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martedì 29 dicembre 2020

Sanremo stile Love Boat: io ho già la sigla!

 Io e il comandante Schettino gli unici tasselli mancanti per un grandissimo Festival

E' chiaro: gli italiani possono vivere nel lockdown, ma non possono vivere senza Festival di Sanremo. E come fare per il pubblico? Si va a porte chiuse, quando già non possiamo vedere di persona le grandi giocate di calciatori immensi come Gagliardini? Ma no, l'idea è brillantissima: il Festival di Sanremo su una nave da crociera! Una Love Boat, con tanta musica demmerda!

Cosa manca allora per un Sanremo Love Boat di grande successo? Intanto Schettino a comandare la nave, direi.

Ma anche una sigla efficace. E questa, caro Amadeus, te la canto io! Ho già pronto il testo! Se la sigla italiana di Love Boat fu nientemeno che "Profumo di mare" di Little Tony, basta ritoccare un filo il testo e abbiamo la sigla perfetta per il Sanremo Love Boat!!

"Merda, profumo di merda
ce la canta chiunque vinca o chi perda
ci sarà tanta merda, che musica demmerda
neanche fossimo insieme nel giorno della merla
 
con questa merda che cosa puoi fare
se siam sulla nave neanche Bugo può scappare!
 
E se siamo in cinquecento
nel mar di merda sarò contento
e se Diletta è qua
ci sarà anche il salvagento"
 
[Finale alla Tony Tammaro]
 

La mia banda suona il pop: un altro brizzisastro

Le belle musiche create da Zampini sono l'unica cosa da salvare di un film palesemente senza idee, tanto che la reunion della band deve sfociare in un banalissimo heist movie. Brizzi ancora insalvabile.


Quando si affretta la produzione di un film che parte da una idea stentata, i risultati sono quelli che si vedono ne "La mia banda suona il pop", in cui la ruffiana (ma con Brizzi la ruffianità è all'ordine del giorno) reunion di una finta band anni '80 ha talmente il fiato corto che il film sfocia in un banalissimo e noiosissimo heist movie che affonda miseramente.
Si vede subito che il progetto è abbozzato, con dei dialoghi miseri e la speranza che i volti dei protagonisti bastino a creare un interesse o un sorriso: il problema è che gli stessi protagonisti sono i primi a non crederci e sono palesemente fuori forma, basti vedere Abatantuono (con inguardabili occhi azzurri) tirarsi via stancamente dall'inizio alla fine.
Non che gli altri membri della band facciano meglio, con la Finocchiaro a cui viene appiccicato il solito personaggio palesemente e schifosamente sessista tipico degli script di Brizzi: ancora nel 2020 la donna nei film italiani serve solo per battute terribili (almeno fossero buone le battute!) sulla sua promiscuità... Alternate soltanto alle battute sul suo alcolismo. Insomma, nel film di Brizzi la donna serve solo per subire passivamente.
Ghini appare decisamente impacciato e si sveglia soltanto in un paio di duetti di coppia con De Sica, che dal canto suo conferma la forma scadente vista in Poveri ma ricchi e ricchissimi, con tanto di parrucca improbabile anche qui, finendo per straparlare e per tentare la solita strada della trivialità fine a sé stessa: qui, a differenza di altri film, non ha un Boldi a rovinargli le battute, il problema è proprio che script e regia sono talmente privi di tempi comici che nemmeno l'istintiva volgarità romanaccia può portare al sorriso.
La cosa più triste però è vedere le condizioni terrificanti di Paolo Rossi, davvero l'ombra assoluta di sé stesso e capace soltanto di biascicare le parole per tutta la durata del film.
 
La parte del furto non merita nemmeno un commento da quanto è poco degna di nota, mentre da salvare assolutamente nel film è la colonna sonora con le canzoni poppeggianti scritte ad hoc da Bruno Zampini che sono simpatiche e orecchiabili.
Non bastano però ad alzare il voto del film.

Che non può che essere un: 1

L'agenzia dei bugiardi: definirlo un bel film sarebbe una bugia

Ennesimo remake inutile del cinema italiano, anche questa volta a riprendere un film non certo memorabile come Alibi.com. Tutti i difetti del film francese restano intatti, con l'aggiunta di un casting piuttosto disastroso che fa rimpiangere tantissimo i protagonisti dell'originale.

 

Prima o poi qualcuno produrrà un vaccino contro i remake inutili del cinema italiano!
In questo caso a essere saccheggiato è Alibi.com, ovvero per l'ennesima volta un film nemmeno poi così riuscito o memorabile, anzi un film che sarebbe stato completamente dimenticato nella mia memoria se non fosse che iniziando "L'Agenzia dei Bugiardi" avessi rivisto le stesse scene girate allo stesso identico modo e mi fosse venuto il dubbio se (nonostante sia un film uscito da pochi) avessi già visto questo film e me ne fossi completamente dimenticato.
Alibi.com era una commedia francese che si salvava in corner con una sufficienza soprattutto per l'affinità del trio comico protagonista, ma che aveva dei problemi palesi di script oltre a essere anche culturalmente un film sbagliato, visto che i francesi hanno bisogno di un loro stile e che se si mettono a ricalcare esagerazioni (e volgarità) all'americana spesso non ci fanno una buona figura.
Quindi che senso ha riproporre un film già impersonale come Alibi.com e farne un remake? Nessuno, ma nel cinema italiano non si butta via niente.
 
Così i pregi del film francese (originalità in alcuni aspetti) vengono completamente accantonati e ne L'Agenzia dei Bugiardi ritroviamo invece pari pari tutti i difetti, le gag grossolane e non riuscite e personaggi con uno sviluppo psicologico poco coerente.
In più qui viene aggiunto qualche personaggio fuori contesto (Fassari che appare giusto in due scene) e viene da rimpiangere del tutto i protagonisti del film originale per un casting piuttosto sballato.
Da chi iniziare? Da Ghini che finisce per riproporre il solito personaggio visto e stravisto nei suoi cinepanettoni con De Sica? O con  Diana Del Bufalo, invadente e (per me) totale oggetto misterioso per mancanza di tempi comici e anche una palese antipatia? Dalla coppia disastrosa Ruffini-Ballerina, con il primo che si fa preferire quando dorme (anche il personaggio del film originale soffriva di narcolessia) e con il secondo che continua a confermare di essere allo sbando fuori dal gruppo di Maccio Capatonda (che di fatto è un po' l'Atalanta dello spettacolo italiano, come già detto nella recensione recente di In Vacanza su Marte)?
Un po' meglio se la cava Giampaolo Morelli, che però da attore "brillante" ha un difetto di fondo: l'essere eccessivamente monotematico, tanto da stancare alla lunga.
Terribile la parentesi con Golia de Le Iene di Mediaset, così come l'apparizione da guest-star autocitazionista di Piero Pelù.
 
Regia copiata di sana pianta dal film originale (mah) e colonna sonora modesta a completare l'ennesimo prodotto da buttare.
Davvero non si è nemmeno capaci di scrivere qualcosa di originale che possa essere meno modesto di tutto ciò?

Voto: 2

venerdì 25 dicembre 2020

In vacanza su Marte: un assembramento di stronzate

Riesce a deludere anche le peggiori attese. Idee inesistenti e "comicità" affidata unicamente alle trivialità di De Sica, che però non va oltre ai "puffana" o "incagnotta" che non farebbero ridere altri che un minus habens. Boldi? Sempre più impresentabile. Disastro assoluto.


 

Peggio del cinema spazzatura c'è solo una cosa: tentare di riproporre ancora il cinema spazzatura quando si è ormai fuori tempo massimo, quando quel tipo di film è (per fortuna) passato fuori moda, per dare spazio ad altra spazzatura (tutta quella televisiva da reality e alla Barbara D'Urso, diventata di moda grazie allo stoico lavoro di istupidimento di massa attuato da Mediaset da decenni). Pensare a un target di pubblico a cui possa piacere una pellicola come "In vacanza su Marte" crea assoluto imbarazzo, perché senza giri di parole bisogna avere un livello intellettivo e culturale davvero ai minimi termini per poter apprezzare quanto si vede.
Il che non vuol per forza dire che bisogna essere dei mononeuronali per poter apprezzare i cinepanettoni del momento migliore, quando magari c'era un ritmo diverso e un'ispirazione maggiore da parte dei protagonisti (pur non essendo certo io un fan di questo genere di film), vuol dire che per farsi piacere un film come quest'ultimo girato su ritmi stiracchiatissimi e con attori che sembrano recitare al rallentatore bisogna davvero essere ben più che di bocca buona, bisogna avere un gusto decisamente pessimo.
 
Che Neri Parenti non sia mai stato (anche nel pieno delle sue forze) un buon regista lo si sapeva già, basti vedere tutte le sue operazioni di riciclo che hanno devastato l'originalità di un attore come Paolo Villaggio (portando anche a un paio di buoni film, ma sempre costringendo il comico genovese a ripetere sé stesso fino allo sfinimento), ma affidando un progetto simile alle sue mani ci si poteva aspettare almeno un minimo di esperienza nella gestione del tutto: invece Parenti & Co riescono ad andare anche peggio delle bassissime attese che avevo, portando il film a livelli di imbarazzante pressappochismo, con il chiaro e patetico tentativo di strizzare l'occhio ai fan integerrimi della coppia De Sica-Boldi che porta a un disastro di livelli infimi.
A leggerla la trama sembra persino articolata, in realtà sono tre-quattro cosette buttate lì alla bell'e meglio lasciando tutto al caso. Parenti non riesce mai a creare un minimo ritmo alla storia, proponendo una regia completamente random, in cui le due storie (che pure un minimo collegamento lo avrebbero per la sceneggiatura) che procedono incollate a casaccio come fossero due film diversi. E peraltro sono due film uno peggio dell'altro.

