_______________________________________________

_______________________________________________

giovedì 30 aprile 2020

Parasite: cocktail di generi riuscito molto bene

Congeniato alla perfezione e senza reali difetti, Parasite è un film che merita il successo ottenuto.


Chi conosce un minimo la mentalità americana sa bene che per loro ciò che avviene oltre i loro confini (a meno che sia qualcosa che può arricchire le loro tasche) non esiste, non è importante e non è degna di considerazione, per la loro megalomania gli Stati Uniti rappresentano l'intero mondo. E' un discorso che vale in tutti i campi, dall'arte allo spettacolo, dalla politica al campo che personalmente conosco meglio, ovvero quello sportivo. Il basket? Per loro esiste solo la NBA e il college, il fatto che ci sia una lega di alto livello come l'Eurolega a loro non importa. E poi si sorprendono che arrivi un Luka Doncic a dominare (dopo che loro stessi, in modo tragicomico, gli imputavano come difetto il fatto di non aver giocato al college). Il baseball? Per loro esiste solo la MLB e il loro orticello, il fatto che ci siano leghe di altissimo livello come la Nippon League a loro non importa. E poi si sorprendono quando un Shohei Ohtani arriva e brilla come fosse niente sia a lanciare che a battere (dopo che loro lo descrivevano come battitore indegno persino della single A).
Per questo Parasite prima ancora di vederlo è un documento fondamentale, perché sfonda un muro epocale: il fatto che un film in lingua non inglese vinca l'Oscar come miglior film è una cosa clamorosa. Per cui, a parte che il tam tam su questa pellicola era già grosso prima della notte degli Oscar, Parasite è un film assolutamente da vedere anche solo per capire cosa ci fosse da piegare così il dna degli americani, cosa li ha potuti affascinare.

Si tratta di un capolavoro da far entrare nella storia del cinema? Su questo a livello personale non so mai giudicare, tanto che spesso i "miglior film" anno per anno a me non aggradano parecchio, con tutta onestà affermo con modestia che non ho la cultura cinematografica per esprimermi fino a questo punto. Ciò che posso dire con certezza è che ci si trova di fronte a un gran bel film, una visione assolutamente piacevole, 130 minuti di pellicola che scorrono benissimo.

A piacere molto è non solo la cura tecnica (eccellente la regia, splendida la fotografia), ma è soprattutto la capacità di cambiare registro più volte da un momento all'altro in modo naturale, senza alcuna pausa o senza alcuna forzatura, tanto da toccare via via più generi.
Si inizia come una commedia della disperazione (la famiglia Ki che vive nello scantinato), si entra poi nel meccanismo della truffa (la famiglia Ki che riesce a infiltrarsi nella villa da sogno), poi da un momento all'altro durante il campeggio dei Park tutto precipita, l'ingresso nel bunker (ripreso in maniera eccezionale) ha quasi una venatura horror, si entra nel pieno del thriller ma con un gusto sarcastico che ricorda la migliore black comedy. Tutto con un sostanziale retrogusto drammatico, che poi trionfa nel caos finale.
Tante volte il voler toccare così tanti tasti rende i film indigesti, perché non sempre c'è il gusto che ha Boon Jo Ho nel saperli gestire: in questo Parasite è assolutamente un film da vedere come punto di riferimento.

Apparentemente nulla è fuori posto, la vicenda intriga, appassiona e scorre benissimo. E le facce sembrano quelle giuste, su tutti mi hanno fatto impazzire le espressioni di Woo-sik Choi (il figlio dei Ki), ma anche un paio di smorfie facciali di Kang-ho Song (su tutte quando è in auto con alle spalle la ricca padrona di casa al telefono) diventano memorabili, mentre forse l'unico minimo difetto dell'intero film è il fatto che alla lunga la figlia dei Ki (che inizialmente è la fondamentale regina della falsificazione) finisca per eclissarsi un minimo prima dell'ambaradan finale.

La questione sulla critica sociale, che ho visto ripresa da tanti, per me lascia il tempo che trova. Più che un tentativo di satira sociale, io penso che Parasite voglia descriverci una semplice contrapposizione tra povero e ricco, che in questo senso riesce in pieno. D'altronde è proprio la forza del film quella di lasciarci dentro la situazione più crudele senza perdere tempo in moralismi non convinti.

Curiosità finale: suona piuttosto strano in un film coreano sentire dal vinile la voce di Gianni Morandi cantare "In ginocchio da te". Peraltro pare che il regista avesse scelto questa canzone solamente per il titolo, per il fatto che in contemporanea i protagonisti si trovavano inginocchiati nel salone, non sapendo assolutamente nulla del testo. Una sorpresa all'interno di un film che però lascia molto più di questo nella memoria.

Voto: 9

domenica 26 aprile 2020

Balthazar: serie crime francese di alto livello

Cambiando un po' il tiro, il forte impatto emotivo nel genere crime francese rende Balthazar degno erede non ufficiale di Profiling


A quasi un decennio di distanza dall'arrivo di Profiling (dall'impatto iniziale deflagrante, ma che alla lunga ha il classico problema delle serie tv tirate un po' per le lunghe, ovvero l'essersi stabilizzata a un livello ancora buono e interessante ma ben inferiore da quello delle prime 4-5 stagioni), Balthazar rappresenta bella boccata di aria nuova nel campo delle serie crime francesi.
Due serie che magari a livello concettuale di fondo hanno anche qualche punto in comune. In Profiling a elevare il lavoro della squadra poliziesca era la criminologa/psicologa, mentre qui il medesimo impatto lo ha il patologo forense, il Balthazar del titolo, assoluto protagonista in una serie ben congeniata in tutti i personaggi ricorrenti.

