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lunedì 28 giugno 2021

Io sono Nessuno: Bob Odenkirk ancora impeccabile

Nella giungla di action poco creativi, diretti (e recitati) col pilota automatico, ogni tanto spunta qualche mosca bianca: violenza e morti arrivano a raffica, ma in parallelo c'è anche una buonissima dose di ironia (grazie allo straordinario Bob Odenkirk, ma gustosa anche l'apparizione di Christopher Lloyd) per un film elettrizzante e divertente.

La mancanza generale di creatività e originalità nel cinema americano ha danneggiato e saturato un po' tutti i generi, ma due in particolare sono usciti con le ossa rotte, portando alla visione di tantissimi film frustranti se non proprio inguardabili: la parodia-demenziale e l'action.
Quest'ultimo genere in particolare ha visto negli anni l'uscita di una marea di pellicole sostanzialmente difficilmente distinguibili, tanto poca è la creatività riscontrabile in essa: variano minimamente i plot e soprattutto le scene portano a un continuo senso di già visto parecchio fastidioso e completamente lontano dall'elettricità che invece questo genere dovrebbe portare allo spettatore.
 
Nella giungla di action poco degni di nota ogni tanto spunta una mosca bianca: magari a livello di plot e trama è difficile inventarsi qualcosa di nuovo, ma si può comunque garantisce una visione divertente e intrigante grazie a una buona direzione e un'ottima recitazione, che non vadano avanti apparentemente col pilota automatico come troppo spesso succede.
Ecco, "Io sono nessuno" (per una volta il titolo italiano si discosta, pur poco, dal titolo originale "Nobody" senza fare danni, visto che proprio il protagonista nel film pronuncia questa frase) è la classica mosca bianca, che magari viene vista senza particolari pretese e porta a 90 minuti circa di visione finalmente realmente elettrizzante e molto divertente.
 
Ovvio, con il solito senso di esagerazione, non mancano sparatorie e esplosioni gigantesche, non mancano morti a raffica e una dose clamorosa di violenza, ma quando il film è girato in questo modo tutto ciò non diventa un fastidio, anzi diventano proprio una parte del divertimento. La regia di Ilya Naishuller ha una buona mano e una discreta creatività e porta subito lo spettatore a impattare in modo positivo col film, che poi schiera in prima linea quello che (soprattutto a livello televisivo con le sue apparizioni in Breaking Bad e Better Call Saul, ma evidentemente anche a livello cinematrografico) sta diventando sempre più una sicurezza di intrattenimento, col suo viso normalissimo (perfetto per il "signor Nessuno" che sembrerebbe apparire dal modo inerme con cui affronta la rapina di inizio film) e la sua capacità di riuscire a infilare sempre e comunque una dose di ironia che non è eccessiva né finisce per cozzare col tema del film, anzi diventa un accompagnamento gustosissimo: parliamo di Bob Odenkirk, attore che ormai ha trovato uno stile specifico che modifica leggermente a seconda del personaggio e che proprio per la sua unicità è diventato un elemento eccellente a livello recitativo. Ancora una volta la sua prova è semplicemente impeccabile ed eleva ulteriormente un film girato con gusto, in grado di appassionare e divertire.
 
Non sarà certo una pellicola in grado di entrare nella storia del cinema, difficilmente lo vedremo in qualche "Top 100" di genere di qualche critico e/o esperto, ma altrettanto difficilmente si troverà uno spettatore non totalmente allergico al genere action che si annoierà alla visione.
 
E il film non è solo Odenkirk, perché tra i personaggi secondari ritroviamo (nel ruolo del padre del protagonista) una vecchia gloria come Christopher Lloyd: se inizialmente sembra relegato al classico ruolo senile di vecchietto da accudire, col passare dei minuti l'ex Emmett Brown prenderà bene la sena risultando una splendida arma in più nell'arsenale del film.
 
Insomma, pretendere troppo di più da un film del genere è eccessivo. Finché ci si diverte, tutto va bene e il voto per forza di cose diventa positivo.
Voto: 8

domenica 27 giugno 2021

La banda dei tre: Bocci-atissimo

Tentativo di noir all'italiana low cost e soprattutto basso a livello di idee e di scrittura, con un pastrocchio che viene "impreziosito" dall'ennesima prova da cane attoriale di Marco Bocci. Inguardabile.

