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martedì 29 dicembre 2020

Sanremo stile Love Boat: io ho già la sigla!

 Io e il comandante Schettino gli unici tasselli mancanti per un grandissimo Festival

E' chiaro: gli italiani possono vivere nel lockdown, ma non possono vivere senza Festival di Sanremo. E come fare per il pubblico? Si va a porte chiuse, quando già non possiamo vedere di persona le grandi giocate di calciatori immensi come Gagliardini? Ma no, l'idea è brillantissima: il Festival di Sanremo su una nave da crociera! Una Love Boat, con tanta musica demmerda!

Cosa manca allora per un Sanremo Love Boat di grande successo? Intanto Schettino a comandare la nave, direi.

Ma anche una sigla efficace. E questa, caro Amadeus, te la canto io! Ho già pronto il testo! Se la sigla italiana di Love Boat fu nientemeno che "Profumo di mare" di Little Tony, basta ritoccare un filo il testo e abbiamo la sigla perfetta per il Sanremo Love Boat!!

"Merda, profumo di merda
ce la canta chiunque vinca o chi perda
ci sarà tanta merda, che musica demmerda
neanche fossimo insieme nel giorno della merla
 
con questa merda che cosa puoi fare
se siam sulla nave neanche Bugo può scappare!
 
E se siamo in cinquecento
nel mar di merda sarò contento
e se Diletta è qua
ci sarà anche il salvagento"
 
[Finale alla Tony Tammaro]
 

La mia banda suona il pop: un altro brizzisastro

Le belle musiche create da Zampini sono l'unica cosa da salvare di un film palesemente senza idee, tanto che la reunion della band deve sfociare in un banalissimo heist movie. Brizzi ancora insalvabile.


Quando si affretta la produzione di un film che parte da una idea stentata, i risultati sono quelli che si vedono ne "La mia banda suona il pop", in cui la ruffiana (ma con Brizzi la ruffianità è all'ordine del giorno) reunion di una finta band anni '80 ha talmente il fiato corto che il film sfocia in un banalissimo e noiosissimo heist movie che affonda miseramente.
Si vede subito che il progetto è abbozzato, con dei dialoghi miseri e la speranza che i volti dei protagonisti bastino a creare un interesse o un sorriso: il problema è che gli stessi protagonisti sono i primi a non crederci e sono palesemente fuori forma, basti vedere Abatantuono (con inguardabili occhi azzurri) tirarsi via stancamente dall'inizio alla fine.
Non che gli altri membri della band facciano meglio, con la Finocchiaro a cui viene appiccicato il solito personaggio palesemente e schifosamente sessista tipico degli script di Brizzi: ancora nel 2020 la donna nei film italiani serve solo per battute terribili (almeno fossero buone le battute!) sulla sua promiscuità... Alternate soltanto alle battute sul suo alcolismo. Insomma, nel film di Brizzi la donna serve solo per subire passivamente.
Ghini appare decisamente impacciato e si sveglia soltanto in un paio di duetti di coppia con De Sica, che dal canto suo conferma la forma scadente vista in Poveri ma ricchi e ricchissimi, con tanto di parrucca improbabile anche qui, finendo per straparlare e per tentare la solita strada della trivialità fine a sé stessa: qui, a differenza di altri film, non ha un Boldi a rovinargli le battute, il problema è proprio che script e regia sono talmente privi di tempi comici che nemmeno l'istintiva volgarità romanaccia può portare al sorriso.
La cosa più triste però è vedere le condizioni terrificanti di Paolo Rossi, davvero l'ombra assoluta di sé stesso e capace soltanto di biascicare le parole per tutta la durata del film.
 
La parte del furto non merita nemmeno un commento da quanto è poco degna di nota, mentre da salvare assolutamente nel film è la colonna sonora con le canzoni poppeggianti scritte ad hoc da Bruno Zampini che sono simpatiche e orecchiabili.
Non bastano però ad alzare il voto del film.

Che non può che essere un: 1

L'agenzia dei bugiardi: definirlo un bel film sarebbe una bugia

Ennesimo remake inutile del cinema italiano, anche questa volta a riprendere un film non certo memorabile come Alibi.com. Tutti i difetti del film francese restano intatti, con l'aggiunta di un casting piuttosto disastroso che fa rimpiangere tantissimo i protagonisti dell'originale.