Raphael Balthazar è però il traino in tutto e per tutto, soprattutto per la sua capacità di alleggerire il tono delle puntate con la battuta pronta, andando anche oltre al classico "umorismo da medico forense" tipico di parecchia letteratura. Non è un caso infatti che Tomer Sisley (l'attore protagonista) nasca come comico e cabarettista (addirittura ha vinto il Just For Laughs). Non conoscevo particolarmente Sisley prima di questa serie, ma viene da pensare che con Balthazar abbia fatto il salto di qualità interpretativo, risultando eccellente anche nelle parti drammatiche e nelle scene d'azione.

Le puntate sono tutte di buon interesse a livello investigativo e scritte in modo convincente, mantenendo una qualità alta e apparentemente in crescendo. Infatti, se già la prima stagione era stata interessante, nella seconda si ha la sensazione che gli autori abbiano capito esattamente la potenzialità della serie e abbiano trovato la forma perfetta. Anche a livello di indagine si possono trovare punti in comune con il primo Profiling, con il quale condivide pure una fortissima componente emotiva: in 10 puntate della seconda stagione, almeno tre lasciano senza fiato e creano forte empatia per lo spettatore.

Ci possono anche essere dei cliche usati, vedi la comandante di polizia Helene Bach (molto brava Helene de Fougerolles, la migliore a duettare a livello sarcastico con Sisley) con problemi privati di coppia, o vedi il dramma psicologico che pesa sulle spalle del protagonista Balthazar per la perdita della compagna, e si può dire anche che (un po' come succede in CSI - Scena Del Crimine) è irreale pensare che un patologo si trovi costantemente al centro dell'azione durante un indagine, ma sono compenenti su cui lo spettatore è disposto a chiudere volentieri un occhio se il risultato finale funziona così bene: se il prodotto funziona, sei disposto a lasciar correre certe invenzioni narrative.
Peraltro nell'abitudine di Balthazar di parlare con i cadaveri, soprattutto durante le autopsie (ma non solo, visto che parla abitualmente con la ex compagna assassinata), si può vedere anche un richiamo a Michael C. Hall in Six Feet Under, ma anche questo è fatto con gusto ed è funzionale al disegno psicologico del personaggio, molto fuori dagli schemi e per certi versi un po' squilibrato.

Il livello in generale è molto alto e la serie si fa guardare con assoluto piacere. Da vedere.

Ho perso la testa per un cervello: cult assoluto

Costruito su una marea di gag demenziali e con uno Steve Martin irresistibile capace di reggere da solo il film sulle proprie spalle. Da ripescare.


Se si parla di commedia americana del periodo anni '80-inizio anni '90 e si cita il cognome Reiner, probabilmente ai più verrà in mente Rob Reiner, regista che deve la propria fortuna non solo all'esser stato scelto per traporre in video uno dei migliori libri di Stephen King (Misery), ma anche per il sopravvalutatissimo Harry ti presento Sally, film con un paio di gag azzeccate e con una (ancora) simpaticissima Meg Ryan ma che altro non era che un tentativo poco brillante di appropriarsi dello stile di Woody Allen, a mio modo di vedere riuscendoci poco.
Per me (da buon bastian contrario in tutto) il regista degno di nota è il padre Carl Reiner, da alcuni addirittura considerato "mediocre" ma capace in una filmografia nemmeno tanto abbondante di dirigere due film di assoluto culto per il sottoscritto, la scatenata parodia dei thriller erotici tanto in voga a inizio anni '90 Fatal Instinct e questo Ho perso la testa per un cervello (che rende molto meglio nel titolo originale "The Man With Two Brains").

Carl Reiner in quel periodo era il regista fidato di Steve Martin, con cui fece quattro film tutti molto diversi: una commedia per certi versi più tradizionale (Lo Straccione), una parodia noir molto particolare e ricercata tanto da essere anche in bianco e nero (Il mistero del cadavere scomparso), questa folle e demenzialissima parodia fantascienza-horror e infine una commedia-fantasy (Ho sposato un fantasma, per me il meno riuscito dei film del lotto, con meno idee riuscite).

Il migliore dei quattro, quello che rende nel migliore dei modi il talento comico di Steve Martin è proprio Ho perso la testa per un cervello, film che sarebbe da recuperare in ogni modo e che purtroppo è stato invece dimenticato quasi completamente in Italia, tanto che non mi pare sia stato mai passato in tv nell'ultimo decennio né nelle tv generaliste né nelle pay-tv, nemmeno quelle che hanno le dozzine di canali dedicati solo al cinema, e che quindi passano e strapassano ogni cosa, si ricordano di una perla simile: a volte il mondo è misterioso.

Si parte subito a ritmi insostenibili, con i primi 10 minuti che piazzano una quantità incredibile di gag visibile e labiali e mettono in chiaro subito la volontà di dirigersi verso una comicità demenziale ma non stupida (dico sempre che bisogna essere intelligenti per fare vera comicità demenziale, cosa che negli USA negli ultimi 10 anni abbondanti proprio non riescono a capire). Storica la scena in cui Steve Martin (il dottor Hfuhruhurr e guai a pronunciarlo male!) se la prende con una ragazzina.
Poi si entra nel vivo della trama, un po' franksteiniana e un po' futurista, il film cala un po' di ritmo e prende più la strada della commedia di parodia, non dimenticando per le gag demenziali che mostrano un certo gusto anche per l'assurdo e l'irreale (Steve Martin che col parapetto crollato riesce ad aderire al muro semplicemente leccando le dita delle mani!).
Per poi rimettere con forza il piede sul pedale dell'acceleratore per un finale scatenato e devastante, che piazza anche un'altra scena assolutamente storica e indimenticabile quando Martin viene fermato dalla polizia e costretto a degli improbabili alcol test.