Le parentesi giovanilistiche di norma nella commedia italiana degli ultimi 30 anni sono sempre le peggiori, per la superficialità con cui sono visti i giovani. Qui si va anche peggio del solito, con la coppia di influencer (alè, casuale richiamo all'attualità) finta innamorata per siparietti di una bassezza incredibile. Peraltro per girare questo episodio viene ripescata dal campionario delle meteore Fiammetta Cicogna, di cui si ricorda una (brutta) pubblicità di una decina di anni fa, mentre Herbert Ballerina o Luigi Luciano che dir si voglia conferma come il gruppo di Maccio Capatonda & Co (originale agli inizi ma persosi del tutto col tempo) possa essere considerato un po' l'Atalanta dello spettacolo: ovvero qualcosa che poteva funzionare d'insieme, ma con i vari singoli che in altri contesti mostrano delle lacune notevolissime.

Ma questa parte serve solo per allungare il brodo e creare uno pseudo-subplot, il quadretto è tutto incentrato su Boldi e De Sica e i risultati sono preoccupanti. Già a livello di credibilità negli ultimi anni Boldi (causa decadimento cariatidale a mettere a nudo tutto i limiti del suo presunto talento comico) aveva toccato il fondo del barile: qui il fondo viene sfondato anche a causa di una sceneggiatura che ce lo propone come... FIGLIO di De Sica (a causa di un buco nero: eh vabè)! In sostanza Boldi deve fare il vecchio rimbambito, portando lo spettatore a un imbarazzo e una tristezza profondi, pensando a come è brutto ridursi così per non capire che a un certo punto se proprio non ce la si fa la carriera artistica (sempre che sia mai stata "artistica" la sua) va fermata.
La sceneggiatura non pone un briciolo di appiglio comico e allora i tentativi di portare alla risata sono tutti appioppati sulle spalle di De Sica, che dimostra di essere anche lui palesemente fuori forma (pur non avendo i tempi totalmente a rilento di Boldi) e che prova a far qualcosa risultando però anche lui irritante con il solito trito e ritrito ricorso alla trivialità, che in passato magari (in alcuni casi) poteva anche funzionare ma che qui risulta digeribile come un muro di mattoni a colazione. Anche perché il livello delle battute è "puffana" o "circonvenzione di incagnotta": non vi fa ridere? Esatto. Ma ve le spiego: dicasi "puffana" la donna con ampia vita sessuale e i capelli color puffo, mentre l'incagnotta sarebbe una "crasi tra incapace e mignotta". Che ridere. Certo, sempre meglio dell'abbozzato "dolore marziano" di Boldi, ma davvero una roba di una tristezza inaudita.

Ancora più triste vedere attrici di buon livello coinvolte in questo progetto, dalla solitamente bravissima (qui palesemente mal utilizzata) Lucia Mascino a Paola Minaccioni (che purtroppo continua a buttarsi via in film del genere), finendo per l'orrendo ruolo affibbiato a Milena Vukotic come anziana ninfomane, simbolo perfetto di una scrittura senza alcuna idea e della sciatteria del film.

Degne di nota le scenografie da "fantascienza", farlocche all'inverosimile, e la colonna sonora con musichetta ridicola.
Insomma, anche provandoci da salvare non c'è proprio nulla.

Voto: 0

Il ritorno dei pomodori assassini: l'eterna lotta tra uomo e pomodoro

Tra un pomodoro spremuto e un marchio pubblicitario sbattuto grossolanamente, un film cult per la propria comicità demenziale e per uno spirito totalmente dissacrante
 

Piuttosto che cercare il riciclo del riciclo come fa il cinema italiano con i finti viaggi marziani e con le catastrofiche revisioni del lockdown, ha molto più senso ripescare un certo cinema di bassa qualità ma con uno spirito che s'è totalmente perso come quello de "Il ritorno dei pomodori assassini", capace di essere a suo modo lo specchio di tempi irripetibili.
Girato una decina di anni dopo il capostipite (purtroppo abbastanza introvabile da noi), questo film rappresenta una voglia di puro cazzeggio, una follia assoluta fatta di gag a ripetizione e una voglia di prendere in giro ogni cosa possibile. Certo, non tutte le gag vanno a segno, e quando non ci riescono si possono avere dei momenti di puro imbarazzo per chi non riesce a entrare nello spirito della pellicola, ma ce ne sono tante che per puro senso di delirio e potere dissacrante risultano assolutamente divertenti. Il tutto accompagnato da una storia buttata lì come puro abbozzo e con un voluto "over-acting" continuo per essere ancora più ridicole le situazioni: per un quadro che però funziona abbastanza bene, regalando un vero cult per il cinema demenziale.
 
In realtà la vicenda dei pomodori assassini (che pare fosse ben più centrale nel primo film) in questo caso rappresenta più un pretesto, anche se non mancano le gag finto-splatter sconsigliate agli "amanti" degli ortaggi (devastante quando il cattivo spreme un pomodoro con una violenza inaudita, oppure notevoli sono battute assolutamente insensate del genere "Tara, non sei diventata ketchup!"), ma è proprio lo spirito di delirio che rende devastanti alcuni momenti del film.
Che dire del cambio di stile improvviso che avviene a metà film con la scena più o meno metacinematografica in cui viene deciso di concludere le riprese del film con l'aiuto della pubblicità (molto poco) occulta visto che il budget era già stato sperperato? Da quel momento il product placement diventa selvaggio, con in particolare George Clooney che si sforza in maniera molto ironica a piazzare nel migliore dei modi i marchi dei prodotti, e con il marchio "Pepsi" che spunta in ogni angolo: completamente ridicolo, ma ogni volta che un marchio viene sbattuto all'occhio dello spettatore in modo così grossolano viene davvero molto da ridere.

In tutto ciò si vedono anche due volti noti al grande pubblico, come il già citato George Clooney, qui pressoché agli esordi e capace di mostrare una notevole faccia da schiaffi, mentre il super-cattivo ha il volto di John Astin, l'ex Gomez dell'originale Famiglia Addams.

Certo, non c'è da aspettarsi la qualità e la ricerca del dettaglio degli ZAZ, questo è un demenziale pittosto grossolano, ma è anche un demenziale puro e divertente, parecchio lontano da quella serie di volgarità fini a sé stesse che adesso il cinema americano spaccia (disastrosamente) per comicità demenziale: qui la ricerca della gag (anche quando non riesce) si vede.

Voto: 7

sabato 19 dicembre 2020

Patch Adams: l'attimo è fuggito

Un buon Robin Williams viene penalizzato da una messa in scena troppo didascalica ed eccessivamente tendente all'iperbole


Cosa resta guardando un film come Patch Adams a distanza di oltre 20 anni? Sinceramente poco, se non la sensazione di aver sfruttato non al meglio (come spesso accadeva in quegli anni) una maschera e un talento induscutibile come quello di Robin Williams, sperando che magari per il grande pubblico la sua maschera e i buoni sentimenti potessero nascondere le falle enormi di questo prodotto.

Che la messa in scena sia decisamente poco ispirata lo si può capire subito dall'introduzione che vede Patch al manicomio, con l'odiosa musichetta di sottofondo pseudo-poetica (che virtualmente accompagnerà tutto il film) a sottolineare scene lente, blande, mal girate e messe lì a forza per creare una caratterizzazione del personaggio. Un disastro.
Per fortuna poi Patch si iscrive alla facoltà di medicina e la vicenda inizia a farsi interessante (e lo sarà fino al brutto finale all'ateneo con scopiazzature da cinema giudiziario), ma più che per la forza di una regia spenta e dormiente lo è perché le situazioni portano il buon Robin Williams a brillare o a toccare i giusti tasti con la sua recitazione sensibile.
Resta però una messa in scena mediocre, che procede in maniera didascalica e mai appassionante, riempiendo il tutto con sempre più sterile melassa, risultando eccessiva. Il tentativo di romanzare la vicenda è tale che (ripetendo la stessa critica che scrissi in passato per The Mule) quella che dovrebbe essere una trasposizione di una storia reale finisce per risultare del tutto inverosimile, cosa piuttosto imbarazzante: tanto vale a questo punto creare una sceneggiatura inventando da zero e ispirandosi su vicende reali, piuttosto che frustrare lo spettatore che pensa di vedere una storia era con assurdità del tutto improbabili.
Inoltre, la totale mancanza di ispirazione si vede nello sviluppo di tanti personaggi secondari, la cui parabola appare incredibilmente identica a quella di pari caratteri in L'Attimo Fuggente (che però era un film con una forza decisamente diversa).

Non tutto è da buttare, ma i difetti sovrastano i pregi. Per un film anche guardabile, ma non certo più di una volta.

Voto: 4

mercoledì 18 novembre 2020

Ted Lasso: molto più di un Oronzo Canà all'americana

Divertentissima e riuscitissima serie, con Jason Sudeikis strepitoso nell'impersonificare un personaggio apparentemente strampalato (un vero e proprio pesce fuor d'acqua nel calcio inglese) ma che si rivela ben più profondo e azzeccato delle attese. Una sorpresa graditissima.


Cosa? Una serie statunitense sul calcio?
Ebbene sì. Ma sebbene il tema centrale sia il calcio, non è una serie puramente e unicamente sportiva: Ted Lasso risulta essere una serie ben più profonda.
 
