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domenica 31 maggio 2020

I Topi: la superiorità di Antonio Albanese

Antonio Albanese si mette alla prova col mezzo della serie tv: e fa pienamente centro.


Nel grigissimo panorama attuale dello spettacolo italiano, in cui tutto sembra essersi omologato a un linguaggio e un livello di pura mediocrità, Antonio Albanese rappresenta una specie da proteggere, un vero e proprio panda, per la sua capacità di saper essere fresco e originale, riuscendo per certi versi anche a sperimentare pur mantenendo uno stile proprio assolutamente riconoscibile.
In questo caso Albanese si mette alla prova con i tempi e gli schemi della serie tv, dimostrando (con l'ovvio senso delle proporzioni) una capacità di adattamento maggiore di quella che a esempio aveva dimostrato Woody Allen nel pur riuscito Crisis in Six Scenes, che più che una vera serie tv con puntate distinte era un lungometraggio diviso in sei parti: qui invece abbiamo puntate delineate, pur con una storia ben precisa che si protrae per il corso delle due stagioni.
Albanese mantiene il suo stile fatto di un linguaggio anche diretto (le parolacce non mancano, eppure non ti viene mai da pensare a una volgarità gratuità: certuni sono ben più volgari usando un linguaggio meno colorito), di gag in alcuni casi facili (non mancano alcuni tormentoni) che sono ben identificabili nella sua storia (da Alex Drastico a Cetto La Qualunque, lo abbiamo visto esprimersi in modo simile), ma con la straordinaria capacità di riuscire a riproporsi con originalità, trovando quei dettagli freschi che ti danno comunque la sensazione di vedere qualcosa di nuovo.

Oltretutto, I Topi ci conferma come Albanese sia uno dei pochi (chi è rimasto? Corrado Guzzanti e chi altri? Non me ne viene in mente nessuno) capaci di fare della vera satira. Sì, perché pur non avendo obiettivi politici, questa serie è da considerare satirica, perché si vuole demolire e ridicolizzare quello che comunque è un potere forte nella Nazione. I Topi infatti è la definizione (eccellente già dal titolo) che si dà dei latitanti del crimine organizzato (in particolare dei mafiosi), gente che alla fin fine si ritrova a vivere sottoterra e in cunicoli, proprio come dei sorci.
La serie caratterizza bene il tutto, riuscendo a mantenere una certa efficacia nelle varie puntate, descrivendo bene un po' tutti i personaggi senza dimenticare che in sostanza da Albanese ci aspettiamo risate e di risate ne abbiamo parecchie, con alcuni episodi che diventano irresistibili. Anche in questo Albanese resta superiore a tutti: chi in Italia in questo momento riesce a divertirci così?

A livello puramente interpretativo, Albanese va sul sicuro, proponendo appunto quel linguaggio e quell'accento siculo che comunque (detto da una persona nata in Sicilia) non smette di stupire, visto che parliamo di un figlio di siciliani ma anche di una persona nata e vissuta principalmente al nord: eppure il suo linguaggio riesce a essere sia comprensibile (non si abusa del dialetto fino a non far capire le parole, come invece in Italia accade in troppi prodotti regionali) che assolutamente credibile e realistico, oltre che spassosamente divertente, altre capacità davvero fuori dal comune che bisogna riconoscergli.

E I Topi non è un one-man show, perché è buono il lavoro di davvero tutto il cast, con tre nomi che secondo me vanno evidenziati più di tutti.
Tony Sperandeo è semplicemente fantastico nella parte dello zio, anche lui costretto alla vita da totale recluso, da topo: suo uno dei tormentoni della serie, visto che ogni cosa accaduta o detta attorno per lui viene automaticamente qualificata "di m***a".
Nicola Rignanese è storica spalla di Albanese, ma nel personaggio di U Stortu (tra le gag ricorrenti della serie, i soprannomi deliranti assegnati ai vari membri delle famiglie) si ritrova valorizzato come raramente prima d'ora, ritagliandosi uno spazio molto importante, col suo capello ossigenato e la sua passione per la poesia (non vista di buon occhio dagli altri, tanto che quando si scopre che è omosessuale alle sue spalle dicono "ama la poesia, per forza è gay": nel mondo distorto dei topi, questo è normalissimo).
Benissimo anche Michela De Rossi, che mostra una personalità notevole nel ruolo di Carmen, la figlia che Albanese testardamente continua a chiamare Carmela.

La prima stagione è superiore alla seconda, ma in generale I Topi è una serie riuscitissima, per il tono satirico e per la capacità di esprimere una ottima comicità surreale, entrambi tipi di linguaggio che sembrano essere dispersi e dimenticati nella mediocrità attuale dello spettacolo italiano.

Voto: 8,5

venerdì 29 maggio 2020

A proposito di omicidi...: Peter Falk fa il verso ad Humphrey Bogart

Uno strepitoso Peter Falk impreziosisce un film pieno di dialoghi assurdi, per una riuscita parodia del genere noir.


Nel lungo elenco di film ingiustamente dimenticati che andrebbero ripescati (se non dalle cieche tv che pur avendo canali dedicati ai "classici" si dimenticano film di buon livello, perlomeno dai singoli appassionati) c'è assolutamente A proposito di omicidi..., gustosissima (ma rispettosissima) parodia dei noir, con un occhio di riguardo in particolare ad Humphrey Bogart.
Una parodia in cui più dell'aspetto visivo (anche se alcune gag visive ci sono, vedi il modo in cui muoiono tutti i personaggi, che porta il protagonista a dire "ma non muore nessuno normalmente in questa storia?") conta la scrittura, con dialoghi pieni di assurdità e trovate umoristiche, quasi sempre sottili per un film che riesce a farti ridere fortemente di pancia pur restando una parodia dai toni molto più bassi di quanto ci hanno abituato gli americani: c'è poco di greve in questo film, tutto è mirato a punta di fioretto.

Protagonista strabordante è Peter Falk, che dopo le primissime scene sostanzialmente non esce più dallo schermo e lo buca con una classe strepitosa. Investigatore privato dalla fortissima etica (per lui un conto era andare a letto con la moglie del socio quando era vivo, ma una volta che questi era morto sarebbe stato di cattivo gusto!), sorprendente rubacuori (anche qui è chiara la parodia a Bogart, con la differenza che il fascino del buon Falk non è esattamente comparabile) tanto da trovarsi a un certo punto a doversi districare con una donna in ogni stanza della sua casa, in una delle scene più gustose del film. Tutto funziona anche e soprattutto perché funziona meravigliosamente la scelta di Falk come protagonista, per la capacità di reggere la scena e soprattutto per il modo con cui riesce a dire una caterva di fesserie mantenendo un'espressione facciale serissima, per certi versi paragonabile in questo a quanto avrebbe fatto qualche anno dopo Leslie Nielsen: anzi, vedendo la sua interpretazione in questo film, verrebbe da pensare che se non avesse avuto successo meritato con uno strepitoso personaggio come quello del tenente Colombo (dove pure la dose di ironia non mancava di certo), Peter Falk avrebbe potuto avere una folgorante "seconda parte di carriera" anche in film simili a questo proprio un po' come Leslie Nielsen esplose nelle parodie demenziali grazie all'intuizione degli ZAZ. Basti soltanto vedere l'espressione impassibile del suo viso quando la moglie del suo socio versa le generi di questo nel water, quando deve dire la strepitosa battuta "non serve piangere sui mariti versati" per convincersene.

