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martedì 20 agosto 2019

Orange Is The New Black. La forza della coralità

Un vero gioiello. E' un dramma (non senza alcuni sprazzi di sottile ironia) corale che si mantiene di livello alto nel corso delle stagioni. Una delle migliori produzioni di Netflix. 


Il grande gioiellino tra le produzioni di Netflix.
Una serie che fa della coralità il proprio punto di forza, ottima nel mescolare momenti di sottile ironia con il dramma della difficilissima vita in galera. I personaggi sono sostanzialmente tutti ben caratterizzati, l'uso del flashback è intelligente e ci fa capire come ognuno è finito in quella situazione e la vita in detenzione è scandita bene in ogni suo passaggio.

La forza di questa serie è in fase di sceneggiatura: Orange Is The New Black è scritta in maniera egregia e capace di rimanere di alto livello medio in tutte le puntate e di conseguenza in tutte le stagioni.

Il personaggio di spicco, quello da copertina, è ovviamente Piper Chapman, interpretata in modo magistrale da un'immensa Taylor Schilling, impacciata agli inizi e poi via via "adattata" alla vita da detenuta, capace di ficcarsi in qualche guaio per il suo carattere e di riallacciare i rapporti con la sua ex, l'Alex Vause di una Laura Prepon mai così incisiva (davvero sembra aver trovato il personaggio della sua carriera). Ma la forza di ogni puntata è la capacità di dare spazio a tanti personaggi ogni volta, così sia le detenute che le guardie che gli stessi dirigenti del penitenziario (vedi soprattutto Joe Caputo) sono parte integrante e fondamentale. Questo ci regala davvero tanti personaggi a cui a proprio modo affezionarsi, nonostante poi nessuno di questi sia senza difetti: un'altra forza è quella di saperti dare forte empatia pur con tutte le pecche dei vari personaggi.

La settima è stata l'ultima stagione e sostanzialmente è giusto che si chiuda prima che arrivi un possibile cedimento, che in realtà appariva distante: è anche normale però provare a chiudere prima che sia troppo tardi, visto che le idee in una serie in ambiente chiuso come questa non possono essere infinite. Ne è uscita fuori una settima stagione con toni un po' più malinconici rispetto alle precedenti, ma senza esagerare. Anche l'ultima è un'ottima stagione, con un buon finale di serie. Una chiusura adeguata per quella che è stata una serie tv di altissimo livello.

Degna di nota anche la sigla, d'impatto sia visivamente che per le parole della canzone.

sabato 3 agosto 2019

Stranger Things. Diciamolo: è una colossale vaccata

Piuttosto sopravvalutata. E' una serie che parte discretamente, ma che dopo due brutti finali nelle prime due stagioni affonda in maniera impietosa in una ridicola terza stagione e diventa insalvabile.




Il concetto base di questa serie è semplice semplice: "Pigliamo una città sperduta e riempiamola di mostri improbabili, mischiamo tutto quanto ci viene in mente da film o altre serie e infiliamoci uno pseudo-effetto revival che piace sempre".

Per la verità un certo costrutto e un certo fascino in parte lo si vede pure nella prima stagione, ma lo sviluppo diventa tragico. Già il finale di prima stagione era davvero brutto, poi si era visto un pesante calo di qualità nella seconda stagione (con tanto di ulteriore finale brutto) per poi toccare il fondo con una disastrosa e pietosa terza stagione, in cui oltre al ritorno dei mostri (bastano sti mostri a valere il genere di "fantascienza"?) vengono infilati a forza dei russi da macchietta a dare giusto un effetto da americana. Una roba improbabile e piuttosto imbarazzante da vedere (e un altro finale di stagione piuttosto ridicolo, per giunta dilungatissimo).

Quanto seminato bene all'inizio della prima stagione poi viene rovinato in maniera disastrosa, il gruppetto protagonista all'inizio aveva un senso logico (peraltro entrava dentro anche il tema del bullismo, completamente dimenticato in seguito in maniera anche incoerente) per poi diventare farsesco e assolutamente irreale.
Fotografia di ciò è il personaggio di Undici, che era affascinante nella prima stagione quando non parlava e che in seguito diventa piuttosto insulso (spettacolare la terza stagione in cui la si vede sostanzialmente fare la stessa faccia sconvolta per tutte le puntate, oltre ad avere sempre il naso gocciolante e non degnarsi di portarsi mai appresso qualcosa a tamponarselo).
Che dire poi del personaggio di Will Byers, il ragazzino che scompare nella prima stagione e che poi nelle altre due sta lì con la stessa espressione?

Peraltro i piccoli attori non recitano nemmeno malaccio, il problema è come vengono sviluppati tutti i loro personaggi.

Altra componente tragica della terza stagione sono i battibecchi tra Winona Ryder e David Harbour, per non parlare del personaggio di Erica Sinclair, la ragazzina nera che si aggiunge al gruppo e che è talmente insopportabile con il suo sarcasmo da due soldi che ti viene da sperare che il mostro la sbudelli il prima possibile.