Il risultato è a mio modo di vedere quasi perfetto, un film capace di far ridere di pancia e con una certa continuità dall'inizio alla fine, per la capacità di creare quelle situazioni demenziali anche quasi in anticipo rispetto agli ZAZ (i muri della casa del dottor Necessiter, la polizia che chiede un ariete a una vicina di casa, ma sono davvero una marea le gag che sarebbero da citare) e per la capacità di sfruttare l'espressività e la verve di Steve Martin, tarantolato dall'inizio alla fine e semplicemente fantastico. Vedendolo a questi livelli, spiace pensare a quante volte il suo talento è stato annacquato e sprecato, con tanti film per famiglie o tanti film incapaci di liberare tutta la sua qualità comica (per quanto nella sua carriera siano parecchi i film godibili, forse solo un'altra volta ha potuto scatenarsi del tutto come in questa pellicola, ovvero in Bowfinger). Qui ci dimostra che con alle spalle sceneggiature migliori avrebbe potuto toccare livelli alla Leslie Nielsen, pur con uno stile diverso.

Resta un fatto: film come questo sono assolutamente da ripescare, è uno spreco che con tanta melma che passa continuamente sugli schermi un lavoro del genere venga dimenticato ad ammuffire.

venerdì 24 aprile 2020

La scomparsa di Alice Creed: gioco a tre ad alta tensione

Buonissimo thriller degli equilibri instabili.


Tre attori (per l'intera durata del film non si vedrà altra anima viva, se non una mosca).
Un paio di stanze (per il 75% del film l'azione è racchiusa in un unico ambiente).
Tantissima tensione.
A volta con una buona scrittura basta davvero poco per intrattenere.

La scomparsa di Alice Creed è un thriller che sputa in faccia allo spettatore diversi lati spregevoli del lato umano, quello che gioca coi sentimenti, quello che segna in modo disgustoso la psiche, creando un'azione claustrofobica da incubo non tanto per la violenza visiva (tutto sommato contenuta), ma per la violenza delle azioni.
Il film è un gioco a tre particolare, con ogni lato del triangolo (rappresentato dai due sequestratori e dalla vittima, quest'ultima ovviamente punto debole del gioco) che viene eviscerato in maniera distinta e separata: cosa lega i rapinatori alla Alice Creed del titolo?

A parte la volontà di piazzare i classici colpi di scena da thriller, quello che convince di questo film è la severità con cui la vicenda è mostrata, come uno schiaffo in faccia allo spettatore, senza filtri né veli dettati dal buonsenso.
Per riuscire un film del genere deve esserci una sceneggiatura più che solida, ma anche tre attori credibili. E tutti e tre lo sono. Forse a spiccare un po' di più è Eddie Marsan, che poi avrebbe raggiunto la fama televisiva (o via streaming, a seconda delle Nazioni) nel ruolo di Terry Donovan nella serie Ray Donovan: devo dire che in questo film è anche più convincente rispetto a quel ruolo che lo renderà noto ai più. Notevole anche Gemma Arterton, che per forza di trama è costretta al ruolo più difficile, con impossibilità di muoversi e costretta a puntare tutto sull'espressività, che è notevole.

Il gioco funziona e il film vale assolutamente la visione.

Voto: 8

giovedì 23 aprile 2020

La casa di carta. Serie nata per essere vincente

Si può dire che non tutto sia originale e geniale. Ma non si può opinare sul fatto che tutto sia realizzato benissimo. Grande serie.


Tralasciando alcuni superlativi che piacciono molto a noi occidentali (abbiamo preso dagli americani il vizio di etichettare tutto come la "migliore/peggiore cosa di sempre"), la vera definizione che si può dare alla serie La Casa Di Carta è quella di vincente.

Per certi versi, dietro questa serie c'è una certa furbizia, un voler appetire un numero piuttosto ampio di potenziali fan con ingredienti messi tutti ad hoc, a cominciare dalle parecchie "belle facce" di cui è composto il cast. E per altri versi è facile dire che tante componenti sono ben lontane dall'essere originali (ma bisogna considerare che ormai l'originalità è difficile da raggiungere, in tutti questi decenni è stato un po' provato tutto).
Però a rendere vincente La Casa Di Carta è la qualità della messa in scena, quasi tutto è messo lì nel migliore dei modi, per una serie tv che parte subito col botto e riesce a essere appassionante.

A essere vincente è anche la capacità di avere una leggera ironia di fondo (ai miei occhi è sensazionale il personaggio di Arturito, uno degli ostaggi nelle prime due stagioni) e quella di non essere monotona nel suo svolgimento, nel saper alleggerire la situazione all'interno di ogni puntata. Anche componenti spesso abusate in modo negativo, qua diventano efficaci e mi viene da pensare ai vari flashback (perlomeno quelli relativi al primo colpo, un po' meno efficaci quelli per il secondo colpo, soprattutto all'inizio della quarta stagione).