E' Falk a fare il film, ma si trova affiancato in modo ottimo da tutto il cast, su cui spicca secondo me soprattutto la sempre meravigliosa Madeline Kahn, che non a caso era considerata da Mel Brooks come la donna più talentuosa del cinema americano. I suoi dialoghi con Falk sono i più divertenti del film, con Madeline che nel corso del film finisce addirittura per usare nientemeno che 16 nomi!

A proposito di nomi, sono tanti quelli che spuntano nel film per infittire la trama noir, ma il film scorre talmente bene che tutto ciò non appesantisce la visione né infastidisce, anzi l'arrivo di nuovi personaggi porta spesso a volentieri a scene parecchio divertenti, segno di una scrittura molto solida in tutti i sensi.

Voto: 8

domenica 24 maggio 2020

Amici miei atto II: si resta nell'assoluta eccellenza

Da Adelina (moglie e amante impareggiabile) allo strozzino con la "defecatio isterica", passando per la via crucis del Melandri al Servizio Torri e allo scambio di portafogli con Augusto Verdirame da Brescia: un campionario di comicità entrato nella storia del cinema italiano.


Bissare lo straordinario mix tra comicità e amarezza di fondo del primo capitolo era piuttosto improbabile. Anche per questo, per dare un seguito a un capolavoro immenso come Amici Miei, Monicelli & Co hanno deciso di non provarci nemmeno a ricreare la stessa formula, virando totalmente sul comico, per un film con una trama sicuramente meno raffinata e per certi versi più simile alla commedia degli episodi, ma cercando un linguaggio più scanzonato premendo a fondo sul pedale dell'umorismo.
Il risultato è che l'originale Amici Miei è molto più "film" univoco, ma anche che nell'atto II si ride persino di più, con scene che entrano di diritto nell'immaginario comune e nella storia del cinema italiano, anche per la fondamentale presenza (secondo me più importante qui che nel primo capitolo) degli attori di contorno.
Non a caso, quell'anno il David di Donatello per gli attori non protagonisti di entrambi i generi vanno a due presenze del cast di Amici Miei atto II, ovvero la sempre brava Milena Vukotic confermatissima nell'amaro ruolo della moglie di Mascetti e Paolo Stoppa, lo strozzino affetto da "defecatio isterica" (una delle miriadi di trovate geniali anche a livello linguistico).
Ma l'attore non protagonista che forse è rimasto più intatto nella mente di tutti ad anni di distanza è Alessandro Haber, che apre il film nella parte del vedovo al cimitero ("guarda che bel vedovo!") subendo lo scherzo perfido del Sassaroli: una scena fantastica impreziosita dalla perfetta incazzatura isterica di Haber, che ribolle via via fino a scoppiare spaccando tutto. Semplicemente strepitoso.

Ma sono tante le scene passate alla storia, basti pensare al battesimo del Melandri (con i devastanti regali degli amici e il Mascetti sconcertato dal fatto che il battezzato debba rinunciare "alle poppe") e alla successiva Via Crucis, alla gravidanza della figlia di Mascetti, al servizio torri per raddrizzare la torre di Pisa e la successiva scena con la patente di Augusto Verdirame da Brescia (col Necchi chiamato "Becchi" dal vigile), si appura una perfetta conoscenza dei tempi comici da parte del regista e degli attori, con un cinismo e una cattiveria marcata che si fa davvero fatica a ritrovare nel cinema italiano attuale.

Vista la voglia di sfruttare appieno il versante comico, finisce per essere azzeccata anche la scelta di affidare il ruolo del Necchi a Renzo Montagnani, che in questo film dimostra ciò che qualcuno pensava già da tempo, ovvero che pur essendo stato costretto ad accettare ruoli di ogni tipo (per le note vicende familiari), specialmente nella commediaccia erotica di Serie B, lui non è un semplice attorucolo alla Alvaro Vitali (quindi buono solo per robette di poco conto), ma un vero grande attore e anche di altissimo livello.

Il fondo amaro non è del tutto disperso, ma in questo caso viene affidato completamente al personaggio del Mascetti, soprattutto nella parte finale, con una scena di chiusura magari meno d'impatto della straordinaria scena al funerale del primo film, ma comunque assolutamente adeguata e azzeccata.

Certo, non c'è la completezza del primo film (ma davvero chiederlo era eccessivo), bisogna accettare alcune storture di sceneggiatura per accettare la presenza del Sassaroli anche nelle vicende risalenti agli anni '60 (ovvero tempi adiacenti all'alluvione di Firenze) o chiudere un occhio sul fatto che quando i figli di Perozzi e Mascetti sono ancora piccoli quest'ultimo viva nello scantinato in cui in realtà nel primo film si trasferisce quando la figlia era ben più grande (e di conseguenza lo stesso figlio del Perozzi era già grande), ma diventano cose che tendi a notare con fastidio in un film non divertente o non convincente, che invece dimentichi più facilmente in film che intrattengono in questo modo.
Come puoi irritarti di fronte al Vaffanzum de "I Cinque Madrigalisti Moderni"?

Voto: 10

giovedì 21 maggio 2020

La Missy sbagliata: film dal fiato corto

Dopo una partenza eccellente, il film perde completamente la propria verve e si spegne indelebilmente, nonostante i tentativi della brillante Lauren Lapkus


The Wrong Missy catalizza in sé i classici pregi e soprattutto difetti dei prodotti della Happy Madison, la casa di produzione creata da Adam Sandler: comicità caciarona che quando centra il bersaglio riesce a far ridere sguaiatamente, ma anche film che troppo spesso spengono la propria verve e il proprio impatto troppo presto. A volte davvero i luoghi comuni su alcuni autori/produttori sembrano appiccicati senza appello e qui abbiamo tra le mani l'ennesimo prodotto con dei "contro" fin troppo risaputi.

Il concetto di La Missy sbagliata è tutt'altro che nuovo, visto che il film si basa su una presenza strabordante che finisce per portare tutti (dal protagonista agli altri personaggi) a grossi guai.
Qui ci si aggiunge l'equivoco scontato dello sbaglio di persona, eppure per una mezz'oretta il film funziona parecchio e riesce a divertire.

David Spade si trova nella prima scena in un appuntamento al buio completamente disastroso (per lui, piuttosto spassoso invece per chi assiste) con la incontrollabile Lauren Lapkus, che prima lo mette contro un energumeno (che era al tavolino del locale con una donna incinta, che Spade crede essere la tipa del suo appuntamento proprio perché volutamente fuorviato dai messaggi della Lapkus), poi lo scambia per un 65enne e infine lo costringe a scappare via (non prima di mostrargli che era andata a quell'appuntamento con un machete in borsa, non si sa mai che si incontri un serial killer).
Spade quindi incontra all'aeroporto quella che sembra essere la sua donna perfetta, Melissa: bella, intelligente e con tanti gusti in comune.
Allora al weekend di lavoro alle Hawaai perché non portare la splendida Melissa?
Peccato che Melissa sia anche il nome della Lapkus e che sul volo (affiancato dall'ex Lost Jorge Garcia: dopo quella serie tv gli avranno mai dato una parte in cui non debba salire su un aereo?) si ritrovi proprio la protagonista dell'appuntamento da incubo, per aver sbagliato il destinatario del suo messaggio (già, ha invitato una donna al weekend alle Hawaai solo via sms, senza parlarle a voce, ma vabè in nome della situazione assurda bisogna accettare questa stortura).