 

Prima o poi qualcuno produrrà un vaccino contro i remake inutili del cinema italiano!
In questo caso a essere saccheggiato è Alibi.com, ovvero per l'ennesima volta un film nemmeno poi così riuscito o memorabile, anzi un film che sarebbe stato completamente dimenticato nella mia memoria se non fosse che iniziando "L'Agenzia dei Bugiardi" avessi rivisto le stesse scene girate allo stesso identico modo e mi fosse venuto il dubbio se (nonostante sia un film uscito da pochi) avessi già visto questo film e me ne fossi completamente dimenticato.
Alibi.com era una commedia francese che si salvava in corner con una sufficienza soprattutto per l'affinità del trio comico protagonista, ma che aveva dei problemi palesi di script oltre a essere anche culturalmente un film sbagliato, visto che i francesi hanno bisogno di un loro stile e che se si mettono a ricalcare esagerazioni (e volgarità) all'americana spesso non ci fanno una buona figura.
Quindi che senso ha riproporre un film già impersonale come Alibi.com e farne un remake? Nessuno, ma nel cinema italiano non si butta via niente.
 
Così i pregi del film francese (originalità in alcuni aspetti) vengono completamente accantonati e ne L'Agenzia dei Bugiardi ritroviamo invece pari pari tutti i difetti, le gag grossolane e non riuscite e personaggi con uno sviluppo psicologico poco coerente.
In più qui viene aggiunto qualche personaggio fuori contesto (Fassari che appare giusto in due scene) e viene da rimpiangere del tutto i protagonisti del film originale per un casting piuttosto sballato.
Da chi iniziare? Da Ghini che finisce per riproporre il solito personaggio visto e stravisto nei suoi cinepanettoni con De Sica? O con  Diana Del Bufalo, invadente e (per me) totale oggetto misterioso per mancanza di tempi comici e anche una palese antipatia? Dalla coppia disastrosa Ruffini-Ballerina, con il primo che si fa preferire quando dorme (anche il personaggio del film originale soffriva di narcolessia) e con il secondo che continua a confermare di essere allo sbando fuori dal gruppo di Maccio Capatonda (che di fatto è un po' l'Atalanta dello spettacolo italiano, come già detto nella recensione recente di In Vacanza su Marte)?
Un po' meglio se la cava Giampaolo Morelli, che però da attore "brillante" ha un difetto di fondo: l'essere eccessivamente monotematico, tanto da stancare alla lunga.
Terribile la parentesi con Golia de Le Iene di Mediaset, così come l'apparizione da guest-star autocitazionista di Piero Pelù.
 
Regia copiata di sana pianta dal film originale (mah) e colonna sonora modesta a completare l'ennesimo prodotto da buttare.
Davvero non si è nemmeno capaci di scrivere qualcosa di originale che possa essere meno modesto di tutto ciò?

Voto: 2

venerdì 25 dicembre 2020

In vacanza su Marte: un assembramento di stronzate

Riesce a deludere anche le peggiori attese. Idee inesistenti e "comicità" affidata unicamente alle trivialità di De Sica, che però non va oltre ai "puffana" o "incagnotta" che non farebbero ridere altri che un minus habens. Boldi? Sempre più impresentabile. Disastro assoluto.


 

Peggio del cinema spazzatura c'è solo una cosa: tentare di riproporre ancora il cinema spazzatura quando si è ormai fuori tempo massimo, quando quel tipo di film è (per fortuna) passato fuori moda, per dare spazio ad altra spazzatura (tutta quella televisiva da reality e alla Barbara D'Urso, diventata di moda grazie allo stoico lavoro di istupidimento di massa attuato da Mediaset da decenni). Pensare a un target di pubblico a cui possa piacere una pellicola come "In vacanza su Marte" crea assoluto imbarazzo, perché senza giri di parole bisogna avere un livello intellettivo e culturale davvero ai minimi termini per poter apprezzare quanto si vede.
Il che non vuol per forza dire che bisogna essere dei mononeuronali per poter apprezzare i cinepanettoni del momento migliore, quando magari c'era un ritmo diverso e un'ispirazione maggiore da parte dei protagonisti (pur non essendo certo io un fan di questo genere di film), vuol dire che per farsi piacere un film come quest'ultimo girato su ritmi stiracchiatissimi e con attori che sembrano recitare al rallentatore bisogna davvero essere ben più che di bocca buona, bisogna avere un gusto decisamente pessimo.
 
Che Neri Parenti non sia mai stato (anche nel pieno delle sue forze) un buon regista lo si sapeva già, basti vedere tutte le sue operazioni di riciclo che hanno devastato l'originalità di un attore come Paolo Villaggio (portando anche a un paio di buoni film, ma sempre costringendo il comico genovese a ripetere sé stesso fino allo sfinimento), ma affidando un progetto simile alle sue mani ci si poteva aspettare almeno un minimo di esperienza nella gestione del tutto: invece Parenti & Co riescono ad andare anche peggio delle bassissime attese che avevo, portando il film a livelli di imbarazzante pressappochismo, con il chiaro e patetico tentativo di strizzare l'occhio ai fan integerrimi della coppia De Sica-Boldi che porta a un disastro di livelli infimi.
A leggerla la trama sembra persino articolata, in realtà sono tre-quattro cosette buttate lì alla bell'e meglio lasciando tutto al caso. Parenti non riesce mai a creare un minimo ritmo alla storia, proponendo una regia completamente random, in cui le due storie (che pure un minimo collegamento lo avrebbero per la sceneggiatura) che procedono incollate a casaccio come fossero due film diversi. E peraltro sono due film uno peggio dell'altro.