Tutto ciò si mischia alla ormai chiara capacità degli spagnoli di saper gestire meglio di chiunque altro il genere thriller: nelle prime due stagioni la tensione del colpo è sempre crescente e fa venire allo spettatore la voglia continua di sapere cosa può accadere nella puntata successiva.

Le prime due stagioni filano via alla grande e sostanzialmente le puntate sono tutte molto piacevoli, mentre (come peraltro era prevedibile, senza spiegare il perché per evitare ogni possibile spoiler) la parte relativa al secondo colpo (le stagioni tre e quattro) sono un gradino sotto, perché ripetere lo stesso impatto in una serie di questo tipo è complicato, anche se La casa di carta riesce benissimo a bissare la tensione e l'emotività nelle scene relative alla rapina, nelle parti da heist movie. Quella che funziona un po' meno nel secondo colpo è la continuità della varie puntate, per il semplice fatto che gli sceneggiatori avevano meno materiale per riempire le sedici puntate, per cui il minutaggio della terza e quarta stagione è un po' più annacquato, riempito da situazioni personali all'interno della banda che potevano essere benissimo dimezzate. Resta comunque alto il livello di intensità alla lunga: sia la terza che la quarta stagione partono con qualche affanno, ma chiudono molto bene.

Lo è anche forte dei personaggi che ormai sono familiari e che piacciono allo spettatore. Due su tutti, quello del Professore (architetto di tutti i piani) e quello della straordinaria Nairobi, per una scrittura di qualità anche nel tracciare la psicologia dei personaggi (soprattutto nelle prime due stagioni, anche su questo però c'è un leggero passo indietro nella terza e nella quarta stagione, con qualche forzatura comunque prevedibile).

Si può dire allora di tutto, che ci siano ispirazioni da tanti film di genere passati, che parecchio sia stato studiato "a tavolino", ma la serie è proprio ben fatta e alla fine piace e appassiona ed è quanto si chiede a un prodotto simile.

Voto: 9

domenica 19 aprile 2020

Torno indietro e cambio vita: girato in modo ridicolo

I Vanzina dovrebbero spiegarci come poteva funzionare la connessione internet dello smartphone nel 1990. Film con una marea di errori imbarazzanti.



"Se potessi tornare indietro cosa cambieresti?" dice la locandina: io ne sono sicuro, non guarderei i film dei Vanzina.
A parte la storiella a sapore pseudo-romantico che è della solita pochezza a cui ci hanno abituato i Vanzina (specialmente negli ultimi 20 anni), a far specie è proprio come è girato questo filmettino, con sbavature e sciocchezze indegne persino di una fiction.
Basta vedere solo il come avvengono i "salti nel tempo", come vengono inquadrati gli incidenti, a toccare il ridicolo, con i poveri Memphis e soprattutto Bova costretti a fare delle espressioni che non sarebbero credibili nemmeno se (esagerando) a farle fosse stato Al Pacino.
Ma il tutto ha un quadro di sciatteria e superficialità surreale, basti vedere la 18enne del 1990 che (con al muro anche il poster dei Duran Duran) alla radio mette Maniac di Michael Sembello: ok, non è detto che i ragazzini ascoltino per forza la musica attuale, ma girare questa scena nel 1990 e mettere come colonna sonora una canzone uscita nel 1983 è abbastanza ridicolo. Oppure per i Vanzina inciampare su uno zaino porta a una caduta che Bova stesso definisce "un mortale che sembravi 'a Cagnotto", una roba che va oltre il ridicolo (tanto che la strepitosa parodia dello splatter fatta dai Monty Phyton nel Flying Circus risulta molto più realistica).
E poi che dire di Memphis che gioca la schedina di fine Aprile del 1990 usando lo smartphone a leggere i risultati del futuro? Domanda: con quale rete sta usando internet mobile dal cellulare nel 1990? Ma davvero non c'è stato un produttore, un tecnico, un qualcuno che si sia posto questa domanda?!

A parte questi imbarazzi tecnici, il film è poca roba, una storiella risaputa a cui i Vanzina per provare a mettere un po' di verve aggiungono gag di una pochezza risibile (vedi il personaggio a cui viene dato continuamente del "cornuto").
Bova (che tra gli attori bellocci all'italiana è forse tra i meno peggio, si vede che ha difficoltà a essere brillante ed è troppo rigido ma perlomeno ci prova e non è un completo disastro rispetto ai vari Scamarcio o Garko) e Memphis (che si vede che ha mestiere, ma che ha bisogno di uno scritto differente per rendere in una commedia) fanno quel che possono, ma è piuttosto ridicolo anche il quadro, è surrealmente sciocco vederli grandi e grossi in mezzo ai 18enni senza che nessuno dica niente, cosa che invece riesce meglio a Giulia Michelini (a cui pure viene affibbiato un personaggio piuttosto ridicolo che rende difficile la sua recitazione), la quale nel 2015 andava sulla trentina ma che a livello di aspetto fisico è sorprendentemente credibile in mezzo alle amiche 18enni, risultando quindi l'unica cosa non totalmente fuori posto in questo filmaccio.

L'unica altra cosa buona è che il film duri poco e appaia leggero, non facendo pesare la propria visione, ma resta poco rispetto ai colossali difetti.

Voto: 1

giovedì 16 aprile 2020

In Bruges - La coscienza dell'assassino: sceneggiatura superba

Film scritto in modo talmente intelligente da essere serio e far ridere molto più di tanti film pseudo-comici.