Fin qui tutto funziona abbastanza bene e anche il primo impatto alle Hawaai (dove Spade ovviamente troverà anche la propria ex moglie, situazione però non sfruttata tanto) non è malaccio, ma poi il film perde il proprio impatto, inizia a spegnersi e a portare situazioni grossolane riuscite in minima parte. Visto il genere demenziale, bisogna dare atto che comunque la volgarità non è totalmente fine a sé stessa (come accade quasi sempre nei film americani da tanti anni) ma legata a un tentativo di creare una situazione comica, purtroppo però il film smette di divertire e ci porta a una destinazione fin troppo telefonata.

David Spade ha il ruolo da protagonista ma fa il compitino, finendo a tratti anche a essere passivo di fronte alle situazioni che gli capitano attorno.
Per cui la vera forza del film è Lauren Lapkus, attrice vista brevemente in due serie tv di successo (per 8 puntate in The Big Bang Theory, per 14 come guardia del carcere di Orange Is The New Black, dove ha inciso decisamente di più) e che mostra a tratti (soprattutto all'inizio) una verve interessante, per un genere che sembra consono alle proprie possibilità. La speranza è che la si possa vedere magari in script un po' più creativi e soprattutto più costante nel proprio sviluppo.

Tra i comprimari, quando il film funziona è spassossisimo Nick Swardon nel ruolo dell'amico di Spade, invadente tanto da sfociare nello stalking visto che sapeva precisamente la serie che questi aveva visto la sera prima e i messaggi da lui inviati, ma il suo impatto comico scema completamente con l'arrivo all'isola.
Piccola parte per Rob Schneider, che ha un paio di spunti comici interessanti, mentre la ex di Spade è interpretata da Sarah Chalke, la Elliot Reid di Scrubs (incredibile come il tempo passi e lei non cambi minimamente), alle prese però con un personaggio decisamente poco incisivo (anche poco riuscito il threesome a cui la costringe la Lapkus insieme a Spade).

Film che si può anche guardare senza grossi fastidi, ma che poteva avere sviluppi decisamente migliori.

Voto: 5

La crisi nera del calcio vista da me

"Noi non abbiamo paura della bomba" cantavano I Giganti


Ciò che segue non è un post univoco, non è nulla di particolarmente organizzato, ma una serie flusso di ragionamenti a ruota libera che ho fatto tramite post/messaggi in privato. Un filo logico totalmente personale che è partito e ha liberato pensieri che avevo anche incosciamente.

Punto di partenza? Oggi è il quindicesimo annoversario dell'incredibile (il sottoscritto tiene Gunners) finale di FA Cup tra Arsenal e Manchester United, completo dominio dei Red Devils e 0-0 con vittoria ai rigori dei Gunners: completo scippo calcistico. Ma lì era sfiga/fortuna puramente sportiva, un trofeo che meritavano totalmente gli uomini di Ferguson, vinto in circostanze improbabili da quelli di Wenger.
Quello che voglio condividere in un post dissennato è il ragionamento che ho avuto, che parte da lì e arriva allo sceicco Mansour fino alla situazione di crisi attuale.

Rivedere quella finale di FA Cup mi fa riflettere su Cashley Cole.
Lì esulta come un pazzo davanti ai tifosi dell'Arsenal quando si era già venduto e promesso al Chelsea.
Tanto che per me finì lì Ashley Cole e diventò Cashley. Anche se giocò un altro anno all'Arsenal. Anno che per me non esiste.
Che poi Ashley Cole all'Arsenal ha rovinato lui le memorie e la reputazione ma fu un terzino meraviglioso, roba da futuro. Giocatore che al Chelsea non videro manco in fotografia.
Tanto che lo presero nel 2006 e (confermato in questi giorni da lui) nel 2007 avevano presto Roberto Carlos a rimpiazzarlo!
Per capire che era quel Chelsea di Abramovich. Per due anni destabilizzano un giocatore non loro e l'anno dopo avevano già comprato uno a sostituirlo (se non fosse saltato per motivi allora misteriosi, ora secondo Carlos la causa fu un avvocato)! La merda totale.
Sono tutte cose che mi risalgono fuori senza volerlo: quando Monreal segna il 2-2 a Chelsea quest'anno in una partita giocata tutta in 10, mi vien fuori la cattiveria di augurargli che quei due punti gli costino la qualificazione in Champions League. Perché?
Sono cose che lucidamente penso di aver superato, ma il mio risentimento arriva da lì, dentro di me resta presente come agiva la cricca Abramovich-Mourinho, mafia russa prestata al calcio.

Con questo filo logico che è tipico mio sto realizzando tutto il risentimento che ho per il calcio di adesso e perché senza accorgermene io sto tifando per il crollo di tutto.

Io sto tenendo per la crisi nerissima per ripulire il calcio inglese (e in generale)! Che si creino perdite così pesanti da far mandare in crisi tutto e far scappare tutti sti magnati. Che son loro il motivo per cui il movimento costa così tanto ed è sul punto del collasso.
Sono ragionamenti che io sui Mansour facevo non più tardi di DIECI ANNI FA (chi leggeva il mio vecchio blog sul calcio inglese può ricordarlo). Io 10 anni fa lo sostenevo che sarebbe scoppiato tutto prima o poi. Attaccavo principalente il ManCity, ma è un percorso iniziato da Abramovich (non dimentichiamoci, arriva e fa concorrenza sleale all'Arsenal) e che non riguarda solo loro ma che ha loro i principali artefici.
Hanno drogato tutto e inflazionato tutto. Io lo sapevo che prima o poi sarebbe scoppiato tutto.
Ovviamente non potevo sapere come, non potevo immaginare ovviamente il COVID (disastro di dimensioni sociali che non posso essere io a descrivere: a livello puramente calcistico è un mezzo, ovviamente non è un discorso che tocca il campo civile serio).
Ma restando sul piano puramente calcistico, è arrivato... e ora dovrei sperare che le porte chiuse e ste fregnacce debbano salvarli? Ma spariscano tutti. Deve scoppiare tutto. Deve radere al suolo tutto il movimento.
Spazzare tutto e magari rinasce senza quelle mele marce, senza loro (ma anche senza i Kroenke e i Gazidis), più povero ma sano, ma senza quelle figure.
Sarò come sempre idealista e estremista, ma cosa vuoi salvare per rendere le cose sempre peggiori? Via tutto. Crisi nera.