E' la rivincita di un perdente, quel Ted Lasso che senza alcun curriculum si ritrova dall'allenare squadre (e nemmeno di prima fascia) di college football (ma il football americano!) all'essere assunto incredibilmente sulla panchina di una squadra di Premier League di calcio, sport del quale ancora fino all'ultima puntata (in una delle gag ripetute della serie) non conosce nemmeno le regole. Surreale, assurdo? Sì, ma non troppo, in un calcio che casualmente in prossimità della lavorazione e del lancio di questa serie tv vede qua e là su panchine di squadre di storia e rilevanza allenatori senza curriculum come Andrea Pirlo alla Juventus oppure (per restare all'ambito della Premier League) Mikel Arteta all'Arsenal. Per cui, se senza alcun merito personale Arteta può allenare l'Arsenal, perché Ted Lasso non può allenare il Richmond?
A dare il volto a Ted Lasso è Jason Sudeikis, che affronta il ruolo con una straordinaria ironia abbinata a una devastante bontà d'animo continua, di fronte a tutti e tutto: se trova davanti dei tifosi che lo insultano dicendogli di vincere la prossima partita, lui risponde con uno spiazzante buonsenso dicendogli che ci proverà, in conferenza stampa resta scandalizzato dallo scoprire che nel calcio si può anche pareggiare, in spogliatoio tira fuori dei detti assurdi lasciando a bocca aperta i suoi giocatori, creando delle scene sempre godibilissime.
E' proprio la faccia tosta di Sudeikis nell'affrontare tutte le situazioni e tutte le difficoltà il grande punto di forza della serie, che a ogni puntata riesce a creare situazioni deliranti che strappano forti risate, ma che ha una profondità sorprendente: sì, perché nonostante l'incipit potrebbe far pensare alla storica Longobarda e a Lino Banfi (un po' come Oronzo Canà. Lasso è l'allenatore preso dalla presidente per far retrocedere volutamente la squadra), Ted Lasso è una serie che descrive bene i personaggi e che sa commuovere. Per lo stesso allenatore che in qualche modo riesce a conquistare la squadra, per il capitano del Richmond (club inventato dagli autori) che deve affrontare un difficile tramonto della carriera, fino allo straordinario tuttofare del club che ha un percorso particolare nel corso della serie.
La qualità delle puntate è sorprendente, perché se già la prima puntata col suo aspetto surreale della vicenda riesce a sorprendere e a divertire, è successivamente che la serie decolla dimostrando che il pilot era nulla più che un'introduzione: il mix tra comedy e drama con lo sport come anello di congiunzione è riuscito per le ispirate interpretazioni di tutti gli attori e per uno script superiore alla media.

AppleTv+ per certi versi è una piattaforma "nuova" che si sta affacciando nel sempre più popolare panorama dello streaming e con Ted Lasso regala una sorpresa parecchio gradita, apprezzata persino dal sottoscritto, ovvero uno che è patito di sport (peraltro questa serie tocca il calcio inglese, ovvero uno dei miei campi preferiti) ma ama molto poco la trasportazione di esso nel cinema o nelle serie tv perché finisce per essere o troppo romanzata o frustrantemente irreale: ebbene, nonostante qui la vicenda di partenza sia del tutto surreale, lo sviluppo della serie è riuscitissimo perché non tratta lo sport come una favoletta. Il risultato è di altissimo livello, per una serie davvero consigliata per tutti. Il risultato è stato talmente gradito dal pubblico che sono già state ordinate altre due stagioni ed è giusto dare un seguito alle vicende di coach Lasso, sperando che gli autori non perdano la verve mostrata nelle prime splendide 10 puntate.

Voto: 9,5

Instant Family: buon esempio di cinema familiare

Film leggero ma ben più legato alla realtà rispetto alle abitudini del cinema familiarista, che ha un grande punto di forza nel lotto molto riuscito di personaggi secondari.


Considerando quanto sdolcinata e leziosa sappia essere Hollywood con il suo cinema proto-familiare (e soprattutto spiccatamente pro-familiarista), questo Instant Family risulta essere una bella sorpresa. Certo, non mancano quei momenti un po' esagerati per far commuovere l'americano medio di bocca buona che magari ipocritamente getta la lacrimuccia su una storiella simile e poi con gli occhi foderati di prosciutto appoggia i deliri trumpisti squallidi (ma sappiamo bene quanto sia contorta e fasulla certa parte di società americana), ma tutto ciò viene inserito in una sceneggiatura un po' più ispirata del solito (specialmente rispetto alla media di genere) e soprattutto ci propone una situazione familiare che può apparire romanzata ma che appare ben più vicina alla realtà rispetto alle abitudini.

Il quadro è talmente funzionale che persino Mark Wahlberg (attore solitamente detestato dal sottoscritto) si rispecchia e si ritrova bene nella parte, molto ben affiancato dalla sempre deliziosa Rose Byrne (capace di caratterizzare il ruolo della madre affidataria in modo ben più complesso del solito, con alcune negatività che la rendono più umana e meno cinematografica), in un film che forse eccede leggermente nella durata (si sfiorano le due ore) ma che riesce a evitare cadute stucchevoli grazie a tutti gli attori di contorno, bravissimi un po' tutti a spezzare il ritmo. Viene da pensare alla simpaticissima Tig Notaro (vista e apprezzatissima nella serie One Mississippi) che insieme a Octavia Spencer dà sostegno alle famiglie affidatarie riuscendo a a ritagliarsi lo spazio per alcune buone gag qua e là, specialmente quando si ritrovano a parlare di quella madre single che ha come obiettivo quello di ottenere l'adozione di una futura star dello sport, ritrovandosi ovviamente tra le mani un campioncino di basket... di 1.58, bianco e rossiccio. Deliziosa anche la figura della nonna materna di Margo Martindale, per una serie di volti e personaggi che permettono allo spettatore di seguire col sorriso la vicenda.

In parte retorici, ma in generale ben descritti e molto sentiti i contrasti e le situazioni nuove che la coppia protagonista deve affrontare ritrovandosi in casa di colpo questi tre ragazzini, per una serie di momenti un po' altalenanti ma descritti discretamente.

Nel suo genere, un film abbastanza riuscito.

Voto: 7

giovedì 12 novembre 2020

El practicante: thriller dai tratti inquietanti

Film non certo memorabile, ma capace di farsi apprezzare per la tensione che si crea nella situazione da incubo per la vittima del folle protagonista.


El Practicante si unisce alla buona (se non ottima) schiera dei thriller spagnoli di questa generazione, pur essendo più diretto (e conseguentemente più "usa e getta") e meno complesso rispetto alle abitudini, puntando sulla situazione da incubo maniacale alla Misery, pur avendo per forza di cose una minore complessità caratteriale (specialmente rispetto al romanzo di Stephen King).

Tutto ruota attorno al protagonista Angel, descritto da subito con tratti arroganti e antipatici, con una gelosia e una paranoia che schizza alle stelle fino alla follia una volta che (causa incidente) si ritrova paralitico su una sedia a rotelle. Si mette a controllare il cellulare della fidanzata, che così lo lascia portando a una reazione folle. Angel così finirà per sequestrare la ragazza, creandole una situazione da incubo totale che crea una buona ansia anche agli occhi dello spettatore.

Non tutto fila esattamente liscio, in particolare non convince la reazione del vicino di casa la seconda volta che sente dall'appartamento del protagonista delle urla femminili, ma il film centra i bersagli prefissati, creando una forte tensione e intrattenendo spettatore, riportando intrinsecamente una buona morale critica sull'ossessione che porta alcuni soggetti malati allo stalking vero e proprio.
In tal senso a dare forza al film è la prova eccellente di Mario Casas (ormai una sicurezza nel genere thriller), che impersonifica in modo squallido e convincente il protagonista.

A livello tecnico (a cominciare dalla regia di Carles Torras) non c'è molto da segnalare, in quanto il lavoro procede più che altro in modo funzionale, per un film che sicuramente non ha nulla di particolarmente memorabile ma che si rivela tutto sommato una buona visione.

Voto: 7

martedì 27 ottobre 2020

The Fan. Il mito: rovinato dalla tendenza all'americanata

Film quanto mai frustrante. Parte bene, col mix tra drammaticità e racconto sportivo, ma poi quando si entra nella fase thriller diventa un'americanata con esagerazioni e forzature colossali. Finale totalmente irreale.

Difficile non provare frustrazione massima dopo aver visto un film del genere.
Anche perché le premesse erano davvero buone, con un inizio rapido e parecchio azzeccato, interessante nel mixare da una parte il dramma di una vita che cade a pezzi (per il "tifoso") e dall'altra in parallelo le difficoltà stagionali del campione sportivo (parte per una volta apprezzabile pure per il sottoscritto, che è patito in maniera maniacale di sport ma che rarissimamente apprezza la trasposizione dello sport al cinema o nelle serie tv). Oltretutto i due protagonisti regalano ottime prove, con Wesley Snipes molto in parte e Robert DeNiro che sembra tornare ai fasti di un Rupert Pupkin (nello splendido Re per una notte).
 