Una delle fotografie dell'abisso culturale che sempre più si sta creando in Italia? Il pensare che questo incredibile scempio di scrittura che è "La banda dei tre" è tratto da un libro, di Carlo Callegari: se già a livello visivo il risultato è questo, chissà che imbarazzo a leggere il libro.
Il film è un tentativo di noir all'italiana, in cui le poche cose buone vengono totalmente devastante da uno script letteralmente osceno, pieno di luoghi comuni e senza lo straccio di un'idea passabile: esempio, quando non si ha nulla da dire, tirare fuori la storiella dei russi cattivoni fa sempre comodo.
Le idee sono talmente poche che per allungare il brodo e arrivare alla durata dei 90 minuti vengono abbozzate stupidaggini di ogni tipo, come la violenza domestica sulla cameriera (che il protagonista conosce in un modo ridicolo) che viene messa lì a mò di barzelletta, in un minestrone insipido che vede anche dei momenti semplicemente incredibili, come i deliri para-religiosi del criminale devotissimo alla Madonna o come il padre del "nano" che appena entra in scena vede partire in sottofondo delle assurde e oscene risate finte da sit-com (scelta incompensibile all'interno della "storia").
 
E' per questi e tanti alti motivi che "La banda dei tre" finisce per essere un film sostanzialmente uscito sotto silenzio e ignorato da tanti, per un prodotto low cost che peraltro non avrebbe tutto da buttare. La regia affidata a un carneade come Francesco Dominedò è (a parte l'assurdità delle risate finte all'ingresso di "Babbo Natale") perlomeno competente: nulla per cui strapparsi i capelli, ma nemmeno quella serie di assurdità finte-pop giovanilistiche che vanno di moda oggi per provare a creare ritmo in prodotti senza appigli, finendo per portare invece a una direzione che non è per nulla dannosa ai livelli della visione, anzi proprio la regia è ciò che impedisce a uno spettatore di staccare in anticipo il film quando (dopo una ventina di minuti) si era capito che la storia non aveva proprio nulla da dire.
 
Nel disastro si può salvare anche la prova di qualche attore che solitamente in questo genere di ruoli invece annaspa. Parlo soprattutto di Carlo Buccirosso, eccellente spalla di Salemme ma che in passato aveva dimostrato di non essere particolarmente portato al genere del noir: qui invece di esperienza riesce a elevarsi nel grigiore generale.
Discorso simile per Francesco Pannofino, eccellente doppiatore che però da attore (a parte un ruolo strepitoso per cui gli sono e sarò riconoscente per sempre, quello di René Ferretti nel mitico Boris): qui al contrario dimostra di essere in parte e di inquadrare in modo per me sorprendente il personaggio, che pure era stato scritto in maniera disastrosa (vedi i già citati deliri para-religiosi) con cliché a non finire.
 
Questo per trovare qualcosa di positivo in un quadro insalvabile, devastato anche dalla sballatissima scelta del protagonista. Se il titolo parla di banda dei tre, il protagonista assoluto è invece Marco Bocci, elemento che misteriosamente viene considerato ancora "attore" e che trova ancora dei ruoli (anche importanti, visto che è stato un volto di punta di una delle rare fiction televisive italiane degne di nota come Squadra Antimafia, anche se pure lì il 90% delle sue espressioni facciali specialmente nelle scene di azione risultavano indescrivibili) pur essendo assolutamente un cane a livello recitativo. Qui dimostra che negli anni non ha imparato proprio nulla e che evidentemente in Italia conta molto più avere santi in Paradiso che avere qualità: non sono così negativo da pensare che in questa Nazione non ci siano attori più capaci e competenti di questo, che tra coloro che restano con pochi lavori e che non riescono a sfondare non esistano volti più adeguati.
 
Insomma, catastrofe totale, che si chiude degnamente con l'apparizione da "guest star" di Pupo: già. Bocci-atissimo.
 