Nel cinema come in tanti campi artistici e della vita ormai inventare qualcosa di nuovo è estremamente difficile. In tanti casi, tutto sta nell'usare un certo stile in ciò che si vuole proporre. In Bruges è l'esempio perfetto.
Probabilmente di originale in questo film non c'è assolutamente nulla, ma è scritto in un modo talmente ottimale che la visione è estremamente piacevole.
Dopo un inizio un po' lento che serve per introdurre e caratterizzare i due protagonisti, il film esplode soprattutto per la capacità di restare serio e allo stesso tempo riuscire a fare ridere e molto. Infatti è scritto talmente bene che riesce a far ridere molto più di tanti film pseudo-comici, rendendo così molto più intrigare vedere le vicende dei due sicari e capire per quale motivo sono finiti a Bruges.

E' tutto molto ben fatto, con ogni personaggio di contorno che finisce per avere un peso sostanziale (semplicemente strepitoso Jordan Prentice, "nanetto" spesso bersaglio del sarcasmo di Colin Farrell), con un umorismo mai grossolano o sguaiato ma lo stesso capace di strappare parecchie risate, passando agilmente dal black humor alla comicità surreale (strepitoso in questo il "duello finale").

Molto bravi i due protagonisti, in particolare Colin Farrell che alla lunga ruba la scena e che personalmente non avevo mai apprezzato così tanto come in questo film (memorabile la scena al ristorante, quando prima inizia a dire assurdità sul Belgio e poi mena il tizio al tavolo vicino al suon di "questa è per John Lennon, cazzone di uno yankee di merda").

Esempio ottimo di cinema intelligente e capace di sapersi prendere in giro.
Assolutamente da vedere almeno una volta.

Voto: 9

Non ci resta che ridere: elogio al facepalm

Alessandro Paci riesce a essere allo stesso tempo infantile e volgare: riuscire a far ridere è un altro paio di maniche però.


Come non bisogna giudicare mai un libro dalla copertina, non bisognerebbe mai giudicare un film dalla locandina, ma qui già si parte malissimo con l'emoticon stilizzata al posto della O per fare "locandina gggiovane". Quando poi l'unica emoticon che andrebbe utilizzata è quella del facepalm.
E' semplicemente incredibile che ancora adesso (questo film è del 2019) abbiano il coraggio di proporre film del genere, che sapevano di vecchio già negli anni '70.
Non è altro che un'accozzaglia di barzellette strariciclate, che non fanno mai ridere e che per giunta sono recitate da cani. Il fatto che pensino che alla gente possa piacere una boiata simile fa capire dell'opinione che questo Alessandro Paci ha del proprio pubblico (e probabilmente ha anche ragione: se ti piace Alessandro Paci vuol dire che sei messo parecchio male).

Il quadro è davvero incredibile da vedere, una miseria assoluta in cui la povertà totale di battute (a meno che vi facciano ridere le allusioni puerili sul sesso, perché qua si riesce a essere infantili pur essendo molto volgari) si accompagna a una tecnica cinematografica inesistente, inquadrature casuali, scene tirate per le lunghe (parecchie volte, prima di arrivare al succo della barzellettina c'è una premessa inutile inquietante per allungare il brodo della durata del film) e riprese indegne persino di un cineamatore.

Le donne? Per chi crea film del genere sono unicamente carne da macello da mostrare, oppure buone solo per fare le prostitute, quindi unico bersaglio di infantili battutine a scopo sessuale ("cosa hai chiesto a Babbo Natale?" "70 euro come tutti gli altri". Ah ah ah). Unica alternativa, la tipa che alla concessionaria delle auto si schifa perché l'automobile ha tre pedali mentre lei ha solo due gambe, perché nel 2019 fanno ancora queste battute: d'altronde per Paci & Co è questo il ruolo della donna nella società.
A confronto, film come I carabbinieri erano sceneggiati in modo illuminato e avevano una visione più avanzata della donna (e davvero per certi versi, restando in Serie B o meno era meglio vedere film di quel tipo che non questa roba).

Gli intermezzi di Ceccherini messia (Cecchù, ah ah ah) stanno lì solo perché Paci non aveva altre barzellette insulse da proporci e servono per aumentare il tono di imbarazzo.

Eppure c'è chi si diverte con questo: per la serie "Darwin, you were wrong".

Voto: 0

domenica 12 aprile 2020

Il primo Natale: banalità all'acqua di rose

Film sbagliato in partenza, incapace di far ridere e/o interessare. Completo disastro.


I grandi vuoti di sceneggiatura (esempio: Picone si accorge da un momento all'altro di essere nell'anno zero. Come? Ha visto il calendario?) diventerebbero un peccato perdonabile se ci trovassimo al cospetto di un film capace di divertire: d'altronde, se si vuole anche un film concettualmente paragonabile a questo (per il fatto che i due protagonisti senza motivo si trovano catapultati nel passato, non per altro) come Non ci resta che piangere aveva i suoi difetti di sceneggiatura, salvo però garantire un divertimento tale da permetterti di chiudere un occhio su ciò. Qua invece tutto questo si abbina a una regia sconclusionata e sciatta (ma perché in Italia un po' tutti gli attori comici si sentono registi, dall'alto di cosa?), incapace di imporre un ritmo accettabile.