Dopo le prime due stagioni avevo dato (su FilmTv) come voto un 5 (o due stelline e mezza), ma la terza è talmente catastrofica che devo rivedere in completo ribasso. E attenzione perché in previsione c'è ancora almeno un'altra stagione, chissà cosa di nuovo potranno inventarsi (ovvero niente, perché seconda e terza stagione non hanno nulla di nuovo, se non appunto la ridicola introduzione dei russi).

Serie pompatissima e clamorosamente sopravvalutata. E' vero che il genere non è attinente ai miei gusti, ma qua davvero c'è poco che funzioni. E non bastano certo i rimandi agli anni '80 a renderla accettabile, anche perché al ben vedere queste sono delle grosse ruffianate.
Insalvabile. Ci sono serie ben migliori (e molto meno pubblicizzate) su Netflix. Questa per me è ciò che per Fantozzi era la Corazzata Potemkin.

Il segreto di David - The Stepfather. Sceneggiatura a casaccio

Modesto thriller con pesanti vuoti di sceneggiatura.




Il super serial killer cattivissimo sterminatore di famiglie è talmente geniale dallo sfuggire alla polizia per la capacità di non lasciare alcuna traccia di sé, nessuna impronta digitale, addirittura nessuna foto, tanto da restare impunito e riuscire a farsi una vita altrove. Questo stesso spietato personaggio però visita il sito dei più ricercati d'America e cosa fa, si dimentica di cancellare la cronologia di internet!!

Una situazione delirante, una vera sconcezza di sceneggiatura che rappresenta il punto più basso di un film altresì piatto, mai capace di creare vera tensione nonostante si lasci trapelare una presunta spietatezza del protagonista. Il film non accelera mai e ha un finale piuttosto raffazzonato (anche qui con un paio di situazioni "rivedibili" per un occhio critico).

Film modesto.

Alta fedeltà. Basso risultato

John Cusack che parla continuamente in camera è la dimostrazione di una trasposizione troppo rigida e poco efficace del buon libro di Nick Hornby. Non funziona.




Come accadrà anni dopo con Juliet, Naked, in Alta Fedeltà viene tentata un'americanizzazione delle opere di Nick Hornby. E come previsto, l'obiettivo non viene centrato.

Per quanto la cosa lasci perplessi, non è lo spostare l'ambientazione dell'opera da Londra a Chicago il grosso problema del film. Il problema è che la trasposizione appare troppo rigida e con poco cuore.
Vedere John Cusack parlare ogni due per tre alla telecamera stanca dopo mezz'ora, è un mezzo poco consono di provare a non perdere buona parte dei pensieri espressi dal romanzo. Non funziona.

E' un film che non ingrana, non ha le fasi umoristiche del libro (che è un buon libro, anche se non il mio preferito tra quelli di Hornby, pur essendo il più famoso), lascia la musica un po' in disparte e non centra bene alcuni personaggi: lasciare così defilato il personaggio (fondamentale) di Marie DeSalle è una scelta suicida che rende più povero il film.

E poi... manca Got to Get You Off My Mind!

Dead to me - Amiche per la morte. Serie assolutamente piacevole

Ottima l'interazione tra le due protagoniste, specialmente grazie a una eccellente Christina Applegate, per una serie che mixa bene black humor e dramma.




Tra i produttori di questa serie c'è il nome famoso di Will Ferrell, ma non aspettatevi nulla di caciarone e grossolano.
Dead To Me è una serie che vanta un buon mix tra un sottile black humor e il dramma, che mostra il rapporto di amicizia tra due donne legate in modo più stretto rispetto a quanto possa apparire all'inizio.

Se con i film le produzioni Netflix troppo spesso lasciano qualcosina a desiderare, con le serie tv il livello è mediamente buono e questa Dead To Me si inserisce benissimo nella media.
Il tutto si basa sulle interpretazioni delle due protagoniste, la bizzarra Judy Hale a cui dà volto Linda Cardellini e soprattutto Jen Harding, che affronta il dramma della morte del marito e che vede una Christina Applegate davvero eccellente esibirsi in quella che è una delle migliori prove della carriera.

Tutte e 10 le puntate (della durata media di mezz'ora) hanno una qualità costante e il finale è assolutamente coerente.
Promossa.

Top Gun. La peggiore americanata di sempre?

L'americanata più americanata possibile. Il film che odio di più di sempre.




Il film che odio di più nella storia?
Assolutamente Top Gun.

La perfetta americanata, nonché spottone per il riarmo militare di Reagan, finto machismo degno dei peggiori maschilisti attuali, ripieno di quelle pagliacciate militari patetiche con contorno della storiellina d'amore da due soldi.

E questi sono i pregi.

L'unica cosa buona di sto film è l'aver ispirato una parodia molto più riuscita, Hot Shots!.