Voto: 1

martedì 22 giugno 2021

Il silenzio dei prosciutti: al Greggio non c'è mai fine

Talmente brutto, sciatto e scriteriato da essere diventato un vero e proprio trash-cult movie. 
 

Uno dei più grandi e profondi misteri oscuri della storia italiana è sicuramente la misteriosa carriera ultra-decennale di Ezio Greggio. Partito a fare dei tormentoni cretini al Drive In, finito a toppare puntualmente a ogni sua prova da attore, per motivi che prima o poi sarei curioso di sapere (anche se pare chiaro che c'entri parecchio il conoscere le persone "giuste" e saper entrare nelle grazie di codeste persone) Greggio è diventato uno dei volti di punta nel totale pattume televisivo e nel degrado culturale che è il gruppo Mediaset.
In questi vari passaggi, tacendo di alcune storielle personali piuttosto imbarazzanti, un capitolo incredibile è il tentativo di Greggio di sfondare a Hollywood, sfruttando (toh) una serie di amicizie altolocate. Tentativo, manco a dirlo, fallito grossolanamente.
 
Il suo primo film da regista è diventato nel tempo uno "scult" colossale, essendo uno dei più brutti e scriteriati film mai visti: ormai per tanti "Il silenzio dei prosciutti" è entrato nell'immaginario come uno dei film più sconci di sempre, talmente sconcio da avere assolutamente nella collezione e da vedere se possibile in lingua originale, per comprendere al meglio la pochezza delle trovate. Già, perché un po' come Calà in Chicken Park, il film è stato girato in inglese e non in italiano, tanto era alta l'ambizione del progetto: pensa un po'.
 
Qualcuno (bisognerebbe capire bene chi) mise in testa a Ezio Greggio di avere una somiglianza con Anthony Perkins e così il "nostro" si fissò in testa l'idea di proporre una parodia di Psycho, anche se poi i produttori lo costrinsero a modificare il progetto e concentrarsi anche sul più recente Il silenzio degli innocenti: nasce così il pastrocchio totale, con "The Silence of the Lambs" che diventa "The silence of the Hams" (che risate).
 
Non bastasse una scrittura incasinata e imbarazzante, che punta su gag visive da due soldi spesso e volentieri basate tristemente su una sballata ironia di genere (il protagonista che dorme con la vestaglietta da donna per dirne una, risate grasse!), Greggio sbaglia totalmente anche la scelta dell'attore protagonista, con il ruolo di Jo Dee Fostar (altre risate infinite) che finisce sulle spalle di Billy Zane, che tra l'altro non troppi anni prima era stato tra i bulletti di Ritorno Al Futuro - Parte II, ma che in questo film se la gioca con lo stesso Greggio per ottenere lo scettro di peggior cane della pellicola.
A rendere ancora più misteriosa la portata del progetto subentra un elenco infinito di volti noti o comunque importanti che compaiono con ruoli più o meno ampi: basti pensare che qui appaiono registi come Joe Dante, John Carpenter e John Landis, senza dimenticare ovviamente lo stesso Mel Brooks, che più avanti sarebbe diventato anche co-protagonista di un altro pessimo progetto hollywoodiano di Greggio, un ruolo che evidentemente convinse Brooks che non era più il caso di far cinema in nessuna veste.
E così tra i vari "F-B-Ahiiiii" vediamo in ordine sparso Shelley Winters, Bubba Smith, John Austin (con tanto di "Mano" che diventa un Piede, rinominato in lingua originale "Smelly Thing" visto che nell'originale della Famiglia Addams la Mano è chiamata semplicemente "The Thing") o Martin Balsam (che fa la parodia di sé stesso in Psycho, tanto da regalarci un "Ancora?!?!" quando "muore" allo stesso modo del capolavoro di Hitchcock), passando per un grande comico come Dom DeLuise, con il suo Dr Animal Cannibal Pizza davvero mortificato da uno script mai all'altezza del suo talento.
 