In sostanza, ne Il primo Natale manca proprio la voglia di fare davvero ridere, le scene puramente comiche in 100 minuti di film sono due contate, per un lavoro che è proprio stato concepito male. Gli anacromismi fini a sé stessi non possono portare a nulla e lo si è visto più volte in alcuni film americani (su tutti Black Knight) e se non si ride si resta a guardare anche un po' imbarazzanti alle disavventure dei due protagonisti, senza che queste possano realmente interessare o affascinare. Un completo disastro di fondo.

Rattrista parecchio vedere Ficarra e Picone naufragare così, non avere da qualche anno più una verve comica, cosa che invece in passato rendeva accettabili alcuni loro film pur con tanti difetti presenti. In realtà Picone, che di recente non si era preso più nemmeno il ruolo di spalla ma faceva in sostanza la stampella di Ficarra, qui prova a elevarsi un tantino nella prima metà di film e a fare qualcosina, ma a mancare è proprio la vitalità di Ficarra, che invece di apparire irriverente in questa situazione si rivela stranamente controllato e quindi completamente spento. Sembra quasi che lavorare a Striscia La Notizia abbia ucciso anche la loro vis comica, come successo peraltro a parecchi altri negli anni (se ti abitui al fatto che certe idiozie fanno ridere un pubblico di bocca buonissima, allora pensi che limitarsi a questo possa bastare).

In sostanza il film non ha senso, specialmente considerando il numero delle sale in cui è uscito e per giunta in un periodo festivo: al massimo questo è un filmetto da produrre direttamente per la tv e di cui dimenticarsi dopo una proiezione, nulla più.

Tonfo prevedibile ma non per questo meno deflagrante.

Voto: 1

giovedì 9 aprile 2020

L'uomo senza gravità: bene per due terzi

Il film inizia ottimimamente, ha un bel finale ma si lascia andare in una fase centrale non all'altezza che rovina in parte il giudizio.


La sensazione che ho avuto guardando questo film è che chi lo ha scritto abbia avuto una grande idea di partenza, che abbia avuto chiaro l'idea su come dovesse concludersi la storia, ma non avesse chiaro in mente lo sviluppo centrale, perdendosi così in un già visto che intiepidisce in parte la soddisfazione della visione.
Perché il film ha momenti molto interessanti, anche molto belli, specialmente quando intraprende un tono surreale e favolistico, mentre c'è un certo tracollo nella fase più matura del film.

Si parte davvero molto bene, tutta la parte in cui il protagonista è bambino è scritta in maniera splendida, con un tatto notevole e descrivendo la sua vita con tratti da vera favola: quando un film è scritto bene, pur essendo adulti e vaccinati anche il tono favolistico (proprio a contrastare con la crudeltà della realtà) finisce per piacere molto. Tutta la prima parte, per quanto in apparenza leggerissima, ha la forza di entrare nell'animo dello spettatore e tutto scorre benissimo.

Di colpo poi il film ha un cedimento di schianto, tutta la fase centrale è troppo risaputa per convincere: il protagonista Oscar diventa un fenomeno da baraccone con uno spettacolino da niente che però lo porta ad avere successo, con a fianco un manager che sà tanto di Gatto e Volpe di Pinocchio in un solo uomo. Qua c'è un tentativo anche di critica ai media attuali (vedi il servizio tv totalmente distorto sull'infanzia del protagonista), ma risulta fiacco, al film manca la giusta incisività ed è un insieme di situazioni viste e straviste. Paradossalmente per la trama del film, il volto stranito di Germano (comunque non malaccio neanche in questa fase centrale) può poco per "risollevare" le cose.

Quando inizia a sorgere un po' di rammarico, ecco che il film ha una terza faccia, perché Oscar lascia il proprio manager (non vi anticipo come) e ritrova una dimensione in piccolo e il film torna a essere interessante, torna anche a coinvolgere a livello emotivo e ha un bel finale, che evita situazioni spettacolari e ritrova quell'atmosfera per certi versi eterea del film.

E' sicuramente un bel lavoro e va premiato, in particolare se si pensa al livello medio del cinema italiano, ma è un peccato che la fase centrale non sia così forte perché sarebbe stato bello assegnare a questo film un voto più alto.

Voto: 7

mercoledì 8 aprile 2020

Hunters: serie dalla forza deflagrante

La forza della messa in scena è notevole, più volte nel corso delle puntate l'impatto emotivo è altissimo.


Personalmente, considerando che quando potevo guardare History Channel ero piuttosto affascinato (se non di più) ai documentari sulla caccia di nazisti, una serie tv del genere non poteva che attirare immediatamente interesse. Il fatto che a essere coinvolto poi in questo lavoro fosse stato un maestro come Al Pacino, al primo ruolo in una serie tv, ha soltanto aumentato la curiosità.
Il risultato? Anche migliore delle attese.

Si tratta di una serie tv capace di imporre una buona coralità, con tutti i personaggi principali che via via vengono caratterizzati grazie a puntate molto ben centrate, permettendo di avere così dei caratteri forti al centro della vicenda, con attorno i "cattivi" che sono molto meno stereotipati che in altre serie tv e la mina vagante rappresentata dall'agente Millie Morris, molto interessante perché si trova continuamente in conflitto con sé stessa.
Il personaggio fulcro della vicenda è quello di Jonah, che inizialmente ci viene descritto come un pulcino bagnato in difficoltà per la morte della nonna, quasi un pesce fuor d'acqua nella vicenda, ma che grazie a un'ottima scrittura nel corso della stessa prima stagione ha una crescita psicologica davvero splendida e di pieno interesse.
Funzionano tutti i personaggi, tutti con un loro aspetto che ci viene descritto bene: tra questi, da fan di How I Met Your Mother, è sorprendente vedere anche lo sviluppo del Lonny Flash a cui dà volto Josh Radnor (l'ex Ted Mosby), il quale inizialmente sembra gigioneggiare eccessivamente ma che invece alla fine ha assolutamente un suo senso, mostrando peraltro buone capacità drammatiche e di azione dell'attore.
Per quanto riguarda Al Pacino, c'è poco da dire: basta la sua presenza a innalzare un lavoro.

