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mercoledì 29 luglio 2020

Vicini del terzo tipo: ibrido non riuscito

Vaughn e soci si trovano benissimo nella comfort zone demenziale della prima ora, ma la virata sci-fi e la lotta con gli alieni fa precipitare il film e risulta disfunzionale.


Come molto spesso capita in questo tipo di film "ibridi", specialmente con attori e autori particolarmente legati a un genere piuttosto immediato e riconoscibile, le cose funzionano quando si va per il semplice, quando gli attori vengono sfruttati sul loro terreno usuale, mentre le cose precipitano quando sia i protagonisti che gli autori escono dalla loro comfort zone tentando una via alternativa.

"Vicini del terzo tipo" ha esattamente questi pregi e difetti. Perché bene o male, senza arrivare a livelli eccelsi, la parte da "buddy movie" con venature demenziali funziona parecchio e riesce a divertire, nella sua semplicità, nella sua grettezza in alcuni momenti, con gag magari non sempre nuove e personaggi già visti in altri film di genere ma che a loro modo riescono ancora a intrattenere.
Però il soggetto del film vuole la virata sci-fi, questa lotta agli alieni (venuti ovviamente a conquistare la Terra, sai che novità) che francamente appare forzatissima. E si vede tutta la poca disinvoltura che gli autori hanno nel maneggiare un genere che non conoscono, riempiendolo di luoghi comuni e portando i protagonisti (già di loro non esattamente adeguati al genere) ad affondare completamente.

Un difetto che per certi versi è comune a parte della filmografia del Ben Stiller "maturo", un tentativo di non proporre l'attore newyorchese continuamente nei panni degli stessi personaggi e provarlo a inserire in situazioni diverse: fatto sta che da Una notte al museo in poi questo giochino non abbia mai funzionato davvero e Stiller appaia al solito bravo, naturale e simpatico quando propone sé stesso, quando resta nello stile recitativo e cinematografico che meglio conosce, ma mai convincente quando esce dal seminato.
Perché anche qui lo si vede in grado di reggere bene il gioco nella parte, ma anche particolarmente impacciato e poco credibile nelle situazioni di lotta aliena.

E' un peccato perché non si capisce nemmeno se questo ibrido sia figlio di ambizioni: se davvero ci fossero queste ambizioni, allora il genere sci-fi dovrebbe essere affrontato con meno banalità e con magari un tentativo maggiore di umorismo e originalità.
E dire che tre dei quattro attori principali erano abbastanza convincenti nella prima parte, perché semplicemente interpretavano ciò che sanno fare. Se Jonah Hill magari appariva più spento ma comunque simpatico nei panni di spalla, a ergersi come assoluto protagonista, strabordante sia fisicamente che per verve, era Vince Vaughn, particolarmente divertente e trascinante, in particolare nei battibecchi con Stiller che lo portavano a "vincere" sempre col mezzo di una demenziale arroganza. Vaughn riesce a strappare diverse risate, con l'ingenuità di quando scopre la matrioska oppure con la stupidità di alcune affermazioni, vedi quando consiglia allo sterile Ben Stiller di fare un trapianto di palle.

L'eccezione tra i personaggi principali è rappresentata da Richard Ayode, lo straordinario co-protagonista della serie tv The IT Crowd: qui però si vede chiaramente la difficoltà dell'attore londinese a immedesimarsi in questo stile di humor americano un po' grossolano, che non appare decisamente nelle sue corde e lo porta a essere un po' un pesce fuor d'acqua.

Insomma, per un'ora il film regge bene, ma globalmente non può raggiungere la sufficienza perché la parte finale (specialmente l'ultima mezz'ora quando si entra nel vivo della lotta con gli alieni) è troppo disfunzionale e finisce per essere particolarmente dannosa.

Voto: 5

domenica 26 luglio 2020

Re Carlo Pinsoglio: the History Man

Il grande eroe di cui tutti abbiamo bisogno


Pochi minuti fa il più grande eroe del calcio italiano attuale, Carlo Pinsoglio, l'unico uomo nello spogliatoio della Juventus che Cristiano Ronaldo considera un suo pari, ha vinto il suo terzo Scudetto della carriera. Tutti da splendido protagonista.