Ma se lo vedo mi viene il latte alle ginocchia. Ne sono completamente allergico.

Mamma o papà? Colpi bassi tra Albanese e Cortellesi

Dopo un inizio stentato, il film si accende e riesce a trovare delle scene divertenti. Meglio Albanese della Cortellesi, penalizzata da un fastidioso accento veneto.




Vista la cronica assenza di idee, il cinema italiano continua ad affidarsi alla proposizione di remake spesso improbabili.
Ogni tanto (proprio ogni tanto) capita un remake che ha senso di esistere.

Non sembrava nulla di ciò in realtà questo "Mamma o Papà?" che ha un inizio lento e che stenta a decollare. Quando però la situazione del divorzio entra nel vivo e i due protagonisti si contendono il... "non-affidamento" dei figli, ecco che il film accelera e riesce a imbroccare una serie di scene abbastanza divertenti, in particolare quella in cui il padre porta i figli in sala parto per mostrar loro quella che è la vita del medico, gag piuttosto delirante.

Tra i due protagonisti vince ai punti Antonio Albanese, che al solito è molto professionale e riesce a eccellere nel suo mix tra il misurato e il surreale. Per quanto riguarda Paola Cortellesi, bisognerebbe capire perché gli autori le impongano un improbabile (e a tratti fastidioso) accento veneto, completo sintomo di un cinema italiano che proprio non riesce a uscire da una certa provincialità (ma d'altronde abbiamo anche vari personaggi di serie tv americane a cui viene affibbiato nel doppiaggio un assurdo accento napoletano...). E' questa la zavorra per la pur brava attrice, che tuttavia riesce a non affondare nonostante una penalità simile.

Puro contorno i figli e i personaggi secondari, con il bravo Claudio Gioè che si ritrova a un ruolo senza anima: e dispiace perché questo signore è molto bravo e meriterebbe ruoli ben più ampi.

Finale un po' forzatello ma per fortuna relativamente breve, per un film che tutto sommato ha parecchi difetti ma che riesce a farli dimenticare in parte con la forza dei propri pregi.

Modalità aereo. Un soggetto che scema dopo 20 minuti, tutto il resto è porcheria.

Ennesima schifezza in salsa brizziana, con l'idea del soggetto che viene sprecata in 20 minuti e che poi viene sostituita con fasi di una banalità estrema.




Spiace vedere buoni esponenti della commedia italiana come Lillo, come Abbrescia e come Caterina Guzzanti (pure sprecatissima) costretti ad arrabattarsi in filmetti senza speranza come questo. Spiace soprattutto vedere ancora l'ennesima mega-boiata in salsa brizziana.

L'idea del soggetto è sprecata in 20 minuti, che peraltro non sono neanche così divertenti (con l'ennesima ruffianata tipica di Brizzi che arriva subito con l'apparizione tristissima di Sabrina Salerno).
Il resto della pellicola è un inutile dilungamento utile per raggiungere la durata dei 100 minuti.
Con l'arrivo del figlio di Ruffini si apre una fase piena di melassa insulsa.
Mentre il finale con la vicenda dell'azienda sempre scopiazzato da maree di film.

In sostanza, il film è una totale perdita di tempo e uno spreco di buoni attori. Specialmente Lillo prova a dannarsi e prova a tirare fuori qualcosa, ma davvero il copione è ridicolo, pieno di frasi fatte con la chiusura patetica coi luoghi comuni sui cinesi.

Le parti peggiori probabilmente sono quelle con il duo Ruffini-Placido, con la solita scrittura banale a provare a rendere meno ruvido il personaggio di Ruffini, senza alcuna credibilità. Il personaggio è infelice di suo, ma Ruffini riesce a renderlo ancora peggiore con un'interpretazione improbabile.

Completamente insalvabile. Una schifezza colossale. Come sempre con Brizzi.

Quando l'amore si spezza. Massacrato dai critici, ma in realtà non così male.

Buon thriller dell'ossessione, con trama lineare e coerente. 




"When the Bough Breaks" (che non si sa perché in Italia è già stato proposto con più titoli, tipo su Netflix viene dato col bruttissimo titolo di "Birth Mother - Ossessione Fatale": che senso ha usare un titolo in inglese e cambiare quello originale?) non è certo un film particolarmente originale o che farà urlare al miracolo, ma ha tanti meriti e riesce a regalare un discreto intrattenimento.

Dopo un inizio da filmetto familiare, lento ma alla fin fine funzionale per la trama, il film si accende e diventa il classico thriller dell'ossessione. La cosa buona di questo film è che è lontano da alcuni "vizi" tipici dei thriller di Hollywood, ovvero lontano da quel tipo di sceneggiatura che sembra un po' prendere in giro lo spettatore alla ricerca del continuo colpo di scena, spesso forzato.
Qui anzi è tutto molto lineare e a mio modo di vedere è il merito del film.
La tensione ha un buon crescendo e il finale è coerente con il resto della pellicola.