Poi però il tracollo di sceneggiatura e regia nella virata thriller è imbarazzante: il film diventa una di quelle porcherie che viene difficile non chiamare "americanate", piena di esagerazioni, accenni ridicoli (tutte le frasi sulla famiglia sono da buttare nella spazzatura) e forzature sfacciatamente poco credibili, per un finale che diventa completamente surreale, proprio perché lontanissimo dalla realtà.
Basti vedere la fase finale con la partita di baseball: evitando lo spoiler (ridicolo come DeNiro influisca nella partita), accenno soltanto (da grande fan della MLB) che San Francisco già di suo è una città non esattamente piovosa, in particolare lo è ancor meno nel corso della stagione del baseball, tanto che non sono molte le partite di baseball in quella città che hanno la rain delay (piuttosto lo stadio dei Giants di quei tempi, Candlestick Park, aveva il problema di essere parecchio esposto al vento), per cui già è assolutamente improbabile che una tempesta d'acqua di tali proporzioni si possa imbattere durante la partita in casa dei Giants, ancora più assurdo e improbabile (senonché impossibile) è che gli arbitri (a meno di un calendario forzatissimo) non sospendano la partita in queste condizioni di gioco, visto che il baseball sotto l'acqua non si può giocare (per quanto adesso abbiano una tolleranza maggiore, ma non fino a quel punto e questa tolleranza non c'era a metà anni '90 quando il film è stato prodotto). Ah, e in queste condizioni con il terreno completamente scivoloso, cosa fa il nostro campione? Tenta un inside-the-park home-run!!! La giocata forse atleticamente più difficile del baseball!! Ma mi faccino il piacere, mi faccino!!!
 
Ecco cosa è l' "americanata".
 
Peccato, perché il film era iniziato bene e gli attori meritavano di meglio. Ma queste robacce sono inaccettabili.
 
Voto: 4

giovedì 15 ottobre 2020

Un amore all'altezza: commedia con (paradossalmente) pochi bassi

Commedia romantica intelligente, capace di azzeccare un ottimo numero di gag e con un riuscito messaggio di fondo
 

Cosa pretendere di più da una commedia romantica senza millantate pretese autorali come questa se non la capacità di intrattenere con scene divertenti e magari il riuscire a inserire un messaggio costruttivo senza apparire eccessivamente moralisti?
Probabilmente nulla. E questi obiettivi sono centrati pienamente da Laurent Tirard, che riesce a inserirsi nello stile aggraziato tipico della commedia francese attuale, partendo forte già da un incipit piuttosto brillante e catturando subito l'interesse dello spettatore, pur con una storia e una trama che non va oltre i canoni standard della commedia romantica.
A fare la differenza, come sempre in un cinema attuale pressoché incapace di inventare cose nuove, è la messa in scena. I dialoghi sono perlopiù di buon livello e soprattutto a catturare è la simpatia dei due protagonisti, con la sempre affascinante Virginie Efira (per certi versi una specialista francese nel genere) e il rimpicciolito Jean Dujardin che hanno forte alchimia, che entrano bene nei personaggi e divertono, grazie anche a una sceneggiatura che riesce a inserire 4-5 gag non esattamente attinenti al politicamente corretto (tutte centrate sull'altezza minima del protagonista maschile, vedi la scena in cui la Efira va nel negozio di bambini per comprargli un pullover, oppure con l'ex marito della Efira che la denomina come "Biancaneve") che scatenano spesso e volentieri la risata.
 
E riesce anche la morale romantica di fondo: cosa è "normale", basta una caratteristica fisica a rendere strano un rapporto di coppia? Il modo con cui la questione è trattata è efficace: e chissà, magari anche un filmettino come questo può essere educativo e cambiare un minimo il pensiero di quel tipo di persona (mal)educata a vedere diversità altrui in tutto.
 
Un amore all'altezza non è certo quella pellicola che può farti urlare al miracolo, ma intrattiene in modo intelligente per un'ora e mezza e questo può bastare per un giudizio positivo.
 
Voto: 7,5

mercoledì 30 settembre 2020

Botte da prof.: raro demenziale recente capace di essere divertente

Buon esempio di commedia demenziale all'americana, un genere parecchio svilito negli ultimi anni. E' un film caciarone e di grana grossa, ma in tutte le gag c'è dietro una buona costruzione. Il risultato è piacevolmente divertente.

 
Uno dei generi che solitamente meglio riusciva agli americani, quello della commedia demenziale, da una decina d'anni è in grave stato comatoso, massacrato dalle nuove generazioni di pseudo-comici figli degli Scary Movie che hanno mortificato il genere, pensando (forse neanche tanto a sproposito, visto l'istupidimento della società americana e occidentale in generale) che allo spettatore bastasse la volgarità di grana grossa fine a sé stessa e senza alcuna costruzione comica attorno per far ridere (idea entrata in testa anche ai fratelli Farrelly che produssero quell'abnorme ammasso di sterco che fu Comic Movie, il peggior film di sempre probabilmente). Un vero peccato, perché, senza andare a toccare capolavori del genere, agli americani il demenziale riusciva bene ed era un mezzo efficace di produrre film divertenti pur partendo con pretese e pochi mezzi: insomma, volando basso ci si poteva divertire.
Per questo fa piacere vedere ogni tanto qualche eccezione che conferma la regola, un film di bassa lega, con anche un disceto numero di trivialità e con pretese sostanzialmente nulle come questo "Botte da prof." risultare sorprendentemente piacevole e divertente: certo, come sempre si tratta di film non per tutti i gusti e da sconsigliare al palato particolarmente fine, perché bisogna entrare nella giusta ottica e avere l'attitudine ad "abbandonare la razionalità" (senza per forza "spegnere il cervello": per questo ci sono i programmi della tv generalista odierna) per accettare assurdità e per certi versi anche volgarità, ma in questo caso anche le gag triviali hanno dietro una certa costruzione portando il film a indurre spesso a volentieri alla risata grassa, soprattutto nelle prima e nell'ultima fase della pellicola.
Bisogna accettare anche qualche caduta di tono e qualche trovata non particolarmente riuscita, ma se non si pretende troppo un film come Botte da prof. riesce a divertire parecchio.
 
Funziona la coppia protagonista, con Ice Cube che ormai s'è specializzato in ruoli da omaccione rude e che in questo caso riesce a rimettersi in gioco nel genere della commedia pura come non faceva da parecchi anni, risultando ancora un attore di buon livello.
La forza motrice del film è però Charlie Day, attore magari non particolarmente conosciuto da noi (a parte la sit-com C'è sempre il sole a Philadelphia) ma che appare spesso e volentieri funzionale in ruoli demenziali, come già visto nello svalutato (ma in realtà parecchio divertente) Tre uomini e una pecora.
Attorno a loro, oltre ai soliti giovanotti nei ruoli degli studenti (a cui finiscono assegnate le gag meno gustose della pellicola), un cast con qualche nome noto a livello televisivo, soprattutto Dean Norris (l'ex Hank Schrader di Breaking Bad, qui nel ruolo del preside) e Christina Hendricks (ex Mad Men e adesso protagonista nella buona serie Good Girls, sempre uno spettacolo per gli occhi anche se qui in un ruolo parecchio secondario).
 
Il risultato è un film di grana grossa, spesso caciarone, ma di ottimo ritmo, che solo nella fase centrale perde un po' di attrito per poi riaccelerare in modo convincente nella fase finale (che avrà un finale anche di maniera, ma sostanzialmente funzionale). Buono per passare 90 minuti di divertimento senza pensieri, o magari per una serata di totale cazzeggio in compagnia.
Sarà pure cinema "usa e getta", ma riesce nell'obiettivo di intrattenere e tanto basta: nessuno pretendeva il nuovo classico della comicità da un film del genere.
 
Voto: 7

sabato 26 settembre 2020

Baby Driver - Il genio della fuga: adrenalina a mille

Action a ritmi folli, con un buon cast e soprattutto diretto con una tecnica di prim'ordine, con inquadrature sempre azzeccate combinate a una colonna sonora eccellente.


Se c'è un genere che forse più di tutti sta pagando il progressivo appiattimento del cinema americano, sempre più omologato e privo di idee, questo è quello degli action movie, diventati via via sostanzialmente uguali e sé stessi e nei casi peggiori abbastanza ridicoli, con picchi di grottesco involontario.
Per questo vedere Baby Driver, film uscito nel 2017, è una boccata di aria fresca e fa enormemente piacere ritrovare un film d'azione in grado di essere così coinvolgente e di intrattenere in maniera eccellente.
 
Ovviamente, per un film che parte a 200 all'ora (figurativamente ma non solo) e che incredibilmente nella seconda metà riesce non solo a non frenare, ma anche ad accelerare ulteriormente, la chiave principale per la buona riuscita è nella regia e Edgar Wright (che già aveva dimostrato buon gusto in passato) fa un lavoro prodigioso, per un film che procede a ritmi folli senza essere eccessivo, ma regalando adrenalina a fiumi e mostrando una qualità tecnica in regia di livello totalmente superiore alla media: non solo con sequenze parecchio godibili, ma anche e soprattutto non sbagliando un'inquadratura anche nei momenti più caotici. Il tutto aggiungendo l'uso sapiente della colonna sonora, con la musica che accompagna sostanzialmente ogni fase del film e che diventa un ulteriore punto di forza, per come si accompagna perfettamente all'immagine e per come contribuisce a rendere accesissimo il ritmo: tra i tutti i brani conosciuti che si alternano, forse il momento più azzeccato arriva nel finale con l'uso di "Never never gonna give ya up" di Barry White nella scena al diner, impagabile.
 
Baby Driver è così un gran bel film, con Wright (anche unico sceneggiatore) che riesce a inserire qua e là anche qualche elemento umanizzante (soprattutto nel rapporto ben congeniato tra il protagonista Ansel Elgort e Lily James) senza sprofondare nel manierismo, senza dimenticare che la componente principale è quella action, tra inseguimenti e situazioni anche fracassone come vuole il genere ma sempre divertenti.
Non manca una dose di ironia di fondo (memorabile la rapina con le maschere di Mike Myers), anche questa ben calibrata e non eccessiva, per un film che vanta anche qualche eccellente nome nel cast: se Kevin Spacey e Jamie Foxx impreziosiscono la pellicola, a spiccare anche più di loro è l'ex Don Draper di Mad Men Jon Hamm, che specialmente nel finale regala delle espressioni allucinante di straordinaria fattura.