Davvero avevo delle cose incoscie (proprio come incosciamente quando Monreal segna a Chelsea io sbraito da peggior ultra ad augurargli che quei punti gli facciano perdere la Champions League, è il risentimento che penso superato ma che ho ancora dentro dalle storie di Cashley Cole e a come mafiosamente agiva Abramovich) che non realizzavo in fondo. Ragionandoci sopra sono riuscito a capire cosa mi influenza.

Poi che lo sport giocato in queste condizioni mi faccia schifo (e non lo vedrò, mi rifiuto, sia il calcio che si gioca adesso sia quando riprenderanno tennis o sport americani, finchè è così io sto fuori: quanto visto per un'ora in Bundesliga sabato scorso non ha nulla di sport, sembrava farlocco come il wrestling, si vede chiaramente che nemmeno i calciatori vogliano essere lì e siano usati in modo da essere spolpati in nome del dio denaro) è una cosa indipendente.
Ma ora così ho capito perché io dentro di me nel calcio non voglio salvare niente e nessuno.
Non mi verrete mica a dire che tutti questi irresponsabili che vogliono far ripartire il calcio in queste condizioni impossibili lo facciano per salvare i lavoratori (magazzinieri, ecc) e non per i loro interessi, non per pura questione di money money per le loro tasche, giusto? Non sarete mica così allocchi: di quelli non gliene frega niente di norma e non gliene frega ora che vedono il giocattolo sgonfiarsi.

Che la bomba scoppi pure.

venerdì 15 maggio 2020

Melinda e Melinda: lo Sliding Doors alleniano

Nell'esercizio di stile di Woody Allen, la cosa più interessante risulta essere l'interpretazione convincente di Will Ferrell.


In Melinda e Melinda il cinema alleniano incontra Sliding Doors.
Il pretesto della cena con coinvolti due autori, uno drammatico e uno di commedie, ci porta a due visioni differenti della medesima storia e in quello che sostanzialmente è un mero esercizio di stile per Woody Allen.

La parte drammatica ci porta a una riproposizione di una situazione per certi versi già vista in Interiors e in Settembre (quando però l'esercizio di stile alleniano era influenzato dal cinema di Ingmar Bergman), con l'incerta protagonista coinvolta in un turbinio derivato da relazioni instabili. Una parte scritta col solito tatto autoriale di Allen, anche se un filo sotto tono nei contenuti e nell'interesse. In questa parte drammatica spicca un volto che di lì a qualche anno diventerà popolare al pubblico televisivo, ovvero quello di Jonny Lee Miller, che qui vediamo fin troppo misurato (tanto da essere spento) ma che sarebbe diventato interprete di personaggi dal tono stravagante, vedi l'antagonista principale di una stagione di Dexter e soprattutto per lo Sherlock Holmes "newyorchese" di Elementary.

Diventa più interessante invece la parte da commedia, non solo per un ritmo più alto ma anche per come proprio lo stesso personaggio che in tono drammatico è interpretato da Miller finisce per avere un volto diverso e più brillante, ovvero quello di Will Ferrell, che risulta parecchio divertente e mostra di essere parecchio portato nel ruolo. Nei film in cui Woody Allen non appare da attore, molto spesso il problema è stato quello di trovare un protagonista maschile all'altezza, cosa che peraltro nei film puntati a essere brillanti e divertenti è riuscita in pieno soltanto una volta, con Larry David (peraltro più autore che attore vero egli stesso) in Basta che funzioni: ebbene, vedere Ferrell in questa forma, riuscendo anche a riproporre in modo credibile certi tentennamenti tipici della recitazione di Allen, a posteriori fa un po' rimpiangere il fatto che l'ex comico del Saturday Night Live non abbia più collaborato con l'autore newyorchese. Il pensiero mi va sempre all'ultimo Allen arrivato al cinema, quello di Un giorno di pioggia a New York, quando le battute tipiche alleniane risultavano decisamente poco credibili espresse dalla bocca dell'imberbe Timothée Chalamet: ebbene, qui lo stesso tipo di battuta non solo appare credibile detta da Ferrell, ma risulta parecchio gustosa, lasciando pensare come egli avrebbe avuto in sé le potenzialità per essere un valido alter ego alleniano. Perlomeno, sarebbe stato interessante vederlo protagonista vero (qui la protagonista in entrambi gli episodi è Radha Mitchell nelle due versioni di Melinda) in un film di Woody Allen. D'altronde Will Ferrell, che ha spesso interpretato film comici di livello altalenante (questo 2004 sarebbe stato per lui anche l'anno di Anchorman, il Ferrell Movie probabilmente più riuscito), ci ha anche dimostrato di poter essere un eccellente attore in un ruolo serio e drammatico come quello in Vero come la finzione, per cui ha in sé una certa duttilità e avrebbe avuto potenzialità interessanti anche in un ruolo brillante alleniano.
Incide poco invece un altro volto noto specialmente a livello televisivo, ovvero quello di Steve Carell, che interpreta l'amico di Ferrell e appare in sostanza in sole due scene: lui sì a distanza di un decennio avrebbe avuto un ruolo abbastanza importante in un film di Woody Allen, ovvero in Café Society (che se vogliamo è un altro film alleniano con protagonista imberbe sbagliato, in quel caso Jesse Eisenberg).

In sintesi, Melinda e Melinda non è certo un film di spicco nella filmografia di Woody Allen, ma risulta scorrevole e per certi versi piacevole, anche per la capacità in sede di regia di saper tenere separate le due situazioni drammatiche e di commedia in maniera semplice e chiara, senza creare confusione tra i due generi e senza scombussolare lo spettatore.

Voto: 6,5

mercoledì 13 maggio 2020

The Good Place: una bella incompiuta

L'idea sulla carta è ottima, ma la serie non sfrutta appieno il proprio potenziale, non trovando mai l'acuto vincente e/o entusiasmante


De gustibus non disputandum est. The Good Place ai miei occhi entra nella categoria di quelle serie acclamate ben oltre i propri reali meriti: certo, non sarà un'acclamazione per me del tutto misteriosa come può essere quella per una serie come Stranger Things (scritta coi piedi e arruffata malamente, eppure lodata dai più), perché The Good Place ha buone cose dentro di sé e un'intelligenza di fondo che fa da contraltare a serie sfacciatamente idiote come la succitata, ma resta una sopravvalutazione evidente per una serie con limiti intrinsechi e mai realmente coinvolgente.