Magari alcune trovate potrebbero essere così demenziali e stupide che in mano ad altri registi sarebbero anche risultate simpatiche (alcune, poche, di certo non tutte perché la maggior parte sono proprio insalvabili), ma il quadro è talmente sciatto che queste portano solo a momenti trash e/o imbarazzanti, che sfociano in un finale completamente scriteriato che quasi vorrebbe rifare Invito a cena con delitto, solo in maniera totalmente sballata e senza un minimo di raziocinio, senza un minimo di senso. Le idee sono talmente poche che i titoli di coda partono dopo 75 minuti: e per arrivare a questa durata s'è dovuto far ricorso di scempiaggini indicibili.
 
Insomma, al Greggio non c'è mai fine.
Un lavoro talmente sconclusionato che è impossibile anche dare un voto: semplicemente risulta incredibile che una roba del genere sia potuta uscire, che sia stata prodotta e addirittura con ambizioni "internazionali". Resta però uno dei titoli imprescindibili in una cineteca del trash che si rispetti.

sabato 19 giugno 2021

Easy Six: Sands si insabbia malamente

Una sceneggiatura che riesce a essere allo stesso tempo sciatta e caotica appesantisce un film davvero mal strutturato. Si salva solo Jim Belushi.

Easy Six è il classico esempio di film fatto di poche idee ma molto confuse.
 
Julian Sands impersona un professore di college di mezza età incaricato da un amico di andare alla ricerca della figlia, nonché alunna dello stesso professore. La ritrova a Las Vegas a lavorare da prostituta e pensa bene di andarci a letto. Non solo, inizierà una relazione con questa ragazza che lo porterà al disastro personale e professionale.
 
A prevalere su tutto è una certa sciatteria, sia nella messa in scena (pigrissima tanto da portare alla noia) che nella sceneggiatura: sciatteria di scrittura che si combina a un totale caos strutturale, per un mix disastroso.
Si fa fatica a capire la strada che vorrebbe prendere il film, che inizia con i pensieri moralisti da quattro soldi del protagonista, vira malamente sul dramma personale non riuscendo a marcare con alcuna incisività la psicologia dei personaggi (anche a causa di dialoghi perlopiù insulsi) e nel finale sfocia in una conclusione thrilling messa lì senza nessuna convinzione.
La regia fiacca di Chris Iovenko (che non a caso non dirigerà nessun altro lungometraggio nella vita) non aiuta di certo, per un film che va avanti con una opprimente caoticità, tanto che la durata breve degli 86 minuti (e i titoli di coda partono parecchio prima, effettivamente non si supera gli 80 minuti) risulta essere ben più pesante agli occhi dello spettatore.
 
C'è davvero poco da salvare. Katharine Towne (la fanciulla di cui il personaggio di Julian Sands si invaghisce) è un bel vedere, ma da lì a breve abbandonerà la carriera da attrice ed evidentemente non è poi così capacissima a livello recitativo. Le uniche sequenze simpatiche riguardano così Jim Belushi, con la sua assurda e surreale ossessione-odio per Elvis Presley.
 
Insomma, un film di Serie B ma che meriterebbe una categoria ancora inferiore.
 
Voto: 3

lunedì 14 giugno 2021

Scappiamo col malloppo: inspiegabilmente un flop

Film sottovalutato (fu un grosso flop al botteghino) ma parecchio spassoso, con un Bill Murray in grande forma e semplicemente straordinario nella rapina. Poi subentra una serie di personaggi secondari perlopiù azzeccati, con anche volti famosi come Tony Shalhoub (lungi dal diventare Monk: non dice una parola in inglese!) e Stanley Tucci


Ci sono film bruttissimi che per motivi strani diventano dei successoni (o diventano addirittura "cult movies") senza meritarlo minimamente. E film che nascono male, diventano dei flop enormi all'uscita al cinema e che invece avrebbero meritato attenzione decisamente diversa da parte del pubblico.
"Scappiamo col malloppo" (solita scelta straomboide dei titolisti italiani, ben più efficace l'originale "Quick Change") appartiene decisamente alla seconda categoria: è un film stranamente sfortunato, nonostante tutto sommato abbia tutte le componenti per essere un film degno di nota. Un motivo su tutti: un Bill Murray così (purtroppo) non lo si è visto spesso sul grande schermo.
 
