Manfredonia (più il primo che il secondo) ci riprovano cambiando un po' il mirino per gli sviluppi sempre più biechi dell'attualità italiana: basta questo per fare un buon film?
Ovviamente no, serve (specialmente al terzo atto) una sceneggiatura forte, capace di far male sui temi attuali interni o perlomeno capace di creare un clima surreale insolito. Purtroppo tutto questo in "Cetto c'è, senzadubbiamente" non c'è proprio (senzadubbiamente). I riferimenti che qualcuno poteva aspettare sulla corrente becero-sovranista sono minimi (sempre se ci sono), quindi in realtà la satira viene tagliata fuori in partenza, così come la componente grottesca è poco viva. Di fatto, il film segue logiche da commedia vista e stravista, tanto che buona parte degli spettatori con una non eccelsa esperienza cinematografica può capire fin da subito dove il film vuole più o meno andare a parare nella sua storia, troppo lineare e troppo prevedibile. Tutto ciò impedisce la caratterizzazione dei personaggi di contorno a quello che (ovviamente) è il grande protagonista, cosa che invece in Qualunquemente era un po' più presente: il figlio di Cetto sembra il luogo comune del giovane attuale e non ha carattere, l'ex moglie di Cetto purtroppo di vede solo un paio di volte (ed è l'unico personaggio capace in sé di regalare delle risate nella sua sfuriata contro l'ex marito), la nuova moglie è un corpo e poco più, l'onnipresente Pino sorprende solo quando cita Giulio Cesare ma per il resto nulla aggiunge.

Il film è quindi troppo sulle spalle di Antonio Albanese, che pure è debordante e non a caso riesce a regalare i momenti più divertenti quando riesce a liberarsi da un contorto troppo lineare e a garantire le stravaganze tipiche del personaggio di Cetto: la sceneggiatura infatti non regala poi momenti così divertenti, quindi tutte le risate sono dovute all'estro di Albanese. Devastante alla cena con i nobili (sorpreso di quanta gente ci sia che non faccia nulla nelle proprie giornate), trascinante quando al matrimonio canta il ritornello dell'assurdissima Il Vero Amore, inno al meretricio che sembra calzare fin troppo bene al carattere di troppi uomini che si ricordano di avere gli attributi solo durante l'atto sessuale ("Il vero amore è solo a pagamento, se pagherai in contanti ti sentirai contento, il vero amore non cede al sentimento, la paghi la saluti e non c'è sfracanamento").

Per cui si ride sì, perché il talento comico (e anche attoriale, Cetto non è solo volgarità spiazzanti ma anche espressioni strafottenti interpretate perfettamente da questo grande attore) di Antonio Albanese resta eccelso, ma purtroppo resta superiore agli stessi film che interpreta. Il personaggio funziona ancora, perché purtroppo l'odiernità italiana lo rende fin troppo attuale (basta appunto spostare un minimo il mirino), ma allo stesso tempo non può ottenere un voto superiore alla sufficienza perché alle spalle del protagonista si vede troppo poco. Ed è un vero peccato, senzadubbiamente.

E poi, mi chiedo: solo io avrei voluto vedere cosa avrebbe fatto Cetto Laqualunque da re?

giovedì 7 novembre 2019

La belle époque: Quel délice!

Cinema sognante capace di alternare risate e momenti toccanti con sorprendente facilità. Grandissimo film.


La vita reale di Victor prende una brutta piega e allora lui si rifiugia in una finzione, o meglio nell'idealizzare i propri ricordi.
Su questo semplice incipit, viene costruito un film più complesso del previsto, che stenta giusto nei primi 20 minuti che sembrano un po' caotici ma che a posteriori si capisce quanto fossero funzionali nell'introdurre ogni situazione che poi verrà approfondita in seguito.
Appena Victor inizia a entrare nella ricostruzione del suo 1974 il film accelera e non si ferma più, diventando semplicemente perfetto, con ingranaggi che girano al meglio.