Tutto è ben fatto, con le puntate centrali della prima stagione che servono anche ad approfondire sui personaggi, ma che non mancano di una forza deflagrante, spesso grazie a dei flashback molto sentiti e toccanti: in particolare quello della sesta puntata è molto commovente. La polemica su questi flashback è decisamente fuori luogo e inutile: un cervello funzionante di per sé dovrebbe capire cosa è messa in scena e cosa è reale, cosa è fiction e cosa è documentario, quindi se c'è qualche invenzione (viene tanto criticata la partita a scacchi umani della prima puntata) è perché appunto parliamo di qualcosa di romanzato, non è l'autore di una serie tv che deve documentarci qualcosa, men che meno qualcosa di storicamente orribile come l'orrore del nazismo.
Anzi, l'autore di questa serie tv riesce a imprimere nella sua finzione una forza molto spesso deflagrante e gli va solo dato merito.

Ottima la chiusura della prima stagione, con la penultima puntata più centrata sull'azione e l'ultima puntata che ci lascia spiazzati, tenendo spalancate le porte per le stagioni successive. Stagioni che già adesso sono molto attese, perché il risultato della prima stagione è eccellente. Si tratta di una delle serie più forti che si siano viste negli ultimi anni.

lunedì 6 aprile 2020

Donne amazzoni sulla Luna: la meravigliosa "squadra cazzate" e tanto altro

Si ride un po' meno rispetto a Ridere per ridere, ma l'occhio critico e satirico è molto centrato e si rispecchia anche adesso coi nostri tempi.


Rispetto a Ridere per ridere di una decina d'anni prima si nota un passo indietro a livello umoristico e soprattutto di demenzialità comica pura, ma il fatto che qua non ci siano gli ZAZ giustifica completamente questa differenza, manca la loro genialità unica.
Resta però che anche Donne amazzoni sulla Luna ha una vena dissacrante unica e che il giochino del film senza trama e di soli sketch funziona ancora, dimostrandosi un mezzo probabilmente da provare più volte per proporre film comici senza perdersi in morale, in storie o in chiuse. Così puoi sparare tutto ciò che ti viene in mente e via.

Possibilmente c'è anche una vena satirica maggiore rispetto a Ridere per ridere, o perlomeno una satira più "aggiornata" e quindi più vicina ai nostri tempi, tanto che nella "Squadra cazzate" di "Bullshit or Not?" possiamo intravedere la presa in giro di format arrivati anche da noi coi vari Voyager o Mistero et similia.
La svendita del museo (con la Gioconda venduta a 60 dollari!!) è un'altra presa in giro sull'ignoranza devastante di questi tempi, mentre la scena con Steve Guttenberg ci fa pensare a una privacy sempre meno esistente, mostrando come gli autori di questo film ci abbiano anche visto lungo sui tempi che corrono.

Ridere per ridere è devastante perché sostanzialmente si ride sempre dall'inizio alla fine, mentre qua il livello degli sketch è più altalenante, ognuno ha un suo perché a livello satirico ma non tutti sono egualmente centrati a livello comico, ma qui è migliore l'idea di spezzare in più parti quello che diventa l'episodio più lungo (il Donne amazzoni sulla Luna che dà il titolo alla pellicola), a differenza del "A fistuful of yen" di Ridere per ridere che invece era stato piazzato in un unico blocco.

Il giochino funziona ancora, pur se con meno classe rispetto a Ridere per ridere.
Voto 7,5

giovedì 2 aprile 2020

Searching: il dramma nell'epoca di internet

Dramma della modernità, ben reso anche con un uso insolitamente efficace delle nuove tecnologie.


John Choo è cresciuto. E' strano infatti pensare che il protagonista serissimo di questo Searching altri non è che colui che ha involontariamente reso famoso in tutto il mondo l'acronimo (di dubbio gusto) MILF per la sua interpretazione in American Pie, oltre che pensare che lui sia stato il protagonista della trilogia di Harold & Kumar giocata sulla grossolana (e spesso molto divertente) comicità demenziale e strafumata.
Adesso Choo lo ritroviamo così, padre affranto in un film davvero insolito e originale sulle nuove tecnologie.
Tutta l'azione infatti scorre tramite uno schermo, per il 90% è lo schermo del computer, per il resto sono telicamere di sorveglianza o televisive.
E' un film ad azione limitata che però fotografa al meglio una situazione di dramma, ben resa in modo realistico da una sceneggiatura sorprendentemente convincente.