L'idea di partenza è decisamente buona, un modo nuovo di vedere l'oltrevita con questa riproposizione abbastanza fresca di "parte buona" e "parte cattiva", con le prime puntate che promettono tanto e che divertono parecchio, ma poi la costante di questa serie è il ristagnare compiaciuta su sé stessa, senza mai fare un reale salto di qualità, quasi come ci fosse sotto sotto una certa timidezza nello script, una paura nell'intraprendere con decisione una via piuttosto che un'altra.
In sostanza, è una serie che difficilmente farà venire a qualcuno (ripetendo il "de gustibus...") la voglia di lasciar perdere e abbandonare la visione, ma c'è anche un senso di ripetitività che si ha puntualmente nel corso di ognuna delle quattro stagioni, quando le situazioni risultano un po' troppo uguali a sé stesse e portano a delle puntate centrali di interesse non esaltante (specialmente nella seconda stagione con tutti i "riavvii" che portano a diverse puntate completamente dimenticabili e in generale alla stagione di livello inferiore della serie), segno di un plot non proprio impeccabile.
Anche sul piano umoristico le premesse iniziali non sono rispettate, tanto che alla lunga l'humor dovrebbe arrivare con le continue citazioni pop (Beyonce e Blake Bortles per dire sono nominati allo sfinimento, tanto che a un certo punto puoi benissimo anticipare quando verrà fatto il nome di uno di loro), cosa che poteva funzionare con una migliore qualità nella scrittura, così come la brillante idea delle parolacce che non possono essere pronunciate (portando quindi a espressioni come "e che casco!") alla lunga finisce per spegnere il proprio impatto.
Si ha quindi in sostanza un prodotto sicuramente garbato, con una discreta tecnica e una scenografia brillante (ben sfruttata anche da una fotografia accesa) ma che purtroppo non riesce a sfruttare appieno la propria potenzialità.

Alti e bassi anche per quanto riguarda la gestione e lo sviluppo dei personaggi principali. Il volto principale è quello di Kristen Bell, che probabilmente trova in Eleanor il modo per esprimersi al suo meglio, mettendo in mostra un'energia notevole e anche una buona simpatia (soprattutto all'inizio della serie quando risulta anche parecchio divertente nel tentativo di nascondere la propria "intrusione" nella parte buona), anche se probabilmente le parti più interessanti sono quelle che coinvolgono William Jackson Harper, con il suo Chidi che risulta il personaggio migliore, più profondo e quasi sempre al centro delle situazioni migliori.
Detto di un Ted Dawson buono nelle parti seriose ma non del tutto adeguato quando prova a rendere simpatico il proprio Michael e della buona idea della Janet che appare in continuazione ad aiutare i protagonisti ogni volta che viene pronunciato il suo nome, essendo una interfaccia tecnologica ma con sembianze umane, con uno sviluppo del personaggio forse funzionale ma non esaltante (meno brillante invece l'idea delle varie versioni delle Janet), probabilmente un lavoro migliore di scrittura e forse anche di casting andava fatto sugli altri due personaggi ricorrenti.
Il Jason di Manny Jacinto è un personaggio troppo vuoto e troppo stupido per una serie che vorrebbe essere intelligente, soprattutto per il fatto che faccia ridere piuttosto raramente. Mentre la Tahani di Jameela Jamil è un bel faccino che risulta anche uno dei pochi veri e grandi punti deboli della serie, con la pessima idea di farla parlare con un fastidioso finto accento inglese e continue citazioni pop che la portano a risultare sfiancante e poco interessante: probabilmente ci voleva un'attrice di levatura diversa per dare una caratterizzazione meno insulsa al personaggio.

Lo sviluppo della serie quindi resta interessante anche se alcune fasi (specialmente nella seconda stagione) risultano eccessivamente ingarbugliate nella scrittura, ma The Good Place non trova mai un acuto che sorprende o entusiasma, un concetto che viene accentuato nella puntata di chiusura della serie, allungata a quasi un'ora (le altre puntate sono tutte sulla ventina di minuti) per poi dare alla storia una chiusa sicuramente funzionale ma ben lontano dall'essere entusiasmante o indimenticabile (anzi la durata eccessiva di questa puntata alla fine stanca un po').
Peccato, perché le potenzialità per fare di meglio c'erano tutte.

Voto: 6-

sabato 9 maggio 2020

Angie Tribeca: il ritorno del demenziale all'americana

Parodia scatenata, per una serie capace di risultare estremamente divertente per le prime tre stagioni


Ideata dalla folle mente di Steve Carell (peraltro è suo l'urlo che si sente nella sigla nelle prime due stagioni) e dalla moglie Nancy, la serie Angie Tribeca ha il chiaro obiettivo di riportare alle sacre origini il genere del demenziale all'americana, devastato da ondate di volgarità fini a sé stesse da almeno un decennio a questa parte.
Come stile e tipo di comicità, Angie Tribeca riporta alla mente la gloriosa Police Squad! (uscita in Italia come "Quelli della Pallottola Spuntata" e che di fatto ha preceduto la meravigliosa trilogia di Frank Drebin) portando sulla durata breve delle puntate una trama che è puro pretesto per mettere in mostra una serie di gag a ripetizione, molte delle quali puntando a delle assurdità a livello visivo (con azioni anche surreali) proprio nello stile che fece grandi gli ZAZ.
Si entra quindi in un mondo assurdo, in cui anche un cono per il gelato diventa una devastante arma letale, in cui ogni dettaglio (vedi il lavoro della vittima di turno) diventa pretesto per qualche scemenza. Certo, la classe degli ZAZ è irraggiungibile, ma l'obiettivo in sé per sé è centrato, la serie Angie Tribeca parte con una prima stagione di altissimo livello con una serie di puntate capaci di farti ridere a crepapelle per 20 minuti senza una minima pausa, con alcuni tormentoni come il poliziotto che puntualmente vomita a ogni scena del crimine, persino quando sono al museo e sono davanti a un quadro rubato. O che dire del cane poliziotto Hoffmann, che agisce esattamente come un poliziotto, tanto che viene messo pure alla guida dell'auto di pattuglia.

La Angie Tribeca del titolo è interpretata da Rashida Jones, già vista in Parks and Recreation e che (pur restando distante dalla qualità comica di Leslie Nielsen in Police Squad!) regge parecchio bene il ruolo, affiancata fin dalla prima puntata (dove appare anche Lisa Kudrow, la Phoebe Buffay di Friends) da una serie di guest star più o meno famose per noi in Italia, tutte però con un loro senso e spesso con una certa dose di autoironia che si sposa bene con i vari episodi. La più presente e incisiva tra queste è la sempre meravigliosa Heather Graham, che aveva già dimostrato nel secondo Austin Powers di saperci stare in ruoli comici demenziali.

La prima stagione tocca livelli di comicità parecchio alti, la seconda ha un leggero calo ma in sostanza resta su buoni livelli e la terza ha una impennata che porta il tono vicino a quello della prima stagione. Dopo queste tre stagioni però agli autori è saltata in mente un'idea simile a quella vista nella serie animata Archer, ovvero quella di abbandonare il plot poliziesco iniziale per cambiare ambientazioni con la scusa dell'unità delle forze speciali: e proprio come era successo anche in Archer, questa decisione appare piuttosto rivedibile, con la quarta stagione che resta discreta nella prima metà, per poi avere una seconda metà spenta e al di sotto della sufficienza. In parecchi anche negli Stati Uniti non hanno compreso questa scelta, tanto che persino la TBS (che ha creduto in questa serie tanto che era arrivata a proporre una maratona di 25 ore con le puntate della prima stagione a inizio 2016, una decisione che negli Stati Uniti non si era mai vista prima di allora) ha deciso di chiudere la serie. Un vero peccato, perché quello che avevamo visto nelle 30 puntate delle prime tre stagioni era parecchio promettente, ma la quarta stagione è stato un vero suicidio da parte degli autori.

Il giudizio generale però resta positivo, per una serie che ci dimostra che forse il ritorno alla vera comicità demenziale-surreale è possibile, che il genere non è ancora morto del tutto.