Questo porta Re Carlo nel gotha del calcio italiano: a tre Scudetti, considerando ovviamente solo il campionato italiano, Pinsoglio si ritrova adesso davanti nomi storici (tra cui anche quattro vincitori di Palloni d'Oro assortiti) che hanno vinto appena due Scudetti, come Diego Maradona, Zinedine Zidane, Frank Rijkaard, Michel Platini, George Weah e Cristiano Ronaldo.

Ma un vincente nato come lui non guarda indietro, guarda avanti e a tre Scudetti ha raggiunto nomi come Carlo Ancelotti (da calciatore soltanto), Pietro Anastasi, Roberto Boninsegna, John Charles, Didier Deschamps, Ruud Gullit, Pavel Nedved, Omar Sivori, Luis Suarez (quello che non morde) e Marcelo Zalayeta. Insomma, entra davvero a piè pari nella storia, come merita.

A tre Scudetti raggiunge anche Giuseppe Meazza. E qualcuno già si immagina che lo Juventus Stadium un giorno verrà rinominato come Stadio Carlo Pinzoglio in Vinovo.
Diamo tempo al tempo. 

venerdì 17 luglio 2020

Vivere due volte: film di classe

La malattia del protagonista viene affrontata con classe e tatto, per un film che miscela benissimo il dramma del soggetto con situazioni che strappano più di qualche risata.


Un ex professore universitario di matematica (Oscar Martinez) scopre di avere l'Alzheimer. Nel momento dello sconforto ripensa alla ragazza per cui aveva una cotta giovanile e, incoraggiato soprattutto dalla nipotina Blanca (Mafalda Carbonell), inizia a cercarla a decenni di distanza, raggiunti dalla figlia Julia (Inma Cuesta) che dal canto suo è in crisi col marito (Nacho Lopez).

Per un soggetto non esattamente originalissimo, uno di quei film per cui c'è da ringraziare Netflix, artefice della distribuzione italiana (per quanto non produttori originali del film in questo caso): se non fosse stato per la piattaforma di streaming, non avremmo conosciuto questa pellicola spagnola forte di una scrittura garbata e ispirata, che riesce a fondere con tatto una notevole dose di ironia sofisticata con il prevedibile tono drammatico dovuto alla malattia del protagonista, il quale alterna momenti di assoluto smarrimento a momenti di sorprendente lucidità.
La forza del film è nello stile, che commuove senza eccedere (se non negli ultimissimi minuti) sulla facile emotività, che anzi riesce a miscelare con continuità momenti toccanti a situazioni capaci di strappare risate, mantenendo un ritmo omogeneo con toni bassi e senza ricorrere alla facile spettacolarizzazione. In poche parole una gemma, piena sì di sentimenti forse anche "facili" ma gestiti in un modo che conquista anche chi non apprezza particolarmente le situazioni melodrammatiche.
La malattia del protagonista viene gestita con costrutto e la sceneggiatura è talmente ispirata che persino i temi social (trattati in modo ridicolo dal 90% del cinema attuale) non sono forzati, anzi sono inseriti in modo piacevole, tanto che risulta pure tenero (oltre che divertente) il modo con cui la nipotina al passo coi tempi prova a insegnare all'anziano il mondo delle nuove tecnologie.

A piacere poi sono anche le interpretazioni, a iniziare proprio dalla nipote, la giovanissima Mafalda Carbonell, ragazzina che peraltro ha dovuto affrontare già i propri problemi seri nel corso della sua giovane vita: la figlia del cantante e umorista Pablo Carbonell è nata con una forma di artrogriposi multipla congenita che limita i suoi movimenti (e lo si può vedere anche nel film), tanto da aver dovuto subire già quasi una dozzina di operazioni a soli 11 anni di età. E' lei l'elemento in più del film perché, a differenza di tanti attori giovanissimi utilizzati in pellicole simili, a spiccare è la sua spigliatezza e la sua simpatia naturale, tanto che probabilmente le parti migliori e più gustose del film sono quelle derivanti al suo rapporto con il protagonista.
Da par suo Oscar Martinez è assolutamente convincente nel ruolo di primo piano, capace di commuovere nella sua interpretazione e di divertire con ficcanti battute sarcastiche.