Azzeccato anche il protagonista Ansel Elgort, col viso pulito d'ordinanza e credibile nelle sequenze d'azione, per un film con davvero pochi difetti e con un altissimo livello spettacolare. Combinando tutto a una tecnica visiva di prim'ordine, viene fuori un esempio (ormai purtroppo raro di questi tempi) di grande cinema.

Voto: 9

venerdì 18 settembre 2020

Lavoro a mano armata: buona serie tristemente attuale (e non solo per la Francia)

La naturalezza e l'esplosività dell'interpretazione di Eric Cantona si sposa benissimo con la penna di Pierre Lemaitre e con una sceneggiatura in grado di miscelare generi e cambiare volto quasi a ogni puntata.
 
 
Parlando di "Lavoro a mano armata" non si può che iniziare dal nome di Eric Cantona, uno dei personaggi più particolari e unici che si siano visti negli ultimi 30 anni, in ogni campo. Per chi è cresciuto con un certo tipo di calcio (calcio inglese in particolare), il nome di Cantona non può che essere quello più significativo di tutti gli anni '90, uno dei primissimi calciatori globalizzanti a livello mediatico, per le sue doti tecniche ma anche (se non soprattutto) per una personalità magnetica, a volte controversa, sempre capace di creare interesse e attenzione: e questo ben prima dell'arrivo dei social media e degli Instagram con calciatori che si auto-definiscono degli dei.
Il post-carriera calcistica di Cantona non poteva che essere egualmente interessante visto il suo carattere e la sua mediaticità e, pur continuando a divertirsi giocando e allenando a beach soccer, il suo passaggio alla recitazione è sembrato parecchio naturale, visto che a suo modo è sempre stato anche un personaggio parecchio teatrale.
L'Eric Cantona che troviamo a recitare in questa serie tv è esattamente quanto ci si possa aspettare: in grado di accentrare l'attenzione su di sé, ma anche di apparire naturale e di mostrare eccellente capacità di immedesimazione. Non si può certo dire che la vita di Alain Delambre possa essere simile a quella dell'ex star calcistica, ma il marsigliese di origine italo-spagnola rende benissimo nel ruolo dell'uomo di mezza età devastato dalla disoccupazione e dall'incapacità di trovare sbocchi. A livello caratteriale invece Delambre diventa abbastanza affine a Cantona, che deve riportare un personaggio tendente all'irascibilità e di estrema passionalità: e Cantona convince molto, anche nelle parti riflessive, dimostrando (ma ormai confermando) di essere ben più di una star sportiva prestata alla recitazione, ma di essere un attore a tutto tondo.
 
C'è tanto di Cantona in Lavoro a mano armata, ma non c'è solo Cantona, perché dietro c'è una delle penne migliori del panorama francese, quella di Pierre Lemaitre, scrittore capace come pochi di saper leggere il panorama attuale della società francese.
I rischi di riportare in una serie tv un romanzo (per giunta di buona popolarità) sono sempre tanti, ma gli sceneggiatori riescono con successo a restare fedeli allo scritto e allo stesso tempo ad aggiungere degli accorgimenti capaci di risultare intriganti e avvincenti agli occhi dello spettatore. In particolare, piace e stupisce la capacità di miscelare generi e sostanzialmente cambiare volto quasi a ognuna delle sei puntate che compongono la serie.
La prima puntata introduce il personaggio di Delambre e mostra le difficoltà di un disoccupato nella società moderna, iniziando a dare una lettura sulla crudeltà delle grandi aziende del mondo capitalista. La seconda puntata vede Delambre pianificare la sua azione, ma è molto un dramma familiare, con il difficile rapporto con le figlie e con la moglie che al momento prova a essere comprensiva. Nella terza puntata si vira all'azione per il gioco di ruolo con la presa di ostaggi organizzando dall'azienda. Quarta e quinta puntata portano alla claustrofobica vita carceraria. La sesta puntata diventa fiction giudiziaria e ha la risoluzione.
 
Ognuna di queste anime è molto ben costruita, portando così a una serie tv di alta qualità: ficcante nella sua accusa, avvicincente e in grado di portare lo spettatore a immedesimarsi con il protagonista.
Una serie tv decisamente da vedere.
 
Voto: 8

martedì 15 settembre 2020

The Ranch: e tutto va in vacca

Sit-com di una lentezza e staticità straziante, con battute pessime se non proprio urticanti: un disastro


 
Dopo che la serie tv  That '70 Show lo aveva lanciato, lo showbiz americano ha fatto di tutto per trovare un modo per dare un senso alla carriera successiva di Ashton Kutcher, che invece è diventato un vero e proprio oggetto misterioso tra le "star" d'oltreoceano: prima una sequela di film uno meno riuscito dell'altro, poi il tentativo di rilancio in tv come sostituto di Charlie Sheen in Due Uomini e Mezzo, per Kutcher sostanzialmente c'è stato un fallimento dietro l'altro, ma questo non ha mai minato la sua popolarità a livello nazionale e globale (se davvero i dati dei social contano per quantificarla).
Allora l'idea di Netflix è stata semplice: riunirlo con un'altra delle star declinanti di That '70 Show come Danny Masterson (con apparizioni da guest per altri volti di quello show, come Wilmer Valderrama, Debra Jo Rupp o Kurtwood Smith, tra i tanti ex "compari" di Kutcher apparsi nelle quattro stagioni a confermare un tentativo di creargli una assoluta comfort zone) per rilanciarlo a livello televisivo/di streaming.
Peccato che poi la stessa Netflix a metà della terza stagione decida di tagliare i ponti con Masterson per i classici scheletri nell'armadio che rispuntano, spaccando a metà progetto il tentativo.

Sia prima che dopo il licenziamento di Masterson, con The Ranch c'era un problema: la serie era sballata dall'inizio.
Ne è uscita fuori una sit-com che non ha i crismi di una sit-com: questo tipo di prodotto funziona solitamente per la velocità e il ritmo delle puntate, ma lo stile scelto per The Ranch invece è compassatissimo, per una serie che va via lentissima per tutta la sua vita e che ha una spaventosa staticità. Ne esce una serie di chiacchiere, parole, blateramenti, con attori sempre immobili, inquadrature sempre uguali, in cui le azioni sono solo raccontate, mai viste. 
Oltretutto il livello delle battute, già mediocre nella prima stagione, è diventato alla lunga disastroso, perché Masterson ripete sempre le stesse tre-quattro cose stancando, perché Kutcher ripete il personaggio del bambinone e perché (come avrebbe detto Sandra Mondaini) non succede mai niente.
Alla lunga l'idea degli autori è stata addirittura di dare un tono drammatico al personaggio di Kutcher, mandando la serie completamente al baratro: l'ex modello non ha proprio l'espressività e la credibilità per questo ruolo. E oltretutto il "dramma" è risaputo (separazioni, figli) o addirittura di nullo interesse, perché oggettivamente a chi può interessare realmente un plot incentrato sulle mandrie in una serie tv in una piattaforma di streaming?

E in tutto ciò è disastrosa la presenza di una vecchia volpe come Sam Elliott, che diventa alla lunga l'unica fonte di "battute" per gli autori. Le battute? Deliri da nazionalista e vecchio bacucco che lo rendono completamente insopportabile, un vecchio petulante che a confronto Clint Eastwood in The Mule era di ampi orizzonti! 

Il risultato è una serie piuttosto imbarazzante, resa ancora peggiore dall'addio di Masterson, che era mediocre di suo ma almeno rendeva meno monotono il tutto: alla lunga viene rimpiazzato da Dax Shepard, che fa una figura piuttosto ridicola.
Lo schema delle puntate è quasi sempre lo stesso: litigio, ripensamento, litigio, riappacificazione.

L'unica cosa salvabile? Il sottofondo con la musica country, insolito e piacevole.
 
Incredibilmente questa roba è stata portata avanti per 80 puntate, spalmate in 4 stagioni.

Insomma, aspettiamo il prossimo tentativo di rilancio di Ashton Kutcher. Il quale sarebbe anche un personaggio non malvagio, ma che deve trovare progetti più sensati e meglio costruiti per nascondere qualche limite a livello attoriale: e soprattutto, se ti consideri un liberal-socialista e te ne vanti continuamente, cosa costruisci una serie così antiquata con ridicole e continue battute filo-repubblicane, soprattutto quelle imbarazzanti di Sam Elliott?

Voto: 1

giovedì 10 settembre 2020

Hearts Beat Loud: "Quando la vita ti presenta dei problemi, trasformali in arte"

Nick Offerman e Kiersey Clemson si esprimono alla grande in una commedia musicale a ritmi bassi ma capace di deliziare


Padre e figlia mettono in piedi una piccola band in concomitanza con la chiusura del negozio di dischi del primo e con la partenza per il college della seconda.

Nonostante un buon cast di contorno (Toni Collette, Sasha Lane, Ted Dawson e Blythe Danner), il film è tutto centrato nel gioco a due tra Nick Offerman e Kiersey Clemson, che dimostrano un'ottima chimica e la capacità di calarsi perfettamente nel ruolo, in un film che fa via a toni bassi, quasi sommesso, ma riesce a colpire con la sua delicatezza.
E' un film di disillusioni, con dentro l'accettazione di dover andare avanti nella vita, si saper chiudere alcune porte e strade impraticabili, con però la voglia di dare l'ultimo sussulto ai propri sogni.
Accompagnati da una buona colonna sonora (molto bella la title track cantata dalla stessa Kiersey Clemson) e da una sceneggiatura che non brilla certo per originalità ma che riesce a esprimere bene il tema trattato, i due attori protagonisti (che peraltro entrambi hanno un passato in serie tv sfacciatamente comiche) si calano con totale serietà in una commedia musicale che, nonostante la presenza di Offerman, non ha alcun picco di umorismo, mostrando così una dimensione diversa per l'ex attore di Parks and Recreation, che convince molto in questo ruolo molto serioso. Kiersey Clemson non solo risulta alla sua altezza, ma diventa forza motrice del film mostrando un'espressività e anche una dolcezza nell'interpretazione non da poco.