Voto: 8

venerdì 8 maggio 2020

Serenity - L'isola dell'inganno: Lost in Tonno

L'eterna lotta tra uomo e tonno, per un film che naufraga immediatamente.


Bastano 15 minuti per accorgersi che qualcosa non va in questo film. L'idea di Matthew McConaughey (attore parecchio sopravvalutato per me) così ossessionato da un misterioso tonno è già qualcosa che va sul bizzarro. Che avrà questo tonno? E' imprendibile? Forse è il fantomatico Tonno Insuperabile del vecchio spot!
L'arrivo di Anne Hathaway (altrove attrice parecchio brillante e soprattutto espressiva e parecchio dolce) fa capire che è impossibile prendere sul serio questo film: con la tinta bionda da pseudo-femme fatale e il finto neo, ci porta in un mondo piuttosto ridicolo, facendo pensare che il tonno veste Prada.
Si va avanti non capendo di che genere sia il film, è un thriller, è un dramma, ma si capisce che è da inserire nel catalogo delle boiate pazzesche, con il marito della Hathaway (che arriva arrapeto come un pesce sega, come avrebbe detto Lino Banfi qualche decennio fa) a inserirsi in modo grossolano (e anche stereotipato) in un quadro triste.

Se vi aspettate però qualche idea finale a salvare il salvabile, arriva il plot-twist pseudo-fantascientifico, che non è tanto un Ri-tonno al futuro quanto una sparata alla Lost delle ultime stagioni, a dare un ulteriore effetto insulso a un film nato proprio male: un Lost in Tonno insomma.
Alcuni dialoghi sono involontariamente deliranti e resta solo un'accozzaglia (o forse una tonnara) confusionaria fine a sé stessa, frutto di idee sbagliate (o forse inesistenti) a livello concettuale.
E in tutto ciò McConaughey affonda con tutta la barca.

Voto: 1

giovedì 7 maggio 2020

Io e lei: lontano dal bigottismo all'italiana

Evitando pregiudizi e luoghi comuni, il film ci racconta la storia di una coppia di donne con una maturità insolita per il cinema italiano attuale. Molto brava Sabrina Ferilli.


E' sempre parecchio difficile proporre un film con protagonisti omosessuali in Italia, patria dell'assoluto bigottismo, in cui una percentuale ancora vergognosamente alta di persone (soprattutto sui social) sbraita e urla alla "propaganda" quando in un film o in una serie appaiono dei personaggi gay, frutto di una mentalità chiusa (d'altronde abbiamo visto in questi giorni certa gentaglia affermare che l'omosessualità sarebbe una delle cause principali per la pandemia del COVID-19...) e di una pesante dose di ignoranza generale.
Il cinema italiano (che in questo periodo è tutto meno che creativo) non si distacca particolarmente, proponendo ancora i gay come personaggi folkloristici, non riuscendo a risultare serio le volte in cui viene toccato il tema. Come se per l'italiano nella società non esista la persona omosessuale o sia ancora un'eccezione, una cosa "strana" e altri blocchi mentali piuttosto ridicoli, come se nella società la persona omosessuale non sia la normalità.

Io e lei mi ha personalmente spiazzato in tal senso e in modo assolutamente positivo. Le protagoniste formano una coppia di donne, ma il tema dell'omosessualità sostanzialmente non è trattato: è una visione completamente diversa quella della regista Maria Sole Tognazzi, che ci mostra come la relazione venga considerata assolutamente normale dalle protagoniste e da chi le sta attorno, come dovrebbe essere in un mondo perfetto. Il film non vuole parlare di omosessualità, vuole proporci la storia sulla relazione tra le due donne, non creandosi ostacoli nel racconto. E la cosa funziona, portando Io e lei a essere un film molto più maturo della media dei film italiani contemporanei (di stesso genere e non).

Ci troviamo allora una commedia sentimentale abbastanza canonica ma affrontata con gusto, in cui spicca soprattutto l'ottima interpretazione di Sabrina Ferilli, davvero molto brava: personalmente non avevo mai visto l'attrice romana così convincente in un film. Invece la Ferilli brilla molto più di Margherita Buy (di norma dovrebbe essere al contrario), la quale invece appare un po' legnosa prima di entrare del tutto nel personaggio, dando un po' la sensazione di faticare a trovare la misura della recitazione in un ruolo che non le chiede di entrare nelle solite nevrosi e isterie che spesso è chiamata a interpretare.
Perché la forza del film è pure questa, anche nelle scene che vedono dei litigi tra le protagoniste i toni rimangono piuttosto bassi, dando molta più priorità alle azioni e agli eventi: anche questa è una scelta di forma che funziona e innalza il livello del film.

Ci troviamo quindi una visione abbastanza piacevole, un film che riesce a evitare la banalità senza pretendere obiettivi irraggiungibili, senza ricacciarsi in facili moralismi ma anche e soprattutto capace di farci assistere a una storia evitando i facili luoghi comuni e pregiudizi che purtroppo ancora adesso circondano le persone omosessuali.
Basta questo per risultare freschi in una Nazione in cui i media sono del tutto incapaci di trattare l'argomento omosessualità con maturità e tatto: sia mai per una volta diventassero in qualche modo educativi agli occhi degli spettatori...

Voto: 7,5

mercoledì 6 maggio 2020

Amici miei: capolavoro assoluto

Che cos'è il genio? È fantasia, intuizione, colpo d'occhio e velocità d'esecuzione


Vedere Amici Miei ti fa chiedere: ma cosa diavolo è successo alla commedia all'italiana? Come si è potuto passare da un livello simile alla poltiglia incolore che la ricopre da almeno 20 anni? Dov'è finito quel cinismo, quella cattiveria, quella capacità di incidere che ha reso grande il genere della commedia all'italiana?
E' vero che Amici Miei diventa un termine di paragone impossibile, perché alza l'asticella a livelli irraggiungibili, ma questo film non può nascere senza una tradizione di genere fortissima nella quale andare a inserirsi e delle cui componenti ormai si è completamente persa traccia.
Dovremo sorbirci all'infinito queste robette all'acqua di rosa, incapaci di far ridere o far pensare, con storielle stereotipate e una totale mancanza di coraggio, o forse qualcosa si risveglierà e si riuscirà a rigenerare un modo di fare film che a oggi sembra completamente perso?

E' anche vero che questo film nasce da circostanze irripetibili, perché vi si abbinano un soggetto solidissimo, un regista capace di far suo un lavoro ideato da altre menti (ovvero da Pietro Germi) con una naturalezza impossibile da pensare, e un quintetto di grandi attori in strepitosa forma a creare un quadro che sfonda la perfezione.
Su tutti è indimenticabile Ugo Tognazzi, che trova nel conte Mascetti il personaggio perfetto per esprimere in modo totale il proprio talento, tra slanci comici (e una irresistibile volgarità di classe) e cadute amare.
Perché Amici Miei è questo, un film che fa ridere tantissimo, a tratti in modo devastante, ma che è lontano dall'essere un film comico (lo sarà molto più il secondo) perché di fondo c'è un retrogusto amaro, che si abbina con una maestria profonda fino a deflagrare nella irripetibile scena finale, capace di farti ridere quando non dovresti. Per questo si tratta di una pellicola molto profonda.