Funzionale la prova del cast, in cui spicca davvero Jaz Sinclair, che per ovvi motivi interpreta il personaggio più articolato e complesso e risulta molto brava, capace di alternare fasi dolci a un paio di scene di notevole sensualità fino alla follia dovuta alla sua ossessione per il protagonista.

In fin dei conti, un buon film.

Appassionata. Schifezza per voyeur

Apeotosi del trash, simbolo anche di generazioni incapaci di trattare le donne come esseri umani.




Tra una scena pseudo-pruriginosa e l'altra, una serie di dialoghi sconcertanti.
Alcuni highlights:

- La Giorgi va dal dentista e per fingere di avere male al dente inizia a fare versi usciti dal peggior pornazzo.
- Il dentista copula con lei con una grazia da ippopotamo
- La Giorgi per saltargli addosso fingeva di essere sotto effetto di anestestici, quindi poi il dentista chiede a un collega se gli anestetici possono creare "effetti strani"
- "Hai sentito? Daniela viene col suo paracadutista". Risposta della Muti: "Ah sì, e se lo porta il paracadute?"
- Replay della scena allo studio dentistico, ma stavolta il dentista rivela alla Giorgi che non c'era anestestico ma solo acqua distillata, per questo monologo in risposta: "Il ca**o del dottore ha bisogno di discorsi, di spiegazioni, è ancora un sentimentale. Meglio se restate soli voi due così potete spiegarvi" (dove "voi due" sono il dottore e il suo membro)
- La Muti con camicetta aperta al padre: "Fossi in te avrei amanti ovunque, in India..."

Fantastico.
Tutto per far capire che la sceneggiatura non esiste, è solo un pretesto per mettere insieme scene presunto-voyeuristiche.
Si capisce perché in Italia ci siano generazioni culturamente incapaci di intraprendere un dialogo con le donne (se non trattandole come oggetti), si capisce perché si siano cresciuti pseudo-uomini ossessionati da certe vaccate. Di questi film ce ne sono una marea (e questo possibilmente è tra i peggiori) e i risultati a livello sociale sono ancora sotto gli occhi di tutti.

Austin Powers in Goldmember. Beyonce!

Addirittura con Beyonce come spalla, Austin Powers continua a divertire. Dopo una partenza un po' lenta, il film si accende e diverte.




Il terzo (e a questo punto possibilmente ultimo, anche se qualche voce di tanto in tanto esce su un possibile ulteriore sequel) film della saga di Austin Powers ha il difetto di una partenza più stentata rispetto ai primi due film. Dopo l'azzeccato prologo con una marea di guest star, infatti, si fa un po' più di fatica del solito a trovare ritmo, soprattutto per l'introduzione del personaggio di Goldmember, che non regala moltissimo a livello puramente comico. Così nella prima parte tutte le migliori sequenze le regala il Dottor Male, in particolare nella parodia (solita per il genere) dell'interrogatorio de Il Silenzio Degli Innocenti e nel videoclip parodia di Hard Knock Life.

Quest'ultimo è anche un riferimento al compagno della vita della nuova spalla di Austin Powers, visto che per questo terzo film viene chiamata addirittura Beyonce, di una bellezza conturbante e tutto sommato a suo agio nel ruolo.

Dopo mezz'ora il film entra nell'azione demenziale pura e iniziano a esserci una sequenza di scene devastanti e si ride con una ottima continuità, tanto che il film finisce per ottenere un voto alto nonostante la partenza non convincente.

In particolare piace il salto della quaglia di Mini-Me, che proprio con Austin riesce a divertire. Da notare anche un calo di allusioni sessuali rispetto ai due capitoli precedenti, scelta forse un po' "commerciale" per appetire un pubblico più ampio.

Altro buon capitolo per una saga che forse aveva ancora qualche cartuccia da sparare.
Invece, incredibilmente inizia proprio qui l'allontanarsi dagli schermi di Mike Myers. Solo sei anni dopo ci riproverà con un film molto nel suo stile come The Love Guru, un flop completo (per quanto il film non fosse poi così da buttare, anzi) da cui Myers non s'è più ripreso (a parte qualche piccolo ruolo, come quello dell'agente che si fa sfuggire i Queen in Bohemian Rhapsody, comunque nulla di realmente comico). A volte le cose vanno in modo misterioso, negli States come in Italia, attori che non hanno nulla da dire da sempre continuano a lavorare e altri meritevoli finiscono per trovarsi le porte sbarrate. Peccato, perché per chi ama una certa comicità demenziale, Austin Powers è un must.

Compromessi sposi. Gli spos(s)ati

Tipico film del filone matrimoniale all'italiana, banale e scontato. Lo scontro tra Abantuono e Salemme si risolve in frecciatine di bassissima lega.