Finale prevedibilmente strappalacrime, ma che è adeguatissimo al contesto, che anzi risulta piacevole per il modo scelto dagli autori di chiudere questa storia.
Davvero un bel film, dotato anche di una certa classe stilistica.

Voto: 9

mercoledì 15 luglio 2020

Tutta la vita davanti: deriva radical chic

Ritratto del precariato giovanile sotto le lenti della visione radical chic, quindi completamente distorto. Virzì più che vittima del "vorrei ma non posso" resta vittima del "vorrei... ma non voglio davvero". E la morale definitiva è che chi si interessa dei diritti dei lavoratori fa solo danni a essi stessi: nulla di più sbagliato. 


Nonostante le buone prove generali degli attori (su tutti al solito un eccellente Valerio Mastandrea, ma notevole anche Sabrina Ferilli), un film del genere non può che lasciare grossa frustrazione a chi lo vede, per come è stato concepito a livello autoriale.
Il ritratto del precariato giovanile poteva essere importante e profondo, ma non incide a dovere, anzi rimane piuttosto sterile a causa di una sceneggiatura poco grintosa, che finisce per ritrarre in modo eccessivamente grottesco troppi personaggi e rende quasi surreale (ma senza la giusta ironia) una condizione serissima: davvero pessimo vedere il tentativo di metafora poco calzante che porta i lavoratori che non hanno inciso nel corso del mese a subire delle punizioni quasi fantozziane, un mezzuccio che non centra nessun obiettivo, non riesce a rendere spiritoso il film né lo rende realistico.

E' la scrittura a essere sbagliata in questo film, fin dall'inizio: nella prima mezz'ora infatti la sceneggiatura è talmente frammentaria che per unire le scene c'è bisogno di una fastidiosa e invadentissima voce fuori campo, mezzo che usato a modo può accompagnare bene un film ma che è solo urtante se serve a incollare le scene di un film che inizialmente è parecchio disunito.
La storia diventa più omogenea andando avanti, ma la sceneggiatura non sa essere efficace, ricorrendo a personaggi eccessivamente grotteschi (su tutti quelli di Elio Germano e Massimo Ghini, che da par loro salvano il salvabile ma che si trovano a impersonificare qualcosa scritta veramente male) per vivacizzare un film che non sa essere né satirico né di vera denuncia.
Virzì, come spesso gli capita (penso anche a Ferie d'agosto, dove la morale pseudo-politica finiva per essere facilotta e qualunquista), più che vittima del "vorrei ma non posso" finisce vittima del "vorrei ma... in realtà non voglio". Tanto che la morale finale è che chi si interessa dei diritti dei lavoratori fa solo danni a essi stessi: nulla di più sbagliato, ridicolo e osceno da portare come messaggio. In definitiva si ha un ritratto dei giovani senza realmente volerli capire, un film che sembra avere in sé una pesante incrostatura da radical chic, ovvero di coloro che pensano di sapere tutto ma che non si sono mai abbassati a vivere realmente quelle situazioni e finiscono per distorcerle malamente.

Aggiungiamoci nudità gratuite assortite e un pessimo finale e la frittata è completa.
Ancora una volta il cinema italiano odierno non sa raccontare in modo convincente la realtà, finendo per essere distorto nella sua visione perché incapace di immedersimarsi sul reale, come se gli autori italiani vivessero in una bolla estranea al contesto che vorrebbero riportare.