Incredibile pensare che questo film sia uscito ben 45 anni fa, perché è vero che tutto è entrato nella storia del cinema (e non solo) italiano a pieno titolo, ma anche perché i personaggi sono molto più freschi di tanti film attuali.
Il Mascetti, il Perozzi (rappresentato anche meglio nel suo conflitto con la moglie e con l'insopportabile figlio nel secondo capitolo), il Melandri (con i suoi lampi amorosi e le sue risate incontenibili e contagiose), il Necchi (col suo genio, con Del Prete che sarà sostituito da Montagnani nel secondo film anche per seguire una via più comica) e il Sassaroli (col suo esilarante fare dispotico) sono entrati nell'immaginario comune.
Forza degli attori e di un film scritto in modo impeccabile, con scene di alta levatura e a volte dotate anche di una certa crudeltà comica, come la scena della cena a casa di Melandri, con i giudizi del Sassaroli e i tre amici a infilare continuamente il dito nella piaga (in particolare un Tognazzi impagabile) e l'espressione "cippa lippa" ripetuta più volte, ma non si può non citare la supercazzola o la scena degli schiaffi alla stazione, tutti momenti capaci di rimanere irresistibili pur avendo visto maree di volte questo film e conoscendolo pressoché a memoria.

Amici Miei ha solo un difetto sostanziale: ti fa venire voglia di vedere molti più film di questo livello, cosa che purtroppo è molto difficile.

Voto: 10+

martedì 5 maggio 2020

U.H.F. - I videoidioti: vero cult movie

L'unico film in cui Weird Al Yankovic appare come protagonista ha avuto una gestazione parecchio sfortunata, ma ha momenti di assoluto delirio comico.


 Per chi ama un certo tipo di comicità demenziale, il nome di Weird Al Yankovic non può che suscitare amore incondizionato, soprattutto per le sue strepitose canzoni demenziali, le più famose delle quali parodie di successi internazionali come la meravigliosa Like A Surgeon.
Il grande motivo di interesse di U.H.F. (ma Weird Al avrebbe voluto che il film fosse uscito unicamente come "I videoidioti") è proprio per il suo protagonista, essendo questo sostanzialmente l'unico film in cui Weird Al ha un ruolo importante, pur avendo avuto dei cameo in diverse pellicole anche di successo (per dire appare in tutti e tre i film della Pallottola Spuntata, nel primo scendendo dall'aereo all'inizio del film con Drebin che crede che l'accoglienza regale fosse per lui quando invece era per Weird Al, nel secondo prendendo in ostaggio la squadra di polizia con Drebin che senza accorgersi salva la situazione aprendo la porta addosso a lui, nel terzo vedendosi rubare i vestiti da Drebin alla cerimonia degli Oscar) o comunque di buon livello comico (vedi la delirante canzone d'apertura in Spia e lascia spiare, sempre con Leslie Nielsen protagonista).
Questo è uno dei motivi per cui per alcuni (compreso il sottoscritto) U.H.F. entra nel rango dei film di culto, ma ce ne sono diversi altri, compreso il fatto che la casa di produzione (la Onion Pictures) ebbe la brillantissima idea di far uscire il film in concomitanza con dei sicuri campioni di incasso come Arma Letale 2, Batman e Indiana Jones e l'ultima crociata, un'idea davvero disastrosa che portò a un botteghino talmente magro da portare al fallimento della casa di produzione, tanto che il film non sarebbe uscito in DVD se non nel 2002.

Anche per questi motivi pure in Italia il film è passato in sordina, uscendo sì sulla paytv ma poi venendo completamente dimenticato. Ed è un vero peccato, perché nelle sue imperfezioni ci troviamo di fronte a un film capace di divertire parecchio.

La trama è nulla più che un contorno, conta pochissimo ed è un pretesto per permettere a Weird Al di scatenarsi tra citazioni e parodie cinematografiche (ce ne sono di gustose, su tutte la assurda Gandhi II), spot allucinanti e soprattutto una programmazione televisiva assolutamente ridicola e demenziale (che però resta pur sempre migliore di quella reale di Mediaset), con picchi che portano a far perdere il fiato dal ridere, vedi in particolare "Il regno selvaggio di Raul" in cui la parodia dei programmi sugli animali alla Quark porta il conduttore a provare a far volare i barboncini, esempio di una comicità demenziale anche cattiva ma riuscitissima (e che scrive è un assoluto amante degli animali e dei cani in particolare, ma proprio per questo la scena mi fa impazzire, ovviamente per la sua finzione). Peraltro l'attore che interpreta Raul Hernandez appare unicamente in quella scena, quando invece doveva apparire in almeno un'altra scena (che doveva rappresentare la rivincita del barboncino), perché Trinidad Silva sarebbe molto durante la lavorazione del film, vittima di un automobilista ubriaco.

Ulteriore curiosità è la presenza di due attori che sarebbero poi diventati piuttosto conosciuti a livello televisivo. Uno di questi è Michael Richards, che nell'anno di uscita del film (che ebbe una post-produzione piuttosto lunga, ma che fu girato nel 1988) sarebbe arrivato a interpretare Cosmo Kramer in Seinfield, ovvero il ruolo della sua carriera (che sarebbe stata devastata soprattutto per sue colpe, con lo sciagurato rant razzista durante il Just For Laughs), un vero e proprio personaggio cult. E' lui l'inserviente decerebrato che diventa in modo assurdo il protagonista della trasmissione per bambini.
A interpretare la giornalista invece è Fran Drescher, che quattro anni dopo sarebbe diventata la protagonista Francesca Cacace della serie La Tata, ma che in questo film incide pochino.

Segno comunque di un casting azzeccato, tanto che la produzione andò vicino ad avere addirittura la partecipazione proprio di Jerry Seinfield nel ruolo dell'amico di Weird Al, finito poi a un mestierante come David Bowe.

Curiosità di un film nato sfortunato, ma che andrebbe ripescato e visto perché non è poi così malvagio: insomma, paragonatelo alla media dei film comici che sono arrivati dagli Stati Uniti negli ultimi 10 anni e vedrete che non c'è assolutamente paragone.
Coi suoi difetti e i suoi attimi di stanca, U.H.F. resta un film capace di creare momenti di assoluto delirio comico.

Voto: 7,5

lunedì 4 maggio 2020

D.N.A. - Decisamente Non Adatti: provateci ancora Lillo e Greg

A scene capaci di scatenare il talento comico di Lillo e Greg si alternano pause per una sceneggiatura che crea alcuni intoppi globali. Comunque un lavoro interessante e abbastanza divertente.