Hears Beat Loud finisce così per essere un "piccolo" film ma con una grande anima, sincero nel proprio racconto, capace di non scivolare in pietismo e in eccessiva nostalgia, ma raccontando una necessità di cambiamento come nuovo capitolo di vita con buon tatto e sensibilità. E sono proprio queste caratteristiche che lo rendono un film parecchio delizioso, da vedere assolutamente.
Perchè "Quando la vita ti presenta dei problemi, trasformali in arte".

Voto: 8

lunedì 7 settembre 2020

Boris: cult assoluto

 Si rasenta la perfezione



Non è un'iperbole: Boris è la migliore serie tv mai partorita in Italia.
Pungente, dissacrante, con gag sempre riuscite e personaggi entrati già nella storia. Un cast funzionale con attori che, esaltati da uno script magnifico, tutti si esprimono a livelli irripetibili per loro. E un uso incredibilmente sapiente delle guest star, non una di queste piazzata senza una decisa funzionalità nelle varie puntate (su tutti, un Giorgio Tirabassi devastante in ogni apparizione).
Una serie persino avanti coi tempi, tanto da essere più attuale adesso di quando è uscita. Se era già bellissima a una prima visione, a rivederla più volte è diventata un cult. Strepitosa.
Impossibile non ricordare una marea di momenti memorabili: "Il gioielliere"; i tormentoni di Martellone; gli sceneggiatori; "Cagna maledetta"; Guzzanti che tortura lo stagista; gli sfoghi di Renè Ferretti (tra cui l'epico "viva la merda!").

Voto: 10

Un'insolita missione: film misconosciuto ma divertente

Film dimenticatissimo ma da ripescare. Si segue l'inflazionatissimo genere dell'heist movie in salsa comica, ma è la messa in scena a fare la differenza. Steve Coogan è un eccellente protagonista e spesso induce alla risata con la sua sola espressione e la sceneggiatura mischia bene la demenzialità all'americana con lo humor inglese.

 
 
 
C'è sempre un gusto superiore quando capita tra le mani un film completamente dimenticato per accorgersi che è un film godibilissimo che sarebbe da ripescare, piuttosto che mandare in onda nelle varie tv (generaliste o specializzate) certi film pattume che si vedono però continuamente.

"Un'insolita missione" (titolo italiano banalissimo che non aiuta certo il film a distinguersi dalla massa, molto più efficace il titolo originale "The Parole Officer" che evidenzia il mestiere del protagonista) è un film riuscito, pur infilandosi nel panorama piuttosto inflazionato degli heist movie rivisti in chiave comica per protagonisti dilettanti e per certi versi cialtroneschi.
A piacere molto è come viene affrontata la comicità, che di base punta al demenziale all'americana, ma che viene riletto con gli occhi del ben più raffinato humor all'inglese, in alcuni casi anche discretamente ricercato, un mix che riesce bene per un film che ha davvero pochissimi cedimenti.
In questo quadro sono davvero poche le gag sbagliate (grossolana quella delle montagne russe) e pochi i momenti di pausa (un po' a metà film quando viene elaborato il piano), mentre il film si mantiene di buon ritmo e riesce a far ridere parecchio anche nel caotico finale, piazzando gag assurde a livello visivo e qualche finta frase a effetto davvero riuscita (su tutte la divertente lotta usando la cartelleria da ufficio, seguita da un "non provocate mai un impiegato").

Buono il cast, con un protagonista straordinariamente azzeccato in Steve Coogan, anche autore del film insieme a Henry Normal, molto abile nel riportare con naturalezza sullo schermo il classico protagonista da film comico con le sue goffaggini e e i suoi imbarazzi (in tal senso il prologo è già divertente, con Coogan che scivola dalla sedia e finisce per vedere da sotto al tavolo le gambe della segretaria e rialzandosi prova a giustificarsi con un imbarazzato "non ho visto niente, solo la minigonna" e una delirante dissertazione su come per lui le minigonne siano più igieniche dei pantaloni, devastante!). In alcune parti basta soltanto guardarlo in faccia per ridere, ma anche i suoi gesti provocano ilarità, basti vedere la scena del museo dell'arte sessuale, con la statua della fertilità con il pene gigantesco che Coogan involontariamente stacca: la compagna lo riattaccherà con un chewing gum, ma il pene subito dopo finisce per girare verso il basso sotto gli occhi della successiva coppia di visitatori, con la comparsata di un allora sconosciuto Simon Pegg.
Diverte parecchio anche il ladro pauroso (e che soffre di vertigini) di Ben Miller, mentre come guest star da sottolineare la presenza nientemeno che di Omar Sharif.

Voto: 8

domenica 6 settembre 2020

Thanks! Disgustosa cretinata (prodotta dal solito Luca Barbareschi)

Film spazzatura. Il tentativo dichiarato di fare del "politicamente scorretto" all'italiana riesce soltanto ad avvalorare la forza educativa del linguaggio del politicamente corretto: perché i risultati sono disarmanti. 

 

Pura spazzatura, ennesimo imbarazzante "regalo" fattoci dall'insopportabile Luca Barbareschi, qui in veste di produttore.
Il tentativo dichiarato di fare del "politicamente scorretto" all'italiana riesce soltanto ad avvalorare la forza educativa del linguaggio del politicamente corretto: perché i risultati sono disarmanti. A parte la fastidiosa recitazione forzatamente sovraeccitata e sopra le righe, i risultati sono disarmanti per il testo e per il linguaggio, con delle espressioni che vorrebbero essere "cattive" e che invece sono unicamente di cattivo gusto, con razzismo di ogni genere spalmato lì in ogni dove. L'unico risultato è di mantenere il film a livelli bassissimi e di rendere difficilissima la visione allo spettatore, a meno che si sia abituati alla tv alla Barbara D'Urso o alla Mario Giordano, al linguaggio dei bifolchi senza cultura alla Pio e Amedeo: per gli altri ogni battuta è una stilettata ai neuroni. Un film che è più che brutto e da evitare: è un film cretino.

venerdì 4 settembre 2020

Perdiamoci di vista: un grande film da rivalutare

Il film di Verdone più sottovalutato: riesce a essere sia pungente che sensibile, sceglie come spalla una Asia Argento clamorosa (mai più vista a questi livelli) e regala un film che scorre senza vere e proprie lacune, riuscendo a trovare gli sbocchi per far sorridere ma anche riuscendo a essere amaro e riflessivo in maniera decisamente convincente


Alcuni film del Verdone degli anni '90 ottengono un giudizio un po' più alto di quanto meriterebbero, per la pulizia della scrittura e la capacità dell'autore romano di distinguersi sempre e comunque in un panorama della commedia italiana che contemporaneamente andava in declino (e di conseguenza in crisi nerissima).
"Perdiamoci di vista" invece è un caso particolare, visto che un po' ovunque il giudizio è smorzato, appena sufficiente, rendendolo palesemente il film di Verdone più sottovalutato: perché in realtà è uno dei suoi migliori film in assoluto.

In quest'opera infatti viene raggiunta una scrittura completa senza momenti di cedimento che probabilmente Verdone non raggiungeva più dai tempi di Compagni di Scuola, per un film che scorre benissimo con dei picchi ma senza alcuna caduta. Come se non bastasse, viene centrato un mix di emozioni non indifferente, che quasi sarebbe da ricollocare all'interno della migliore tradizione della commedia all'italiana: sì, perché in "Perdiamoci di vista" ci sono momenti in cui si sorride, in un quadro generale molto amaro e riflessivo, trovando una sensibilità di scrittura non indifferente.
Come se non bastasse, Verdone non sempre (specialmente nei film successivi) è riuscito a trovare una spalla femminile all'altezza in grado di esprimere al meglio le sue idee per quel determinato film: qui si affianca ad Asia Argento, la quale con la sua interpretazione non fa che confermare quanto di buono ci sia in questo film. Sì, perché la figlia di Dario (che sul set sarebbe diventata maggiorenne) interpreta il personaggio della paraplegica con una sensibilità e una emotività splendida: vedendola qui si penserebbe agli albori di una grande attrice, purtroppo invece Asia non si avvicinerà mai più a questo livello recitativo e se la si vede così convincente e così emozionante ha tanti meriti lei in prima persona, ma evidentemente devono esserci dei meriti enormi da parte di chi ha diretto questo film.

Personalmente di questo film mi piace tutto, ogni sfaccettatura. All'inizio Verdone è eccellente nei panni del cinico e squallido conduttore della tv del dolore che senza vergogna ruba e manda in onda le immagini di una ragazza morta suicida, poi inizia via via a sensibilizzarsi nel rapporto ad alti e bassi (ma meno repentini e meno irreali del solito) con il personaggio di Asia Argento, mostrando un tatto notevole: perché il film riesce a essere a suo modo commovente, evitando in ogni modo la strada della facile lacrimuccia melodrammatica.
E sono azzeccati anche tutti i personaggi di contorno, tra cui va ovviamente sottolineato Aldo Maccione, che propone a Verdone un programma squallidissimo dal titolo "Galline da combattimento", in cui spadroneggia l'ospite Angelo Bernabucci ("Aho che m'hai preso per Zoro?"): scena incredibile perché nel suo tentativo di esagerazione surreale, Verdone ha sostanzialmente anticipato la tv trash di questi tempi andando clamorosamente vicino ai toni e al linguaggio orripilante che ammorbano troppe trasmissioni Mediaset, Rai e di ogni altro canale tv.
Infine, cosa che non sempre accade nei lavori del Verdone maturo, in questo film sono evitate tutte le possibili parentesi futili, scorrendo così senza lacune.