Voto: 2

martedì 14 luglio 2020

Mickey occhi blu: una godibile farsetta

Senza essere un film né originale né memorabile, la bravura di Grant e Caan rende la visione sufficientemente piacevole


Ci sono film che pur non spiccando in brillantezza di scrittura, pur procedendo in modo del tutto prevedibile e con situazioni non poi così originali, hanno comunque una messa in scena e una recitazione tale da garantire un intrattenimento accettabile: Mickey occhi blu rientra pienamente in questa categoria. Non è per nulla un film memorabile, anzi per certi versi si inserisce in un filone (quello di usare i luoghi comuni della mafia americana a scopo di commedia) abbastanza trafficato, considerando anche che giusto l'anno prima era uscito Terapia e pallottole, in cui peraltro appariva anche il solito Joe Vitarelli, presente anche qui nell'usuale ruolo di scagnozzo della famiglia mafiosa: eppure è un film che riesce ad avere un suo senso, perché per certi versi la stessa sceneggiatura poco originale riesce a crearsi dei margini per diverse scene gustose e perché la bravura dei protagonisti tiene in pieni la baracca.

Era questo il periodo d'oro di Hugh Grant e questo film è stato prodotto proprio per sfruttare facilmente il suo appeal verso il pubblico, affiancandogli un James Caan ovviamente veterano dei film di mafia, non fosse altro per essere entrato nella storia del cinema per il suo Sonny Corleone ne Il Padrino, che nel corso del film viene peraltro citato tra i film che Grant vuole ricordarsi di affittare per imparare la parlata delle famiglie italo-americane.
Pur restando in un continuo senso di déjà-vu, perché la storia procede su strade facilmente immaginabili, già l'incipit fa venire il sorriso, che resta per tutta la durata del film. Si inizia con la bella scena al ristorante cinese e la disastrosa proposta di matrimonio di Hugh Grant a Jeanne Tripplehorn (la ex dottoressa Beth Garner in Basic Instinct), ma chiaramente il film è fatto dal gioco a due tra Grant e Caan, con gli interessi della famiglia mafiosa a invadere la vita del tranquillo banditore d'aste. E il merito della sceneggiatura è proprio quello di lasciare comunque quella positiva sensazione nello spettatore: non tutto scorre perfettamente liscio, ma alcune trovate sono azzeccatissime, su tutte quella dei terribili quadri di Johnny Graziosi (figlio di uno dei boss più temuti), tra cui un incredibile e inarrivabile Gesù col mitra, che vengono battuti all'asta a 50mila e 115mila dollari.
Molto divertenti anche i tentativi di Grant (specialmente in lingua originale) di imparare a parlare con l'inflessione e la tonalità degli italo-americani, per la disperazione di Caan.

Insomma, non parliamo certo di un capolavoro, ma di un film che si lascia guardare con discreto piacere per il mestiere degli attori.
Il finale è un po' caotico, ma tutto sommato adeguato al contesto.

Piccolo ruolo tra i frequentatori della galleria d'arte per Mark Margolis, un decennio prima di diventare un personaggio di culto in tv per la sua interpretazione di Hector "Tio" Salamanca in Breaking Bad (e successivamente in Better Call Saul).

Voto: 6

lunedì 13 luglio 2020

Libera uscita: squallore farrellyano

I Farrelly continuano a proporre oscenità e volgarità a raffica, pensando che il cattivo gusto da solo basti a far ridere, qui con anche un pesante senso misogino. Film imbarazzante da vedere, soprattutto pensando che è uscito nemmeno dieci anni fa.


Libera Uscita è l'ennesimo film che sta lì a confermare la pazzesca sopravvalutazione dei fratelli Farrelly, due che vivono ancora di rendita per due film effettivamente gustosi se non addirittura di culto come soprattutto Scemo & più Scemo e anche Tutti pazzi per Mary ma che da lì in poi non solo hanno perso completamente la bussola, ma che hanno proposto anche oscenità ributtanti come Comic Movie, che è uno dei film più schifosi che siano mai stati concepiti.