Si parte subito alla grande, con Bill Murray modello Al Pacino ne Quel pomeriggio di un giorno da cani a entrare in banca cammuffato da clown per compiere una rapina: lo fa ovviamente in uno stile tutto suo, con un'ironia sopraffina e strafottente specialmente nei confronti del poliziotto (un Jason Robards che lo braccherà per tutto il film), immenso quando convince un ostaggio presuntuoso e pieno di sé (Jack Gilpin) a cedergli un orologio prezioso per appena 300 dollari.
Il piano curato nei dettagli voleva la fuga del rapinatore uscendo dalla banca facendosi passare per ostaggio, insieme ai due complici Geena Davis e Randy Quaid. Tutto andrà liscio per gli autori del colpo? Ovviamente no, perché si troveranno di fronte a situazioni paradossali e assurde e quella che doveva essere una fuga da New York in tutto silenzio diventa una disavventura negli angoli più tortuosi della città, tra taxi, edicole, autobus (strepitosa la parte con il pignolissimo autista) e persino un'involontaria irruzione in un covo di mafiosi.
Ovviamente non tutte le situazioni sono brillanti al massimo, ma in generale il film mantiene un tono scanzonato e bizzarro che intrattiene e in alcune parti diverte parecchio, con Murray che regge benissimo la scena e con Quaid che si ritaglia un paio di buoni momenti, anche se Geena Davis non sembra centratissima nel personaggio, quasi avesse preso la propria parte in un modo eccessivamente serioso.
 
Poco male, perché a tenere alta l'attenzione c'è un cast secondario ampio e con nomi anche di buon rilievo: ho già citato Jason Robards e Jack Gilpin (noto soprattutto al pubblico televisivo), ma nel film vedremo persino un volto come quello di Stanley Tucci (pochi minuti ma incisivi), così come nel finale appare anche il sempre irascibile Kurtwood Smith (reduce da poco dall'apparizione in Robocop e che qualche anno dopo avrebbe trovato una buona ribalta nella serie tv That '70 Show). Ma a sorprendere di più è l'apparizione nel ruolo del taxista mediorentale di Tony Shalhoub, ancora agli inizi della carriera, degli inizi che lo portavano a delle particine secondarie e sempre abbastanza stereotipate viste le proprie origini, per un attore che avrebbe trovato il proprio personaggio cult nel Detective Monk (una sorta di meraviglioso Colombo ossessivo-compulsivo): gli viene assegnato un ruolo parecchio sciocco, tanto che per tutto il film non lo si sentirà pronunciare una parola in inglese (o nella lingua del doppiaggio, per chi guarda il film non in lingua originale) ma già così riesce a far vedere una mimica notevole.
 
Ovvio, non siamo ai livelli da capolavoro della comicità, ma questo film è una commediola che scorre in maniera parecchio spassosa e che non manca di lasciar sottointendere degli aspetti non del tutto positivi di New York (il personaggio di Bill Murray è parecchio critico sulla vita newyorchese).
Da ripescare.
 
Voto: 7,5

giovedì 10 giugno 2021

7 volte 7: Moschin al comando

Film godibile che miscela bene i toni dell'heist movie con una serie di situazioni da vera e propria farsa, risultando decisamente interessante. Su tutti spicca uno straordinario Gastone Moschin, ma degna assolutamente di nota è anche la prova di Adolfo Celi, pur in un personaggio decisamente secondario.
 

 

7 volte 7 inizia subito forte. Siamo in una prigione londinese e i detenuti organizzano una protesta, scatenando le ire e le sadiche reazioni di un immenso Adolfo Celi nelle vesti del direttore, spettacolare nei suoi annunci via interfono.
Sei di questi detenuti finiscono in infermeria e approfittando di una Londra paralizzata dalla finale di FA Cup di calcio, ne approfittano per un'evasione organizzata ai minimi dettagli, tranne per la presenza di un intruso come Lionel Stander, a portarci ai sette elementi del titolo.
Ma è una "semplice" evasione? Assolutamente no. In realtà l'intento è quello di finire alla zecca di stato per stampare uno svariato numero di banconote (arriveranno a due milioni di sterline), senza fare ricorso alle maschere di Salvador Dalì.