Il filone di questi film matrimoniali all'italiana segue sempre lo stesso schema:
- suoceri che si scontrano tra loro e provano a impedire il matrimonio
- future suocere a contorno per dimostrare che esistono
- futuri sposi in balia degli eventi e costretti a sopportare le insulsaggini della sceneggiatura
- figure di contorno (più o meno famose) a provare a creare qualcosa.

Compromessi sposi potrebbe benissimo essere l'ennesimo film matrimoniale di Massimo Boldi, con l'unica eccezione dovuta alla volgarità molto limitata (ok ci sarà qualche parolaccia, ma almeno si evitano certe scenacce oscene). Le idee sono del tutto inesistenti.

Per gli autori si dovrebbe ridere unicamente con lo scontro tra Salemme e Abatantuono, che in realtà si limitano a frecciatine personali di bassa lega sull'aspetto fisico del "rivale", lasciando allo spettatore solo l'imbarazzo di vedere due nomi così importanti costretti all'ennesima parte senza alcun congegno.

Cast ricco di nomi, ma tutti quanti mal utilizzati. Spiace in particolare per Abbrescia, che pure (nonostante il personaggio venga beccato per avere il "mal di mare") non naufraga, e soprattutto per Valeria Bilello, che inizia discretamente nella parte di figlia (di Abatantuono) decisa e anche un po' "cinica", ma che poi deve diventare piuttosto banale: la Bilello, oltre a essere di una bellezza superiore alla media, meriterebbe molto più di quanto gli insulsi autori italiani riescono a inventare per lei.

Le "complicazioni" sono del tutto flebili e tutto si risolve in maniera automatica fino a una fase finale tremenda in cui passa tutto l'ovvio e tutti personaggi seguono l'ovvietà.
Quanti altri di questi filmacci dovranno uscire in Italia? E la gente ancora li va a vedere?

White Chicks. Per gli americani questo è un cult, yikes!

I fratelli Wayans ci appioppano una situazione scatologica dietro l'altra, in un film in cui sorprende la presenza della grande Jennifer Carpenter, ancora di là dal diventare l'epica Debra Morgan.




La vera curiosità di questo filmaccio è la presenza dell'ancora misconosciuta Jennifer Carpenter, presenza che vista adesso a 15 anni di distanza è incredibile. Passerà un paio di anni per la brava Jennifer per trovare il personaggio della vita, quello della magnifica Debra Morgan nella serie tv Dexter. In questo film per la Carpenter c'è una parte abbastanza insulsa, tipica di un prodotto piuttosto misogino che affibbia alle donne parti piene di cliché e senza personalità: può esprimere un minimo sprazzo della propria espressività in un monologo (piuttosto squallido) sui suoi presunti difetti corporei, poco dopo che la telecamera le inquadra il sedere (in slip) in primo piano per fini di minimi pruriti maschili. Insomma, vedere un'attrice di questa portata in un prodotto simile appare strano (quasi al livello di Johnny Depp in una delle sue prime parti: un film in stile Alvaro Vitali, lo scult Una scappatella per due, che peraltro adesso è in circolo con il nome di Posizioni Promettenti),

Il resto del film è da prendere e buttare via. Quando questi tre fratelli Wayans (l'unico assente tra quelli "famosi" è Damon, ovvero il protagonista di Tutto in Famiglia, mentre al fianco all'ancora adesso prolifico Marlon qui troviamo anche il regista Keenen Ivory e il co-protagonista Shawn, due che hanno pensato bene di sparire o quasi dal mondo del cinema da una decina d'anni senza che nessuno li rimpiangesse) uniscono le forze il risultato è quasi sempre catastrofico. Dopo questo filmaccio, in cui Marlon e Shawn si travestono da donne e bianche, ci riproveranno con il pessimo Quel Nano Infame in cui (quante idee) Marlon (in versione nano!) si fingerà nientemeno che un neonato. Il risultato però è quasi sempre catastrofico, perché questi tre hanno comunque avuto il merito di aprire la saga degli Scary Movie, firmando un primo capitolo che fece abbastanza epoca ai tempi e che resta perlomeno un discreto film, sicuramente il migliore di quella saga perché il più fresco e originale, tanto che la formula verrà copiata più e più volte (mentre il secondo era molto più sottotono).

In questo film il livello comico è quasi inesistente, con caos e scene finte-action ad allungare il brodo a fronte di situazioni trite e ritrite, affrontate peraltro senza alcuna verve (se fatte bene anche le situazioni straviste possono far ridere). Si scende anzi parecchio nel pecoreccio, visto che le uniche scene che si ricordano (per lo schifo che creano) sono scatologiche che neanche Massimo Boldi in Natale sul Nilo.
I tre Wayans, come spesso capita, sono solo fintamente trasgressivi e in realtà ci appioppano anche un finale di un melenso osceno, fallendo in questo film in ogni aspetto.