Libera Uscita è un disastro colossale. Non bastasse il pesantissimo tono misogino di alcuni dialoghi e della storia in sé (poverini, i maschi americani di mezza età sono dei frustrati solo a causa delle proprie mogli, roba patetica solo a sentirla) vengono proposte situazioni insulse e volgari senza minimo ritegno dei tempi comici: il film è fatto di genitali e scurrilità continue da finti ribelli senza un gusto umoristico. Il film è solo volgare, l'unica scena con una minima costruzione comica è nella fase ancora introduttiva quando gli amici e le mogli dentro la panic room sentono i discorsi triviali dei due protagonisti. Da lì in poi lo squallore regna sovrano.

L'unica impresa dei Farrelly è riuscire a rendere antipatico persino uno simpaticissimo come Owen Wilson.
Le mogli dei protagonisti sarebbero un'attrice di buon livello e con una bella espressività come Jenna Fischer (la deliziosa Pam di The Office) e la bravissima Christina Applegate: il ruolo che i Farrelly le assegnano è carico di preconcetti e maschilismo da far venire la nausea, roba che nemmeno il peggior Brizzi.
E Libera Uscita non è un film che mostra la palese misoginia solo perché figlio di altri tempi, altri usi, altri linguaggi: è uscito appena nel 2011, nemmeno dieci anni fa. Il che lo rende ancora più preoccupante. Perlomeno le dottoresse, le liceali e le soldatesse del cinema italiano vanno per la quarantina di anni fa!

Voto: 0

domenica 12 luglio 2020

Il buco: splendido anticlassismo spagnolo

"La merda è più efficace della solidarietà spontanea"


I malcapitati personaggi sono inseriti in una costruzione verticale di oltre duecento piano. La piattaforma parte dal piano zero con ogni possibile prelibatezza cibaria, in quantità sufficiente per saziare le coppie presenti a ogni piano, dal primo all'ultimo: basterebbe quindi razionalizzare il cibo a ogni piano per accontentare tutti.
Ovviamente però chi senza alcun motivo meritorio (ogni mese casualmente le coppie vengono spostate in piani diversi) si trova ai primissimi piani si abbuffa senza ritegno lasciando solo scarti e avanzi a chi si trova nei piani inferiori.

Soggetto semplice semplice per un film di altissimo impatto metaforico, girato apparentemente a bassissimo budget visto che in sostanza (a parte un paio di flashback che ci spiegano come il protagonista sia finito dentro questo buco) ci si trova claustrofobicamente rinchiusi in queste mura oscure tutte uguali per tutto il film. Ma non conta l'impatto visivo, conta il messaggio e la storia. E qui si vola molto alti.
Siamo sulla metafora della lotta sociale, riportata meravigliosamente in auge da Parasite, qui non raggiungendo la stessa ampiezza di discorso ma toccando parecchio: il messaggio è lì pronto a essere colto da chi ha un po' di mente aperta, la metafora è efficacissima.

Il film poi non eccede in spettacolarismi, pensa più alla forza della metafora che a rendere la visione appetibile per tutti (non molti potranno digerire i passaggi che vedono parti violente e mezzi di sopravvivenza che sfoceranno nel cannibalismo) e riesce con ottima cura nella sceneggiatura a non diventare monotono e ripetitivo nonostante non si esca dall'unico ambiente. Ed è facile immedesimarsi nel protagonista, pensare a come sopravvivere nella situazione se si fosse al suo posto: si procederebbe per bassezze impossibili da accettare moralmente (vedi l'aggredire il compagno di piano allo scopo di cibarsene quando ci si trova nei piani più bassi) o si proverebbe a cambiare qualcosa, e come fare?

Ivan Massagué, già visto in un ruolo completamente agli antipodi nella vivace e divertente serie tv Benvenuti in famiglia, si dimostra protagonista più che adeguato e rende facile empatizzare con la sua situazione: essendo per forza di cose pochi i personaggi e i volti con cui si familizzerà nel corso della storia, il suo ruolo era assolutamente fondamentale nella riuscita del film.

E il film riesce, ha un finale a modo suo cruento ma con un senso che è tutto meno che forzato: e lascia il segno indelebilmente.