Le parentesi giovanilistiche di norma nella commedia italiana degli ultimi 30 anni sono sempre le peggiori, per la superficialità con cui sono visti i giovani. Qui si va anche peggio del solito, con la coppia di influencer (alè, casuale richiamo all'attualità) finta innamorata per siparietti di una bassezza incredibile. Peraltro per girare questo episodio viene ripescata dal campionario delle meteore Fiammetta Cicogna, di cui si ricorda una (brutta) pubblicità di una decina di anni fa, mentre Herbert Ballerina o Luigi Luciano che dir si voglia conferma come il gruppo di Maccio Capatonda & Co (originale agli inizi ma persosi del tutto col tempo) possa essere considerato un po' l'Atalanta dello spettacolo: ovvero qualcosa che poteva funzionare d'insieme, ma con i vari singoli che in altri contesti mostrano delle lacune notevolissime.

Ma questa parte serve solo per allungare il brodo e creare uno pseudo-subplot, il quadretto è tutto incentrato su Boldi e De Sica e i risultati sono preoccupanti. Già a livello di credibilità negli ultimi anni Boldi (causa decadimento cariatidale a mettere a nudo tutto i limiti del suo presunto talento comico) aveva toccato il fondo del barile: qui il fondo viene sfondato anche a causa di una sceneggiatura che ce lo propone come... FIGLIO di De Sica (a causa di un buco nero: eh vabè)! In sostanza Boldi deve fare il vecchio rimbambito, portando lo spettatore a un imbarazzo e una tristezza profondi, pensando a come è brutto ridursi così per non capire che a un certo punto se proprio non ce la si fa la carriera artistica (sempre che sia mai stata "artistica" la sua) va fermata.
La sceneggiatura non pone un briciolo di appiglio comico e allora i tentativi di portare alla risata sono tutti appioppati sulle spalle di De Sica, che dimostra di essere anche lui palesemente fuori forma (pur non avendo i tempi totalmente a rilento di Boldi) e che prova a far qualcosa risultando però anche lui irritante con il solito trito e ritrito ricorso alla trivialità, che in passato magari (in alcuni casi) poteva anche funzionare ma che qui risulta digeribile come un muro di mattoni a colazione. Anche perché il livello delle battute è "puffana" o "circonvenzione di incagnotta": non vi fa ridere? Esatto. Ma ve le spiego: dicasi "puffana" la donna con ampia vita sessuale e i capelli color puffo, mentre l'incagnotta sarebbe una "crasi tra incapace e mignotta". Che ridere. Certo, sempre meglio dell'abbozzato "dolore marziano" di Boldi, ma davvero una roba di una tristezza inaudita.

Ancora più triste vedere attrici di buon livello coinvolte in questo progetto, dalla solitamente bravissima (qui palesemente mal utilizzata) Lucia Mascino a Paola Minaccioni (che purtroppo continua a buttarsi via in film del genere), finendo per l'orrendo ruolo affibbiato a Milena Vukotic come anziana ninfomane, simbolo perfetto di una scrittura senza alcuna idea e della sciatteria del film.

Degne di nota le scenografie da "fantascienza", farlocche all'inverosimile, e la colonna sonora con musichetta ridicola.
Insomma, anche provandoci da salvare non c'è proprio nulla.

Voto: 0

Il ritorno dei pomodori assassini: l'eterna lotta tra uomo e pomodoro

Tra un pomodoro spremuto e un marchio pubblicitario sbattuto grossolanamente, un film cult per la propria comicità demenziale e per uno spirito totalmente dissacrante
 

Piuttosto che cercare il riciclo del riciclo come fa il cinema italiano con i finti viaggi marziani e con le catastrofiche revisioni del lockdown, ha molto più senso ripescare un certo cinema di bassa qualità ma con uno spirito che s'è totalmente perso come quello de "Il ritorno dei pomodori assassini", capace di essere a suo modo lo specchio di tempi irripetibili.
Girato una decina di anni dopo il capostipite (purtroppo abbastanza introvabile da noi), questo film rappresenta una voglia di puro cazzeggio, una follia assoluta fatta di gag a ripetizione e una voglia di prendere in giro ogni cosa possibile. Certo, non tutte le gag vanno a segno, e quando non ci riescono si possono avere dei momenti di puro imbarazzo per chi non riesce a entrare nello spirito della pellicola, ma ce ne sono tante che per puro senso di delirio e potere dissacrante risultano assolutamente divertenti. Il tutto accompagnato da una storia buttata lì come puro abbozzo e con un voluto "over-acting" continuo per essere ancora più ridicole le situazioni: per un quadro che però funziona abbastanza bene, regalando un vero cult per il cinema demenziale.
 