Più che come un thriller (come ho letto in vari siti), di cui non ha la suspance e l'azione, definirei Searching come un dramma, il dramma di un uomo che fa di tutto per capire cosa è successo alla figlia, scomparsa da un momento all'altro in modo misterioso.
Quindi vediamo i suoi tentativi di rintracciarla, prima capendo di conoscere la vita della figlia meno di quanto pensasse e poi partecipando per certi versi alle indagini, con anche i suoi scambi con quello che diventa il secondo personaggio più visibile della pellicola, la detective a cui dà il volto Debra Messing (ovvero la Grace di Will & Grace, anche lei in buona vena).
Il film in sostanza ha un ritmo costante (e questa assenza di spettacolarizzazione inutile per me è un pregio) e ha un suo sviluppo coerente e sorprendentemente realistico, vedi anche la fase del tam tam mediatico in cui vedo sottintesa anche una critica sociale, quando ci mostrano i commenti di sconosciuti che tramite l'hashtag di Twitter si permettono (dall'alto del nulla) di giudicare le scelte del protagonista (uno lo definisce anche "papà dell'anno"), oppure quando una ragazza (che in una telefonata con Choo aveva detto di non conoscere così bene la persona scomparsa) per elemonisare un minimo di popolarità di Youtube mostra il suo dolore per la scomparsa della "migliore amica", in quella che probabilmente è la fase più ispirata del film.
Choo è davvero molto bravo nel restare coerente col proprio personaggio e nel creare una forte empatia con lo spettatore, che si rispecchia in pieno nella sua disperazione umana.

Molto buono il lavoro di editing del film, con tutte le parole di siti, messaggi ecc tradotti in italiano per garantire una visione facile anche per chi mastica meno la lingua inglese.

E' un film molto più curato di quanto ci si aspetterebbe, sia nelle immagini (la regia non sta tanto nella ricercatezza delle inquadrature ma nel modo con cui vengono legate le immagini) sia nella sceneggiatura e tutto sommato si può definire riuscito, nel suo tentativo di proporre un prodotto diverso dal solito.
Visione consigliata per chi è propenso ad adeguarsi a una visione diversa e non ha pregiudizi di fondo nei confronti delle nuove tecnologie.

Voto: 7,5

La carne: porcheria immonda

A confronto Tinto Brass è un idealista. 



La morale di questo film è una soltanto: la donna è un pezzo di carne da sottomettere.
La Dellera quindi è prima unicamente oggetto sessuale (un'ora e passa di film di una monotonia allucinante) e poi mangiata dal presunto maschio alpha.
Il fatto che il regista Marco Ferreri non solo non sia stato portato al manicomio per questo obbrobrio, ma sia stato addirittura apprezzato (ah, che trasgressivo) dimostra quanto ci sia di distorto e sbagliato nella nostra società, per una mentalità ridicola che in questi vent'anni scarsi (il film è del 1991) non è che sia poi cambiata così tanto.
Ciò che gli attori sono costretti a dire tocca il ridicolo quasi sempre ("non sono una cicogna, mamma!"), a dominare è il non-cinema e la noia.
A completare il quadro profondo da porcata assoluto, l'uso distorto della colonna sonora, in particolare di Innuendo dei Queen.
Orripilante catastrofe.

Voto: 0

mercoledì 1 aprile 2020

Misterioso omicidio a Manhattan: Woody Allen claustrofobico di fama mondiale

Il gusto con cui Woody riesce a miscelare vari generi è davvero unico e rende molto piacevole questo film.


Anche per prodotti del genere la filmografia di Woody Allen resta unica e inimitabile.
La storia non è certamente nuova nel panorama cinematografico, ovvero la coppia per certi versi annoiata dalla routine che si improvvisa maldestramente detective annusando una situazione misteriosa, un espediente visto tante volte.
Ma a fare la differenza è la messa in scena, in una New York come sempre sfondo ideale per le storie del maestro Woody.

Diane Keaton è la grande forza motrice del film, non solo perché è il suo personaggio a intuire che qualcosa non vada nella morte della propria vicina di casa, ma anche per la forza e l'energia che l'attrice riesce a mettere nel film, mostrandosi una volta più professionista ideale per i lavori del regista newyorchese, anche perché straordinariamente portata a inserirsi nel fiume di parole che è questo film per quasi la sua totale interezza.
A ciò si lega perfettamente Woody Allen, che riempie la pellicola con il suo classico personaggio paranoico e ansioso, piazzando una quantità di frecciatine sarcastiche di alta qualità e una serie di battute memorabili, specie quando anche il suo Larry Limpton (dapprima scettico, tanto da dire alla moglie "io trovo abbastanza fondata l'ipotesi che se una persona è morta non salta fuori sui mezzi della rete urbana") si lascia coinvolgere dal mistero, portando a una ventina di minuti di straordinario cinema comico all'interno di un intreccio da "giallo". Una delle sue battute che preferisco arriva infatti quando resta momentaneamente bloccato dentro l'ascensore, affermando di essere un claustrofobico di fama mondiale: davvero unico.

E' un film che funziona benissimo, perché riesce a mescolare bene i vari aspetti (non ultimo quello degli equilibri di coppia) senza mai tracimare da una parte o dall'altra, confermando ancora una volta lo stile impareggiabile dell'autore.
Anche vedendolo più volte, il film intriga nella sua fase da "mystery" e diverte molto nelle disavventure dei due protagonisti, peraltro ben spalleggiati dai personaggi di contorno (su tutti Anjelica Huston e il sempre bravo Alan Alda, un altro che conosce a menadito il cinema alleniano), in un film che si lascia guardare con il sorriso sulle labbra dal primo all'ultimo minuto.

Una curiosità finale. Il figlio della coppia protagonista (che appare in una scena soltanto) è nientemeno che Zach Braff, ancora lontano dal diventare attore di culto grazie alla serie tv Scrubs.

Voto 8