Voto: 9


[Metafora personale bonus: immaginate di trovarvi in quella situazione. Con Salvini al piano di sopra. Una sfiga pazzesca. Lui un mese ad abbuffarsi e a te non rimarrebbe assolutamente nulla ogni giorno]

mercoledì 8 luglio 2020

È per il tuo bene: discreto intrattenimento

Non è certo questo il film che risolleverà il cinema italiano dalla propria crisi nerissima, ma è un film che riesce a intrattenere e a tratti anche a divertire. Merito soprattutto del mestiere degli attori protagonisti, Salemme su tutti.


Peggiori auspici per un film proprio non potevano esserci. La polemica sulla locandina (per quanto a creare il pastrocchio sia chi l'ha distribuito, non chi ci ha lavorato sopra), il fatto che si tratti dell'ennesimo remake (a questo giro si ricicla dalla Spagna dalla pellicola Es por tu bien), una scena introduttiva parecchio infelice e un film che per i primi 10 minuti sembra il prologo del disastro (vedi la scena dei "vaffa").
Eppure, nonostante tanti difetti, la noia non arriva sostanzialmente mai durante la visione di E' per il tuo bene, che solo nella parte finale lascia un sapore non convincente per come viene rincorso il solito facile "happy ending".

Anche se (come il sottoscritto) approcci la visione con parecchi pregiudizi, sostanzialmente il film non crea mai quel "punto di rottura" che porta alla frustrazione, anzi il film si mantiene vivace grazie alla regia di Ravello e le situazioni alla lunga diventano simpatiche, portano al sorriso se non proprio alla risate. Certo, la storia è quella che è, ma i tentativi strampalati dei tre protagonisti portano a una fase centrale del film parecchio piacevole.
Buon merito va dato agli attori, pur in dei ruoli non esattamente congeniali. Sia Battiston che Giallini infatti sembrano metterci un po' a entrare realmente in personaggi che non sfruttano benissimo le proprie doti attoriali, ma entrambi hanno la bravura per cavarsela più che discretamente con mestiere: se Giallini deve un po' contenersi ma comunque riesce a mantenere costante la propria prestazione, Battiston dopo un inizio stonato (anche per una sceneggiatura che gli mette in bocca delle frasi non esaltanti) si accende e finisce per creare probabilmente il momento più gustoso della pellicola nella scena del furto, quando per creare i presupposti dello scasso finisce per diventare eccessivamente distruttivo.
Su tutti però a spiccare e ad alzare il livello del film è Vincenzo Salemme, che da troppi anni sembrava essersi perduto e spento. I fasti delle prime commedie "teatrali" restano lontani, anche perché qui non c'è quel feeling innato che il napoletano aveva coi Casagrande e Buccirosso di turno, ma nell'ormai solito ruolo di padre apprensivo si rivede un Salemme convincente e divertente come non lo si vedeva da tanto tempo: a un certo punto del film il napoletano riesce a strappare il sorriso ogni volta che apre bocca e sono abbastanza azzeccati i suoi pregiudizi con il trapper fidanzato della figlia ("le tue canzoni parlano di canne" "mica vuol dire che me le faccio davvero, mica Gianni Morandi andava davvero a prendere il latte" "sì ma nei testi si parla sempre di sparare" "perché Gianni Morandi sparava davvero ai vietcong?").

Non c'è nulla di trascendentale, non è certo questo il film che risolleverà il cinema italiano dalla propria crisi nerissima, ma il film riesce a intrattenere ed è già qualcosa.
Tutto ciò nei difetti evidenti, in particolare per quanto riguarda il solito ruolo di puro contorno assegnato in questo genere di film alle donne: verrebbe da dire che se nella locandina originale non c'erano i nomi delle attrici un motivo c'era ed era legato al ruolo totalmente marginale che queste avevano. Al solito per gli sceneggiatori italiani, le mogli dei protagonisti servono per spaccare piatti e per cacciare da casa i mariti quando le cose non vanno. Fine. Giusto la Lodovini per qualche minuto ha un ruolo di minima presenza, ma finisce subito.