In realtà la vicenda dei pomodori assassini (che pare fosse ben più centrale nel primo film) in questo caso rappresenta più un pretesto, anche se non mancano le gag finto-splatter sconsigliate agli "amanti" degli ortaggi (devastante quando il cattivo spreme un pomodoro con una violenza inaudita, oppure notevoli sono battute assolutamente insensate del genere "Tara, non sei diventata ketchup!"), ma è proprio lo spirito di delirio che rende devastanti alcuni momenti del film.
Che dire del cambio di stile improvviso che avviene a metà film con la scena più o meno metacinematografica in cui viene deciso di concludere le riprese del film con l'aiuto della pubblicità (molto poco) occulta visto che il budget era già stato sperperato? Da quel momento il product placement diventa selvaggio, con in particolare George Clooney che si sforza in maniera molto ironica a piazzare nel migliore dei modi i marchi dei prodotti, e con il marchio "Pepsi" che spunta in ogni angolo: completamente ridicolo, ma ogni volta che un marchio viene sbattuto all'occhio dello spettatore in modo così grossolano viene davvero molto da ridere.

In tutto ciò si vedono anche due volti noti al grande pubblico, come il già citato George Clooney, qui pressoché agli esordi e capace di mostrare una notevole faccia da schiaffi, mentre il super-cattivo ha il volto di John Astin, l'ex Gomez dell'originale Famiglia Addams.

Certo, non c'è da aspettarsi la qualità e la ricerca del dettaglio degli ZAZ, questo è un demenziale pittosto grossolano, ma è anche un demenziale puro e divertente, parecchio lontano da quella serie di volgarità fini a sé stesse che adesso il cinema americano spaccia (disastrosamente) per comicità demenziale: qui la ricerca della gag (anche quando non riesce) si vede.

Voto: 7

sabato 19 dicembre 2020

Patch Adams: l'attimo è fuggito

Un buon Robin Williams viene penalizzato da una messa in scena troppo didascalica ed eccessivamente tendente all'iperbole


Cosa resta guardando un film come Patch Adams a distanza di oltre 20 anni? Sinceramente poco, se non la sensazione di aver sfruttato non al meglio (come spesso accadeva in quegli anni) una maschera e un talento induscutibile come quello di Robin Williams, sperando che magari per il grande pubblico la sua maschera e i buoni sentimenti potessero nascondere le falle enormi di questo prodotto.

Che la messa in scena sia decisamente poco ispirata lo si può capire subito dall'introduzione che vede Patch al manicomio, con l'odiosa musichetta di sottofondo pseudo-poetica (che virtualmente accompagnerà tutto il film) a sottolineare scene lente, blande, mal girate e messe lì a forza per creare una caratterizzazione del personaggio. Un disastro.
Per fortuna poi Patch si iscrive alla facoltà di medicina e la vicenda inizia a farsi interessante (e lo sarà fino al brutto finale all'ateneo con scopiazzature da cinema giudiziario), ma più che per la forza di una regia spenta e dormiente lo è perché le situazioni portano il buon Robin Williams a brillare o a toccare i giusti tasti con la sua recitazione sensibile.
Resta però una messa in scena mediocre, che procede in maniera didascalica e mai appassionante, riempiendo il tutto con sempre più sterile melassa, risultando eccessiva. Il tentativo di romanzare la vicenda è tale che (ripetendo la stessa critica che scrissi in passato per The Mule) quella che dovrebbe essere una trasposizione di una storia reale finisce per risultare del tutto inverosimile, cosa piuttosto imbarazzante: tanto vale a questo punto creare una sceneggiatura inventando da zero e ispirandosi su vicende reali, piuttosto che frustrare lo spettatore che pensa di vedere una storia era con assurdità del tutto improbabili.
Inoltre, la totale mancanza di ispirazione si vede nello sviluppo di tanti personaggi secondari, la cui parabola appare incredibilmente identica a quella di pari caratteri in L'Attimo Fuggente (che però era un film con una forza decisamente diversa).

Non tutto è da buttare, ma i difetti sovrastano i pregi. Per un film anche guardabile, ma non certo più di una volta.

Voto: 4