Nel cupo panorama attuale della comicità italiana, Lillo e Greg da sempre (dai tempi della band musicale dei Latte e i Suoi Derivati e delle loro geniali canzoni) sono un sottovalutato ma brillante spiraglio di luce. Perché sono due attori straordinariamente affiatati capaci di trovare i tempi giusti delle gag e con il gusto che li porta a svariare dalla più classica comicità coatta romanesca al molto meno classico (per noi) umorismo surreale, un mix che li rende almeno a queste latitudini unici e originali.
Purtroppo però il giochino funziona costantemente in teatro e in tv (personalmente rimpiango amaramente i tempi in cui in seconda serata sulla Rai facevano l'esilarante Bla Bla Bla, troppo surreale per essere capito da una popolazione che mediamente cominciava già a instupirsi parecchio anche per colpa dei media), mentre al cinema non hanno mai trovato modo di esprimersi al loro meglio, ritrovandosi coinvolti spesso in operazioni di bassissima lega (penso a Lillo in Modalità Aereo, dove pure riusciva a regalare le uniche cose decenti di un film disastroso). Una parziale eccezione è rappresentata da Lillo e Greg - The Movie!, parziale per la formula del film, che essendo una serie di sketch (molto divertenti) a ripetizione non aveva bisogno di soggetto e sceneggiatura.
Per questo D.N.A. - Decisamente Non Adatti rappresentava un lavoro che mi incuriosiva parecchio: visto che apparentemente in Italia non ci sono più gli autori in grado di qualificare una certa comicità (ammesso che ce ne siano in grado di qualificare un qualsiasi tipo di comicità), perché allora non lasciare Lillo e Greg a scriversi da soli un film e vedere cosa succede?

Il risultato non è completo, non è totalmente riuscito. Ma ci sono tanti segnali buoni che fanno pensare che (correggendo un po' il tiro, imparando da qualche errorino) questa possa essere la strada seguire in futuro.
Si vede infatti che nessuno conosce Lillo e Greg meglio di loro stessi e finalmente anche al cinema (per così dire, visto che per le vicende note di questi giorni il film è uscito direttamente nelle piattaforme streaming) riusciamo a vedere delle singole scene in grado di esprimere il grande gusto comico di questa coppia, tanto che alcune scene risultano anche devastanti (geniale la rivista "Commercialisti in Miniatura" degna di un demenziale all'americana, strepitoso Lillo coatto al ristorante).
Globalmente invece il film è un po' disfunzionale, si vede la volontà di staccarsi dai soliti luoghi comuni del cinema italiano degli ultimi 20 anni per tornare a proporre un cinema diverso, per provare forme e situazioni per certi versi insolite (un po' come accadeva negli anni '70, quando si provava a usare i talenti comici anche in modo inusuale, visto il tema del film mi viene da pensare a Paolo Villaggio in Dottor Jekyll e gentile signora) e questo è sicuramente apprezzabile, ma si vede anche che la trama generale ha degli intoppi che portano ad alcune pause e a un finale in calando che costa al giudizio generale un punto pieno.

Tutto sommato godibile, ma Lillo e Greg secondo me possono fare di meglio. Anche perché riescono a essere originali anche su situazioni totalmente abusate: basti vedere i blooper che ormai da anni quasi ogni film di un certo genere mette nei titoli di coda e che i nostri qua ripropongono a modo loro, con una devastante (e finta) litigata da backstage con diversi punti di vista su una scena (con Lillo che dice a Greg "è arrivato Scorsese qua").

Voto: 6

sabato 2 maggio 2020

Harry a pezzi: il film più alleniano possibile

Lo si può considerare un concentrato della filosofia comica di Allen a 360 gradi.


Nella filmografia di Woody Allen ci sono una manciata di film che specialmente noi europei valutiamo in maniera ben superiore rispetto alla loro reale qualità, film che unicamente perché hanno la firma del newyorchese vengono un tantino sopravvalutati, ci si inventa un messaggio o una morale nascosta che in realtà probabilmente non esiste.
Se invece c'è un film di Woody Allen che per me ha il trattamento opposto, quello è Harry A Pezzi, spesso quasi declassato, perlopiù dimenticato o comunque non così considerato quando si parla della sua filmografia.
Ebbene, da buon bastian contrario quale sono, Harry A Pezzi è invece uno dei film preferiti. Di certo vedo in questa pellicola un grande spartiacque, il momento in cui si chiude la seconda fase cinematografica di Allen (la prima è quella dalla comicità più "immediata" se vogliamo, quella più slapstick-demenziale), ovvero quella più puramente nevrotica/analitica, per poi dare il via a un leggero momento di riadattamento (non a caso il suo film successivo sarebbe stato il non riuscitissimo Celebrity) e che poi ci porterà al Woody Allen più "sofisticato", quello dello straordinario Midnight In Paris per intenderci.

Perché amo Harry A Pezzi molto più di tanti altri? Perché questo film racchiude in 90 minuti un po' tutto il pensiero cinematografico e autorale di Woody Allen, perché possibilmente (con le dovute invenzioni cinematografiche) questo è il film più personale della sua vita, perché qui vediamo raccolta buona parte della sua filosofia comica.
Visto che il nostro Woody interpreta uno scrittore, qui viene usato l'espediente dei suoi stessi racconti per inserire, insolitamente per lui, un certo numero di guest star (penso a Demi Moore e soprattutto a Robin Williams fuori fuoco, per una scena sensazionale) e soprattutto per spezzare il racconto con una serie di scenette brevi quasi sempre azzeccate, perché rappresentano alcune splendide trovate del regista newyorchese (la migliore è probabilmente il suo ritratto fuorviante degli ebrei, che gli viene rinfacciato dalla sorella).
Questo ci porta dentro a un film volutamente discontinuo, continuamente spezzato, quasi infilandoci dentro una centrifuga, ma questo funziona perché la qualità delle scene e dell'umorismo adoperato è piuttosto alto.

Funziona perché abbiamo un piccolo saggio di un po' tutto quello che è stato l'umorismo alleniano, con il protagonista che ha speso il proprio matrimonio in "analisti, avvocati e puttane", che non riesce a essere funzionale nei rapporti col prossimo e che in particolare ha un rapporto malato con le donne, tanto da aver lasciato la prima moglie perché a un certo punto gli faceva venire in mente un pugile (nel doppiaggio in italiano viene citato Primo Carnera, nell'originale il pugile è Max Schmeling), sorta di auto-citazione da uno dei suoi libri. Non manca qualche richiamo sportivo e religioso, vedi (per entrambi) quando parla dello "shot heard 'round the world", ovvero l'home-run di Bobby Thomson dei Giants (allora ancora a New York) del 1951: "it was the only hint I've had there may be a God". Sensazionale.
La scena del litigio con Kirstie Alley mentre il paziente di lei era sdraiato sul lettino da terapista rappresenta probabilmente i cinque minuti più alleniani possibili, per quello che è il momento più delirante del film, ma davvero si ride parecchio e in modo sempre diverso, proprio per l'eterogeneità del film.

Si potrà dire che questo sia il film più narcisista della carriera di Allen, ma se ci si diverte così tanto con una comicità tutt'altro che banale si può anche chiudere un occhio su questo aspetto.

D'altronde quando si parla della filmografia di Woody Allen non mi aspetto di essere considerato particolarmente imparziale, per cui può darsi che alcuni suoi film sia io stesso a valutarli per eccesso. Questo film lo amo particolarmente e lo considero assolutamente imprescindibile nella sua filmografia.
Voto: 9