La cosa incredibile è che questo film pare abbia una discreta popolarità negli States, tanto che in queste ore Terry Crews (che qua ha possibilmente il ruolo peggiore della sua carriera cinematografica, e forse della sua carriera pubblica, mettendoci dentro anche lo sport) ha addirittura annunciato che ci sarà un sequel. Viste le non-idee del primo film, c'è da mettersi le mani tra i capelli.

Austin Powers. La spia che ci provava. Fallico Baby!

L'aggiunta di personaggi come Mini-Me e Ciccio Bastardo fa bene a un film divertente proprio per la stupidità (e assurdità) di certe situazioni




Affinando ulteriormente le situazioni del primo capitolo, con l'aggiunta di personaggi chiave anche per il film successivo come Mini-Me e Ciccio Bastardo, con per l'edizione italiana il lavoro di traduzione di Elio e le Storie Tese (a cui spetta il compito di "reinventare" un po' di quei soliti giochi di parole e doppi sensi che si perdono in un'altra lingua), il secondo film di Austin Powers è un altro capitolo irrinunciabile per gli amanti di certa comicità demenziale.

Possibilmente è un film un filo più discontinuo del primo, ma che ha anche dei picchi più alti, specialmente quando il Dottor Male prova a ricucire i rapporti col figlio, o quando lo stesso Dottor Male passa il tempo creando situazioni da musical assurdi, per non parlare della storica scena della tenda e delle ombre. Le assurdità sono inserite ancora a raffica e si ride molto.

Mike Myers ha trovato la propria dimensione perfetta in questa parodia e si "ingrandisce" (in ogni senso) interpretando anche il devastante Ciccio Bastardo, irresistibile quando mostra il desiderio di divorare Mini-Me.

Heather Graham possibilmente aggiunge meno sulle gag comiche di quanto fatto da Elizabeth Hurley nel primo film, ma è una bellissima spalla ed è funzionale nella riuscita del film.

Parte centrale della serie (anche se qualche voce ancora esce su un possibile quarto capitolo) che funziona e che porterà a un terzo film anche superiore.

Miracle Workers. Buscemi è il Dio più bello/brutto di sempre

Dio si difende dai giudizi della propria famiglia: "Ma se ho fatto nove pianeti!" - "Sì, però ne funziona solo uno, e male"



Era da un bel pezzo che dagli Stati Uniti non usciva qualcosa di surreal-demenziale ben fatto.
Se magari non tutte le idee non sono per forza originali, la realizzazione e la capacità di saper colpire con una comicità cinica rendono questo Miracle Workers una vera gemma.

A capo della compagnia del Paradiso (La "Heaven Inc." non a caso) è il miglior Dio mai visto, un Dio a cui viene dato il volto di Steve Buscemi. E già questo al primo fotogramma fa abbastanza ridere. Buscemi però entra perfettamente nei panni di un personaggio completamente distante dalla visione popolare, perché questo Dio ha sì poteri e tutto, ma è un Dio combinaguai e anche un minimo alcolizzato. Un Dio che stufo della Terra si mette a pensare a un progetto di ristorante demenzialissimo, tanto che finisce a proporlo alla propria famiglia in una puntata che ci dimostra come Egli sia lo sfigatello della famiglia. Tanto che messo sotto discussione dai suoi genitori si difende con un "Ma se ho fatto nove pianeti!", trovandosi come risposta un "Sì, però ne funziona solo uno, e male".

E' questo il tipo di umorismo che si trova per tutta la serie, con puntate più o meno dello stesso livello che ci mostrano (a parte la caratterizzazione di questo folle Dio, che è la cosa più riuscita) anche i tentativi per salvare la Terra, dimostrandoci che compiere miracoli non è poi così facile. Anzi, per ogni piccolo miracolo da compiere, come effetto collaterale si scatenano una serie devastante di tragedie, tanto che ogni puntata si chiude con un meraviglioso TG che riassume con incredulità quanto accaduto.

In questo scenario piace e stupisce l'altro nome conosciutissimo della serie, ovvero Harry Potter Daniel Radcliffe, che presta bene la sua aria stralunata a un buon personaggio e dimostra anche dei tempi comici niente male.

La serie non si dilunga più di tanto (anche se vista la qualità della prima stagione, spero personalmente che si inventino qualcosa per dare un seguito), sono 7 puntate di una ventina di minuti, ma intrattiene alla grande e si può considerare riuscita in pieno.

Juliet, Naked - Tutta un'altra musica. Che c'entra Apatow con Hornby?

La produzione Apatow americanizza Hornby e finisce immancabilmente per banalizzarlo. Si va per una rigorosa (più o meno) trasposizione del romanzo, che però resta sterile. Film sufficiente, ma occasione persa per fare qualcosa di più.