Per questo, andando probabilmente controtendenza, per me questo è uno dei migliori film di Verdone.
Voto: 9

giovedì 27 agosto 2020

La Compagnia (amore e dolore al Billionaire).

  

Di Mogol-Battisti-Briatore
LA COMPAGNIA (amore e dolore al Billionaire).
Canta Flavio Briatore.

 

Mi sono alzato
Mi son vestito
E sono andato in disco in disco senza mascherina
Ho ballato a lungo con qualche ex Letterina
Finché ho sentito qualcosa che non va
Finché ho sentito qualcosa che non va

Canzoni e fumo
Ed allegria,
Io ti ringrazio contagiosa compagnia
Non so nemmeno chi è stato a darmi il germe
Ma so che mi sento più caldo di un verme
So che mi sento più caldo di un verme

Contagiositàààà
Ho preso il virus e adesso più non se ne andrà
Il coviddi è quaaaaa
E una stanza al San Raffaele mi aspetterà

Abbiam bevuto, e poi ballato
È mai possibile che tu mi abbia già contagiato?
Eppure ieri il coviddi non era nell'aire
Ed oggi piange di dolore il Billionaire
Oggi piange di dolore il Billionaire... 

Virus Coronaaaaa,
Ti ho preso ieri e oggi mi ritrovo qua
L'ereditààààà,
Se nun me ripijo alla ventenne finirà!

Contagiositàààà
Ho preso il virus e adesso più non se ne andrà
L'ereditààààà,
Se nun me ripijo alla ventenne finirà! 

Il segreto del giaguaro: instant movie totalmente sbagliato

Film sballatissimo, che prova a essere trash (non riuscendoci), con Piotta che non ha il carisma per reggere il film e con una regia di Antonello Fassari di livello disastroso.




Film sballatissimo che buca ogni possibile obiettivo.
Si vede subito che è uno sfacciato tentativo di costruire a tavolino un film trash: e proprio questo per definizione lo rende quanto di più distante da un film trash.

E' un instant movie che prova a quantificare a livello monetario il successo clamoroso della devastante e irripetibile hit "Supercafone" buttando come uomo copertina Tommaso Zanello aka Piotta, il quale (pur essendo solitamente simpatico) si vede subito che non è portato alla recitazione. Gli autori si accorgono che non ha la naturalezza prevista e allora buttano lì un tentativo di coralità, che però avrebbe bisogno di una mano esperta e solida in regia. Qui invece a dirigere è Antonello Fassari, che mostra una sciatteria e una clamorosa incompetenza, combinando un disastro colossale: non a caso a oggi (a 20 anni di distanza) rimane la prima e unica regia dell'ex Avanzi.

Si susseguono un numero enorme di volti noti, peraltro mai sfruttati bene: da Lando Buzzanca (triste la scena in cui acquista il viagra in farmacia) a Isabella Biagini, passando per Gianni Ciardo e Ugo Conti (ben prima di riscoprirsi... ehm... "opinionista sportivo" nel trashiume di Biscardi Jr a 7Gold), ma nessuno ci crede. Appare anche un numero enorme di rapper della scena romana e non solo, discretamente noti per i fan del genere di quel periodo (prima che macellai del microfono e trapper lo uccidessero), ma sono nulla più che ospitate amichevoli: su tutti lo spazio maggiore se lo ritaglia lo sfortunato Primo Brown dei Cor Veleno, deceduto nel Capodanno del 2016 a soli 39 anni.

Le scene sono appiccicate a casaccio, mostrando solo il lato peggiore del cinema italiano, con le donne trattate con una pesante misoginia e con una scrittura palesemente improvvisata e affrettata, che rende così il quadro di nullo interesse e di livello umoristico totalmente inesistente. Il continuo citazionismo, in particolare nei riguardi della cultura pop anni '70, poteva anche essere simpatico ma aveva bisogno di una costruzione diversa.
Film che così che risulta sbagliato a 360 gradi e da lasciare nel dimenticatoio.

Voto: 1

martedì 25 agosto 2020

Six Feet Under: serie dalla qualità altissima

Grande serie tv che riesce ad analizzare gli aspetti drammatici di una famiglia disfunzionale con una straordinaria lucidità



Six Feet Under è la morte vista come metafora di tutto ciò che può accadere nella vita.
La morte che circonda ogni attimo di esistenza di una famiglia decisamente disfunzionale ma che non si trova che ad affrontare situazioni che possono toccare ogni famiglia normale.

Se nella prima stagione la strada intrapresa è quella del mix tra black comedy e drama, col passare del tempo il creatore Alan Ball tralascia completamente il primo genere e punta del tutto sul dramma, ma usandolo in modo lucido. Senza mai cadere nel melodramma e nel pietismo. Non mancano i momenti toccanti e forti, ma tutto è gestito con un gran tatto.

E' una serie che procede continuamente a ritmo compassato, lasciando da parte ogni genere di spettacolarizzazione gratuita e non avendo bisogno di cambi di passo per intrattenere e portare lo spettatore ad appassionarsi. E' la scrittura a fare la differenza. Una scrittura che sa analizzare con tatto estremo non solo il tema della morte, ma anche tutti gli altri che arrivano trasversali: il dolore, la depressione, ma anche il riconoscere la propria identità sessuale e la propria omosessualità, la crescita adolescenziale tra cattive amicizie e droghe, le compulsività.
Il mezzo del dialogo con i cadaveri altro non è che il rigurgito dell'inconscio, coi vari personaggi che così si ritrovano ad affrontare frustrazioni, paure o pulsioni che vorrebbero reprimere.

Quasi ognuna delle 63 puntate che compongono le cinque stagioni inizia con una morte, che nel 99% porta lavoro alla famiglia protagonista, proprietaria di un'agenzia funebre. Ben presto però la routine dell'agenzia in sé (pur con i Fisher che devono affrontare la concorrenza o i cambi di gestione) passa in secondo piano, perché è l'evoluzione dei personaggi a interessare ad Alan Ball.

Iniziando da Nate, il "cavallo di ritorno" che si ritrova (suo malgrado) di nuovo inglobato nella casa in cui era cresciuto e a gestire l'agenzia familiare visto che nella prima puntata il padre viene a mancare per un incidente stradale. Il personaggio interpretato dal buon Peter Krause (sicuramente al ruolo migliore della carriera) ha forse il percorso più impervio nel corso delle stagioni, con l'attore del Minnesota bravo a mantenere un'aria stralunata ma non banale.
Chiave è il personaggio di David, rimasto con la famiglia a gestire l'azienda e (inizialmente all'insaputa della famiglia) omosessuale, interpretato in maniera superba da un grande attore a livello televisivo come Michael C. Hall, che seguirà il successo di questa serie con il ruolo di protagonista in Dexter (quindi sostanzialmente nelle serie tv è stato in entrambi i lati del decesso).
Se personale e fragile è la visione del dramma della madre Ruth (Frances Conroy), a crescere come un diesel nel corso delle varie stagioni e ad avere un bel percorso di personalità è il personaggio della sorella minore Claire, interpretato in maniera superba da Lauren Ambrose: sorprende che questa attrice sia parecchio sparita dai radar dopo questa serie.
Ma nella ottima coralità della serie non sono secondari i personaggi dell'ispanico partner nell'azienda, della compagna di Nate e del di lei fratello con problemi psichiatrici, per una serie profonda e importante nella complessità di scrittura.

La qualità delle stagioni è costante e alta e inoltre (a differenza di tante serie tv) la chiusura è davvero strepitosa, con una meravigliosa sequenza (senza anticiparne i temi ovviamente) di sei minuti di pura classe: sei minuti in riferimenti al Six del titolo, ovviamente.

Voto 8,5

martedì 11 agosto 2020

Unbreakable Kimmy Schmidt: Kimmy vs il Reverendo. Spassoso film interattivo

Secondo tentativo interattivo di Netflix, anche questo interessante e riuscito nonché parecchio divertente, con 18 finali alternativi (e un "middle name" che cambia a seconda delle scelte)

Dopo il primo tentativo con Black Mirror: Bandersnatch, Netflix ripropone l'espediente del film interattivo (ma ovviamente interattivo in modo "pilotato"), stavolta puntando molto più sul giocoso (per quanto il serioso Bandersnatch avesse la sua ironia di fondo) con una sorta di spinoff della serie tv Unbreakable Kimmy Schmidt, serie che parlava dell'adattamento difficoltoso di una ragazza che aveva vissuto per anni rinchiusa in un bunker perché sequestata da un delirante Reverendo.
Se la serie tv alla lunga si perdeva perché troppi personaggi secondari diventavano macchiettistici, mentre le cose migliori si erano viste nelle prime due stagioni soprattutto per le azzeccate gag sull'incapacità di Kimmy (una Ellie Kemper brava nel riportare l'ingenuità e l'estraniamento della ex reclusa) di comprendere la cultura pop, questo film interattivo appare mediamente più elevato a livello qualitativo, perché si vede che gli autori hanno studiato più a fondo le varie situazioni.
A guadagnarci è soprattutto Tituss Burgess, che nella serie aveva momenti ottimi alternati a cadute di tono, ma che invece in questo film azzecca molte più battute e rende godibili quasi tutti i riferimenti pop (in particolare il tormentone su Mark Wahlberg è piuttosto spiritoso).