La capacità del miglior cinema francese di rendere delizioso un soggetto all'apparenza semplice lascia ancora a bocca aperta. La Belle Epoque è cinema sognante, che ti fa entrare in un mondo "fantasioso" ma senza mollare il contatto con la severa realtà, in un miscuglio molto ben amalgamato. Tutto gira attorno al Victor ritratto in maniera impeccabile da Daniel Auteuil (meraviglioso il suo sguardo sognante una volta inserito completamente nella vita alternativa), ma attorno a lui si intreccia molto di più, dalla moglie Marianne che lo tradisce con un suo amico al "regista" Antoine con la sua storia ad alti e bassi con l'attrice che impersona la giovane Marianne, senza dimenticare il figlio del regista e vari personaggi secondari tutti capaci di aggiungere qualcosa all'opera (personalmente mi ha fatto impazzire l'assistente del regista ossessionato dal fatto che tutti gli altri attorno si divertano a eccezione di lui). Questa complessità impedisce al film di diventare stucchevole, viaggiando su un filo romantico-sognante che conquista e commuove senza mezzi termini.
Oltretutto il film vanta una scrittura arguta che permette di spezzare le situazioni più toccanti con battute azzeccate, riuscendo così a emozionare e far ridere con la medesima facilità.
Il tatto con cui tutto viene gestito è tale che pur toccando argomenti grevi (non mancano parolacce, battute sul sesso, la parte dominata dall'erba) il film mantiene una classe incredibile.
La regia di Nicolas Bedos che nella fase introduttiva sembra eccessivamente accelerata (quasi da puntata breve di una serie tv) trova il giusto passo a lungo andare.

Un finale con una buona morale (è giusto tenere dentro i ricordi migliori, ma bisogna sempre sapersi riadattare a tutto ciò che accade nella vita) e ben centrato consente poi di uscire dalla sala completamente soddisfatti, per un film che merita ampiamente il massimo dei voti e che è decisamente consigliato. Perché questo è davvero grande cinema.

sabato 2 novembre 2019

The Big Bang Theory: a.k.a. Sheldon & Co.

Diventata sempre più negli anni la "serie di Sheldon Cooper", dopo un inizio sfolgorante paga l'aver avuto alcune stagioni centrali piuttosto mediocri, per poi comunque riuscire a ritrovare una discreta vivacità nelle stagioni finali.


The Big Bang Theory è la perfetta dimostrazione di come alcune serie vengano tirate troppo per le lunghe, o perlomeno come in alcuni casi il livello tra le varie stagioni non è omogeneo.
Dopo un inizio abbastanza sfolgorante, in cui la serie mostra una certa originalità anche nel tema "nerdate", con il surreale innesto di Penny-Kaley Cuoco (vista in varie serie tv e qui nel ruolo che la lancia definitivamente), la serie ha una fase di stanca pesante a metà della propria "storia" con un paio di stagioni piuttosto brutte e comunque una pesante assenza di ispirazione.
In qualche modo gli autori riescono a risollevare la situazione e le ultime quattro-cinque stagioni risultano simpatiche, per quanto comunque si capisca che questa serie sia restata in vita per un unico motivo: il personaggio di Sheldon Cooper, con un Jim Parsons spesso strepitoso e capace di far dimenticare l'insulsità di tanti sub-plot (il peggiore probabilmente resta il viaggo nello spazio di Howard, una situazione capace di creare non una gag perlomeno simpatica).
Non è un caso quindi che l'ultima stagione si concentri quasi unicamente su Sheldon per dare una chiusura a questa serie che comunque è stata in grado di entrare nell'immaginario di tanti negli USA e all'estero, ma probabilmente (per quanto il voto finale resti positivo) lo status di "cult" resta eccessivo proprio perché diverse stagioni sembrano tirate via per forza d'inerzia.