Negativo e spento il finale, con sceneggiatura e regia che non riescono a mantenere il brio e le situazioni divertenti che si erano viste per tutto il film e con i personaggi che hanno un cambio di idee e mentalità troppo repentino per essere credibile.

Voto: 5,5

domenica 5 luglio 2020

Gli uomini d'oro: De Luigi d'oro

Apprezzabile tentativo di proporre un qualcosa di diverso nel cupo panorama del cinema italiano attuale. Non tutto funziona al meglio, ma globalmente il film si fa apprezzare, forte anche di buone interpretazioni di tutto il cast, un superbo De Luigi su tutti.


Dopo aver fatto le prove generali con I Peggiori (film non esattamente riuscitissimo), Vincenzo Alfieri alza il tiro, migliora la scrittura e sfrutta un casting molto più ambizioso per proporre un secondo lavoro che, per quanto imperfetto nella sua globalità, finisce per forza di cose per spiccare nel grigio panorama del cinema italiano.
Partendo (liberamente, visto che viene cambiata la data dell'evento) da un reale fatto di cronaca, viene costruito un noir cupo decisamente insolito per il cinema italiano attuale. Proprio questo volersi staccare da un tipo di cinema troppo omologato e poco coraggioso rappresenta la caratteristica più interessante de Gli uomini d'oro, anche per il semplice fatto di riuscire a dare agli attori coinvolti un modo nuovo di esprimersi, dimostrando di come questi siano più che capaci di interpretare qualcosa di diverso dal solito personaggio stereotipato e senza ambizioni che trovano puntualmente nelle tipiche produzioni italiane.
Già, perché il problema del cinema italiano attuale non è certo imputabile agli attori, o perlomeno non soltanto a loro: gli attori scarsi che diventano popolari ben oltre i loro meriti ci sono stati anche nel periodo d'oro del cinema italiano e si trovano facilmente anche nel cinema internazionale (quanti ce ne sono a Hollywood?). Il vero problema di fondo però sta a monte, nella mancanza di idee, nella mancanza di ambizioni, nella mancanza di coraggio che caratterizzano ormai da decenni questo cinema.

E questo film lo dimostra, perché tutti gli attori (persino Giampaolo Morelli, che pure con i Manetti Bros aveva legato il proprio nome a qualcosa di diverso per il panorama italiano) trovano un ruolo e un linguaggio più alto e rispondono con delle interpretazioni decisamente soddisfacenti.
Così si crea un filo doppio parallelo: gli attori sfruttano una scrittura più particolare e lo stesso Alfieri sfrutta il succitato casting più ambizioso, due circostanze che portano buona vena al film.

Su tutti spicca chiaramente un nome, quello di Fabio De Luigi, che dimostra in questo ruolo quanto personalmente abbia sempre pensato, ovvero che a livello di talento e di bravura non fosse poi così inferiore ai mostri sacri storici del cinema italiano. Finora lo si era appurato davvero raramente, visto che solitamente s'è trovato a lavorare con copioni mediocri e quasi sempre in film insalvabili, ma qui De Luigi dimostra che non è solo attore adatto a ruoli da bonaccione da commedia, perché regala qui una prova straordinariamente intensa e drammatica.

Una grandissima prova d'attore che impreziosisce ulteriormente un film in cui chiaramente non tutto fila liscio, ci sono diversi inceppi nella storia e non tutto è messo in scena in modo convincente. Resta però un film globalmente apprezzabile, non fosse altro per il tentativo di staccarsi dalla spenta omogeneità attuale. Le atmosfere da noir sono ben riportate, forse ci voleva un po' più di originalità nell'affrontare il genere ma il film sicuramente intriga e interessa per tutta la sua durata. Vedremo se in futuro Alfieri riuscirà ad affinare ulteriormente il proprio operato, se riuscirà a ripetere questo che resta un lavoro sicuramente interessante.

Voto: 7

sabato 4 luglio 2020

Sotto il sole di Riccione: Vanzina+youtubers, cosa abbiamo mai fatto di male per meritarceli?