Si entra nei meccanismi di un film ben congeniato e capace di intrattenere in maniera più che dignitosa, giocando a metà tra il classico heist movie e la farsa, con buona tensione ma con ottimi momenti sarcastici miscelati. Tra i protagonisti, da citare assolutamente un ineffabile Gastone Moschin, semplicemente impeccabile col suo inimitabile sguardo di ghiaccio, così come straordinario nel suo ruolo di "disturbo" risulta il Sam di Lionel Stander, mentre Raimondo Vianello risulta forse un po' eccessivamente ingessato nel suo ruolo.

Tra una situazione beffarda e l'altra (vedi la vecchietta che si imbatte suo malgrado nella banda), un ruolo centrale ha la partita di calcio che paralizza la città, tanto che persino le guardie finiscono per distrarsi più volte a guardarla. E' un quadro non certo incoerente, vista l'importanza che ha sempre avuto la finale di FA Cup per gli inglesi, in particolare negli anni '60. Nel film si parla di una finale tra Everton e Sheffield Wednesday, che in effetti più o meno in quegli anni (il film è del 1968) ci fu realmente, esattamente nel 1966 (pochi mesi prima del Mondiale e del gol fantasma di Geoff Hurst): nel film però la partita ha uno svolgimento diverso dalla realtà, visto che ad andare in vantaggio per 3-2 è lo Sheffield Wednesday, andando a subire il gol del pareggio sul filo di lana con la partita che finisce ai tempi supplementari. Nella realtà invece la finale del '66 finì per 3-2 ma per l'Everton, che rimontò uno svantaggio di due gol: distorcimento ai fini di trama probabilmente, anche perché i pochi nomi dei calciatori che si sentono citati (in particolare nella lettura delle formazioni) sono aderenti alla realtà, così come accadde realmente l'invasione di campo che viene raccontata dal telecronista. Anche se, per un purista, sentire qualcuno parlare de "lo Sheffield" dà un filino di fastidio (un po' come quelli che parlano de "il Manchester").

A parte questo è un film godibile, che scorre bene e che ha davvero pochi difetti: forse il maggiore di questi consiste nella colonna sonora che, seppur godibile, risulta un filo troppo invadente in alcuni passaggi.
Il voto? Ovviamente un... 7

mercoledì 9 giugno 2021

Il metodo Kominsky: la serie Netflix più matura (in tutti i sensi)

Bello ritrovare un Michael Douglas in questa forma: serie bellissima.


Andando un po' fuori dal proprio target, Netflix ci regala una serie decisamente deliziosa.
Ne Il metodo Kominsky infatti vengono affrontati i vari problemi della terza età, ma una scrittura con punte di notevole sarcasmo e la grande interpretazione dei due protagonisti permette di non vedere questi problemi in modo "pietoso", bensì si riesce a ridere su argomenti davvero delicati.
Una scrittura eccellente, una regia che permette puntate svelte ma non a ritmo eccessivo (un ritmo che probabilmente sarebbe stato poco adeguato all'ambiente), sono combinate a due mostri sacri che mostrano un affiatamento eccellente e dimostrano di essere in eccellente forma: Michael Douglas e Alan Arkin dominano la scena e regalano duetti decisamente memorabili.
In particolare è bello vedere uno come Douglas ancora in grado di essere così pungente e così incisivo, capace di dominare ancora la scena in questo modo: il volto sarà scalfito dalle rughe, lo sguardo sarà un po' invecchiato, ma il carisma di un grande come lui resta intatto.
Si ride tanto ma non è certo una serie sguaiatamente comica: si tratta di una serie agrodolce e intelligente nel trattare i vari temi. Una serie che magari non sarà apprezzata dai teenager a cui solitamente si rivolge Netflix (banalizzando certi prodotti), ma che è assolutamente da vedere.
Il numero limitato di puntate (8 per ognuna delle due stagioni) permette anche di non avere puntate dispersive.
Il livello poi resta decisamente alto per tutte e tre le stagioni, compresa la terza in cui Douglas si ritrova senza la spalla Alan Arkin (ma lo stesso non mancano dei duetti gustosi, in particolare con Kathy Bates), per una serie che resta una vera chicca nell'insieme delle serie tv targate Netflix.