Valutare un film dopo aver letto il romanzo da cui è tratto è sicuramente molto più difficile, specialmente se si ama lo stile unico di un autore peraltro molto "cinematografico" come Nick Hornby, specie se si è amato "Juliet, Naked", romanzo in cui Hornby riesce a creare ancora una volta (dopo la sitcom "Barbara (& Jim)" del libro "Funny Girl") una celebrità fittizia e di tratteggiarla talmente bene che sembra essere reale. Se si legge il libro, sembra davvero che questo Tucker Crowe sia un cantante (country, non rock alternativo/indie come nel film) realmente esistito (con tanto di capitoli con una finta descrizione tratta da Wikipedia). L'arguzia, il cinismo e il delirio dei dialoghi quando il libro prende corpo e accelera sono la qualità maggiore dei libri di Hornby, che non è certo un "autore comico" ma che riesce a creare romanzi a tratti esilaranti.

Ecco, a posteriori proprio il diverso modo di vedere il mondo e per certi versi l'ironia fa storcere il naso sul connubio tra Hornby e Apatow Productions, dando la netta sensazione che questo "Juliet, Naked" sia finito in mani sbagliate.

Succede allora che in tutta la prima parte, invece di caratterizzare bene i protagonisti e intersecare le relazioni tra Annie e Duncan e tra Tucker e il figlio Jackson, ci si concentri soltanto su una parte del racconto di Hornby, la serie di mail tra Annie e il musicista Tucker Crowe, per giunta riportandole nel mondo del 2018 (il libro è uscito nel 2009) con un uso della tecnologia dello smartphone che è eccessiva, fredda e del tutto pretenziosa.

Per quanto si cerchi di non abbandonare troppo il libro (salvo poi deviare su un particolare decisivo, ovvero la figlia di Tucker che nel film ha un parto anticipato che lo porta a Londra: no. Nel libro la figlia di Tucker ha un aborto spontaneo e l'artista non diventa nonno. Ancora più marchiano però è lo stravolgimento della vicenda della figlia Gemma con la storia del bano del locale, un inserimento forzatissimo che nulla ha a che vedere con la coerenza che c'era nel libro), si ha una trasposizione che sembra girare attorno ai punti cardine del libro senza mai centrarli e capirli veramente, si vede un film piuttosto sterile che abbandona (a parte un paio di battute riprese pari pari dal testo) il sarcasmo di Hornby, col risultato di americanizzarlo e di falciare via i due terzi della comicità del libro, peccato devastante. Quindi si ha una trasposizione più o meno rigida, ma poco incisiva.

Oltretutto il peccato enorme è quello di rendere la figura di Duncan piuttosto perimetrale nella storia, quando nel libro è invece centrale: ci si concentra solo su Annie e Tucker, quando invece è il terzo cardine a dare un vero senso alla storia. Manca così (viene soltanto accennato) il tema dell'ossessione che Duncan ha per Tucker Crowe, finendo anche qui per banalizzare un aspetto importante del romanzo.

Peccato perché alla fine senza strafare, il film risulta piacevole, non è certo un lavoro da impacchettare e buttare via, anzi si ha la sensazione che il casting sia stato perfetto: Ethan Hawke è un Tucker Crowe credibile (per quanto gli spunti di "autoironia" che ho letto da qualche parte a mio modo di vedere non esistono, le battute sono più o meno quelle che si leggono nel libro), Chris O'Dowd ha davvero l'aria giusta per creare un personaggio che sarebbe stato da approfondire molto più e meglio, mentre Rose Byrne riesce anche a deliziare a tratti.
C'erano insomma le basi per fare qualcosa di più, probabilmente serviva davvero una linea guida diversa in fase di produzione.

Finisce quindi per essere un film sì sufficiente, ma anche una discreta occasione persa. Conferma del fatto che davvero con Apatow si hanno dei limiti ben precisi, più di tanto non si può fare.

Poveri ma ricchissimi. Non può piacervi davvero, dai!

"Toglieteci tutto, ma se ci togliete il calcio..." urla il cittadino in uno sfogo populista: domanda, quando in precedenza avevano tolto la corrente all'intero paese, il calcio come lo guardava? Fotografia di una sceneggiatura imbarazzante e dell'ennesima porcata in salsa brizziana.




Se già il primo film era stato una colossale schifezza, cosa attendersi dal sequel quando le idee (che peraltro erano riprese da un film francese) non ci sono più?
Il fatto che il primo film abbia avuto (chissà per quale motivo) un discreto successo spinge Brizzi & Co a tentare di lucrarci sopra creando un sequel ancora più improbabile e ancora più brutto, con gag da cinema di Serie Z, twist e situazioni da cinema che non appassionerebbero nemmeno un bambino di quattro anni e riferimenti all'attualità (o quasi, le leggi ad personam berlusconiane erano già situazioni dell' "ieri" italico) degni del Bagaglino.

Ne esce allora l'ennesimo film brizziano: il fatto che questo personaggio patetico riesca a trovare ancora dei produttori pronti a investire e degli spettatori pronti ad affollare (più o meno) le sale è lo specchio di un paese ridicolo, il paese in cui un Poveri Ma Ricchissimi può uscire tranquillamente nelle sale.