Le situazioni demenziali non mancano, vedi l'attesa dello Uber per 4000 minuti, il viaggio lentissimo in trattore in piena notte e la delirante evasione del Reverendo (da vedere in entrambe le opzioni) e a rendere alto l'interesse non è solo la curiosità per l'utilizzo dell'interattività, ma anche uno script che riesce a portare più volte al sorriso.

Oltretutto, a impreziosire il progetto è la presenza di due attori di qualità. Jon Hamm era la cosa migliore della serie tv nei panni del Reverendo e si conferma splendidamente gigionesco nel film, per un ruolo che sembra calzargli incredibilmente bene. Novità rispetto alla serie ma guest star di lusso è Daniel Radcliffe, con l'ex Harry Potter che (come in Miracle Workers) dimostra di sapersi mettere in gioco e di avere una dose notevole di ironia in grado di innalzare il livello del film. Tra le chicche del film, tra varianti delle scelte interattive il secondo nome del suo personaggio può essere Eurythmics o Bono. Devastante anche il cameo di Johnny Knoxville, esercente che dimentica la figlia piccolissima in negozio e che poi le chiede (in una delle opzioni disponibili) se vuole giocare con il suo accendino.
Chiaramente l'espediente dell'interattività è ancora in fase sperimentale, ma come in Bandersnatch si conferma insolito e interessante: la stramberia di questa serie si presta anche meglio del previsto al giochino e questo espediente è assolutamente da riproporre.
In questo caso i finali alternativi totali (tra cui sono però considerate le scelte "sbagliate" che ti portano immediatamente indietro) sono 18: se ci si fa prendere dal gioco, la curiosità di vederli tutti c'è sicuramente.

Voto: 8

domenica 9 agosto 2020

Sono morta... e vi ammazzo: "sono stato colpito... da una forchetta!!"

Film di una bruttezza surreale ed esilarante, sicuramente tra le più grandi schifezze mai prodotte sulla faccia della Terra. Imperdibile per i cultori dei film brutti.


1989. Nello stesso anno in cui Rob Reiner le affiderà un ruolo piuttosto importante in Harry ti presento Sally, le ristrette economiche causate soprattutto dall'abuso di cocaina convincono Carrie Fisher ad accettare la partecipazione a questo delirante B-movie, che per certi versi passa alla storia come l'unico film della sua vita in cui verrà accreditata come prima protagonista.

Il motivo per cui questo film è passato completamente sotto silenzio (ma da noi è recuperabile su Prime Video) è presto detto: è una catastrofe allucinante.

Appena arrivata nella nuova casa insieme al marito (Robert Joy, autore di una performance schizzatissima), la Fisher viene uccisa in un maldestro tentativo di rapina e riappare davanti agli occhi dello smidollato congiunto sotto forma di fantasma e lo spinge a una assurda vendetta con gli autori dell'assassinio.

La strada intrapresa non è però quella classica del revenge movie, ma si cerca una tremenda linea comica, che in un film scritto con i piedi ma recitato e diretto peggio crea un mix devastante.

Basti vedere la scena in cui la Fisher riappare davanti a Robert Joy, con un duetto di devastante comicità involontaria in cui lui le chiede come si stava nella tomba ("sei comoda?") e lei si lamenta per il vestito ("da battona") che le hanno messo, che per giunta non si abbinava col colore del trucco. Recitato in un modo accettabile, potrebbe essere un dialogo anche realmente divertente, ma se la Fisher appare completamente fuori forma, è la recitazione petulante di Joy a portare il film nel baratro.

A contribuire alla surreale non riuscita del film anche Matthew Cowles, che paga il dover interpretare un personaggio troppo stupido e demenziale come quello del vicino di casa che finisce (non si sa perché) per aiutare Joy nella vendetta.

Col passare dei minuti si evidenzia sempre di più una sceneggiatura che non sa che pesci pigliare a l'amatorialità del progetto, con teste di manichini che volano creando un effetto terribile, poliziotti completamente incapaci di comprendere circostanze ovvie e via dicendo, per quello che è possibilmente uno dei film più brutti mai prodotti sulla faccia della Terra. Vedere per credere: i culturi dei film brutti avranno pane per i loro denti al suon di "sono stato colpito... da una forchetta!!".

Perché è impossibile restare seri al cattivissimo che sbraita "mi stai a sentire brutto fottuto schifosissimo maledetto bastardo?" e la Fisher che lapalissiana afferma "mi sembra arrabbiato!".

Epicamente insulso!

mercoledì 5 agosto 2020

Acqua e sapone: soggetto blando ma Verdone in grande forma

La prima parte del film è spumeggiante e a tratti irresistibile con Verdone (in forma e a pieno nel personaggio) a imperversare e a colpire in ogni scena, poi inizia l'empatia con la Hovey (bellissima ma gelida) e il film inizia ad affievolirsi, fino a un finale discreto ma nulla più. 


L'istintiva e naturale carica di simpatia che avvolgeva il primo Verdone è la vera ragion d'essere di "Acqua e sapone", commedia romantica tenera ma un po' ingenua nel proprio sviluppo, che però a quasi 40 anni di distanza resta piuttosto piacevole da vedere.

Il merito è tutto di un Verdone in ottima forma, assolutamente immedesimato nel proprio personaggio e in grado di garantire anche nei momenti di calo del film quelle espressioni facciali che permettono allo spettatore di continuare a seguire le vicende con il sorriso, anche se non esattamente con l'interesse massimo (proprio per l'ingenuità della vicenda).

La prima parte del film è spumeggiante e a tratti irresistibile con il romano a imperversare e a colpire in ogni scena, anche grazie ai duetti con l'immensa Sora Lella, assolutamente irresistibile in ogni suo intervento nella pellicola (questa interpretazione la portò a vincere il David di Donatello come miglior attrice non protagonista). Per 40 minuti si vola alto, con momenti comici di ottimo livello, come quando Verdone deve trovare qualcosa da mettersi per cammuffarsi da prete prima del volo per Milano e si trova a dover rubare un abito a un cadavere, sfilandogli i pantaloni mentre la vedova lo piangeva, un momento strepitoso come quello in cui alla ragazzina che gli chiede cosa sia l'ATAC risponde dicendo che era l' "Associazione Teologica Amici di Cristo".

Poi però arrivano le esigenze di un soggetto non eccezionale e il personaggio di Verdone deve empatizzare e interagire con quello di Natasha Hovey, la quale appesantisce un po' il film anche per la propria presenza visto che pur essendo di una bellezza incredibile ("da ragazzina" davvero) appare completamente gelida nella recitazione e poco portata ad avere quella verve che un film del genere necessiterebbe. Il film inizia ad affievolirsi, ci inserisce una moraletta sull'invasività dei genitori delle giovani star che però non appare molto convinta, e se le cose non precipitano i meriti sono tutti di Verdone, comunque in grado di far sorridere per tutto il film, fino a un finale così così.

Antitesi del Verdone simpaticissimo è Fabrizio Bracconeri, che appare irritante e insopportabile: perlomeno essere irritante e insopportabile come attore era un conto perché non faceva danni, come invece fa adesso spacciandosi per politicante con dei deliri allucinanti. Per Christian De Sica e Michele Mirabella invece piccole apparizioni senza lasciare traccia, un po' come quella di Jimmy Il Fenomeno.

Voto: 7

Nemiche amiche: melodrammone prolisso

La Hollywood di plastica e delle facili emozioni perfettamente enfatizzata in questo polpettone indigesto.


Nemiche amiche è uno di quei tipici film di Hollywood che danno la totale sensazione di essere preconfezionati a tavolino per cercare la via del comodo melodramma, lasciando invece solamente un amaro retrogusto di plastica e dimostrando di essere prodotti senza anima.
Si cercano tutte le vie possibili (il bimbo che si rompe la gamba, il cancro della madre, ecc) per cercare la lacrimuccia facile, ma il lavoro di fondo è mediocre, con la psicologia dei personaggi (e non solo quella dei bambini, che per la maggior parte del film appaiono insopportabilmente petulanti) che cambia come niente da una scena all'altra senza apparente motivazione: un momento si chiariscono, quello dopo pronti di nuovo a scannarsi, "così de botto senza senso" come direbbero gli sceneggiatori di Boris.
Magari un prodotto del genere può anche essere aprezzato da un certo pubblico di bocca buona (quello pronto a commuoversi con la tv del dolore o con i reality), ma per tutti gli altri la profondità inesistente dei dialoghi e tutti questi mezzucci pseudo-drammatici portano unicamente alla frustrazione.

In tutto ciò Ed Harris (che apparentemente è il volto perfetto per l'ipocrita americano medio) ci sguazza perfettamente, così come in regia il nome perfetto è quello di Chris Columbus, mestierante che è quasi specializzato in questi film fatti alla buona.
Si vorrebbe salvare la professionalità delle due protagoniste, che è l'unico motivo per cui il film non crolla totalmente, ma Susan Sarandon (peraltro probabilmente alla performance recitativa peggiore della illustre carriera) e Julia Roberts sono non solo i volti di questo filmaccio ma ne sono anche artefici essendone produttori esecutivi.

E allora via, due ore e passa di melassa insopportabile che fanno rimpiangere il fatto che la Sarandon e la Roberts non fossero state realmente nemiche: magari se avessero continuamente litigato durante la produzione di questo film, non ci saremmo sorbiti questo polpettone indigesto.

Voto: 3