La presenza degli smartphone non può certo rendere fresche delle storie completamente ammuffite. Perlomeno i Sapore di mare d'antan bene o male avevano degli attori noti che riuscivano a creare dei personaggi riconoscibili: qui abbiamo dei volti mediocri a proporre senza un minimo di creatività dei personaggi obsoleti e inutili


Quando non si trova il film straniero (buono o meno che sia) di cui fare un inutile remake, il cinema italiano non smentisce la propria atavica assenza di idee e si affida alle operazioni nostalgia costruite a tavolino: non c'è nulla di male in sé per sé a riempire il cinema con un tocco di rivisitazione del passato, ma bisogna farlo con un senso costruttivo che già di partenza (dalla prima scena in cui appare Roncato) si capisce che Sotto il sole di Riccione non ha neanche lontanamente, appioppandoci quello che semplicemente è un Sapore di mare con gli youtuber. E se film di quel tipo sono diventati (per alcuni, non per il sottoscritto onestamente) per certi versi "memorabili" era perché erano zeppi di attori noti capaci di sopperire anche alla pochezza media delle storie per la capacità di proporre dei personaggi propri assolutamente riconoscibili, cosa che qua (a parte qualche volto messo lì per la suddetta nostalgia, come Roncato e Isabella Ferrari) non esiste assolutamente perché questi ragazzetti che ci appioppano oltre a essere sostanzialmente non conosciuti (a meno che lo siano per una certa nicchia, nessun volto dice niente) sono assolutamente senza personalità, incapaci di provare a dare un minimo di caratterizzazione ai propri spenti personaggi (e questa è la cosa più grave). Aggiungiamo a questo la solita scrittura banalissima tipica dell'Enrico Vanzina di tanto tempo a questa parte, la regia degli youtuber che improvvisano un film, e abbiamo un risultato puramente squallido: pur con la bassissima età media (quasi bassa quanto il QI espresso dai dialoghi), si tratta così di un film vetusto in partenza, perché non può essere la presenza degli smartphone a rendere fresche delle storie completamente ammuffite. L'ennesima fotografia di un disastrato cinema italiano.

Il film va avanti stanco, sciatto. Riesce ad annoiare e ad irritare, a farti pensare un "cosa abbiamo fatto di male per meritarci il binomio Vanzina+youtubers?". Non solo non c'è nulla da salvare, ma c'è persino pochissimo da commentare, tanta è l'inutilità.

Disastro.

Voto: 0

mercoledì 1 luglio 2020

Tommaso Berni: una carriera esaltante

Numeri e statistiche del portiere più amato d'Italia


Voglio raccontarvi la storia di Tommaso Berni con numeri e dati.
Berni, terzo portiere dell'Inter da sei anni, ha avuto l'onore delle cronache domenica sera facendosi espellere dalla panchina: quest'anno per Tommy B zero presenze. E due espulsioni. Focoso uomo latino!

Ma guardiamo meglio la carriera di club di Tommaso. Lui sostanzialmente è in prima squadra dal 2001, quando addirittura era al vecchio Wimbledon. Sono 19 anni. In 19 anni Berni ha giocato un totale di 120 partite coi club! In media poco più di sei all'anno! 108 partite di campionato, 10 di coppa nazionale e due di coppa di lega portoghese (già è stato anche al Braga).
Di queste 120, 78 partite sono concentrate in due anni con la Ternana, 2004-05 e 2005-06: quindi nei restanti 17 anni di carriera di club ha giocato 42 partite ufficiali.

Questo continua ad avere stipendio da calciatore di Serie A. E non vede il campo in una partita ufficiale dal 28 Ottobre 2012, un Sampdoria-Cagliari 0-1 che a questo punto passerà alla storia per questo fatto.

Tre giorni dopo Berni tornerà in panchina, a San Siro, Inter-Sampdoria 3-2: iniziando così la meravigliosa striscia di partite non giocate. E quel 31 Ottobre 2012 Berni iniziò questa striscia facendo la cosa che meglio sa fare nella sua vita: facendosi espellere. Dalla panchina.
Una carriera esaltante.