Tra le schifezze della sceneggiatura, da sottolineare un'incongruenza indegna. Al paesino dei protagonisti viene per circa una settimana tolta la corrente elettrica dallo stato italiano, ma il terrore generale arriva quando lo stesso stato decide di tagliare a questo paesino nientemeno che Sky Calcio, a suon di populistico "potete togliermi tutto, ma se mi togliere il calcio...". Domanda: quando non c'era la corrente elettrica come lo guardavano il calcio?

De Sica ormai è la fotocopia sbiadita di sé stesso, mentre Brignano continua con i suoi personaggi in stile "cane bastonato" tentando giusto un paio di battute (imbarazzanti entrambi). Alla Ocone spetta un'abbozzata parodia delle "50 Sfumature" da far cadere le braccia, mentre è triste vedere uno come Paolo Rossi in un film simile, peraltro dimostrando di essere egli stesso in cattiva forma. La Comello riesce a incespicare pure nelle poche battute che è chiamata a dire. Cast imbarazzante in toto.

Degno contorno le musiche, uscite dalle peggiori soap opera anni '70.

Film dilettantesco. Mi preoccuperei della salute mentale di chi ha apprezzato una robaccia simile.

Achille Tarallo. Tragico, provinciale

Seguite un consiglio da un amico: evitate questo film come la peste.




E' un vero mistero come questi prodotti vedano la luce a livello nazionale, quando sono prodotti dedicati a un pubblico meramente provinciale, o al massimo regionale.
E' un film che non ha senso vedere, sono due ore di noia buttate via per qualcosa di terrificante.

Per certi versi, per malinconia di fondo e incapacità di intraprendere una vera direzione, questo film può ricordare Se sei così ti dico sì, al netto però del sex appeal (e della sorprendente familiarità col ruolo) che Belen Rodriguez dimostrava nel film con Solfrizzi protagonista. Qui invece ci appioppano uno dei nudi (per giunta integrale) più brutti della storia del cinema italiano, al pari con quello sconcertante di Vernia in Mai Stati Uniti. Aiuto.

In realtà il protagonista non è nemmeno un artista, è un conducente di bus che canta ai matrimoni, eppure ci articolano su una storia che davvero è difficile da seguire per totale mancanza di interesse. Per un film lento, assurdamente prolungato (quasi due ore di sta melma!), senza verve e senza gag. Per giunta girato in modo dilettantesco, con un sonoro pessimo che non permette di cogliere un 30% dei dialoghi (quando già è difficile coglierne alcuni per l'uso continuo del dialetto).

L'unica curiosità nel film era la presenza di Tony Tammaro, uno degli ultimi cantanti demenziali-comici nella scena italiana, capace (specialmente nei primi tempi) di picchi devastanti. In realtà il buon Tony ha un ruolo infelice, non è aiutato dalla sceneggiatura e non è nemmeno a proprio agio con il mezzo cinematografico.

Così come Ascanio Celestini in una pellicola di questo livello appare un pesce fuor d'acqua e non può dare nessuno sfogo alla propria creatività.

Il film allora è tutto sulle spalle di Biagio Izzo, onnipresente e unico protagonista. E già questo fa capire il motivo del fallimento della pellicola. Izzo non prova nemmeno a far ridere (cosa che peraltro non riesce a fare dal dopoguerra), vorrebbe dimostrare in questo film di essere attore serio, quasi un po' come alcuni sprazzi dell'ultimo Totò. Il paragone ovviamente non esiste e Izzo ci regala una prestazione tragica.
Il suo personaggio non è caratterizzato minimamente e davvero non si capisce che tipo di strada vorrebbe seguire una sceneggiatura inesistente.

Tremende le vignette con il cane, ancora più atroce il finale.

Possibilmente, il film più brutto di tutto il 2018.

Bohemian Rhapsody. Is this the real life?

La parte del concerto del Live AID vale da sola la visione.




Premessa doverosa. Chi scrive è assolutamente allergico ai film biografici, proprio non riesco a reggerli perché li trovo eccessivamente romanzati.
Detto ciò, difficile non dare un'occhiata a Bohemian Rhapsody, specialmente se si ama la musica. E quale personaggio è più da cinema dell'immenso Freddie Mercury?
Sostanzialmente il bersaglio in questo caso è facile, basta avere una certa professionalità in sceneggiatura e regia, non toppare l'attore protagonista e non fare disastri.

Bohemian Rhapsody ha l'intelligenza di dare alla musica lo spazio da vera protagonista, di lasciare alle note il grande proscenio e ci azzecca.
Seppur nelle fasi di raccordo ci sia qualche pausa, seppur (come previsto) qualche romanzata di troppo c'è anche qui, è la musica a trionfare e quella dei Queen è di una certa qualità.

Oltretutto il film ha una forte impennata finale che riesce a emozionare, con il culmine massimo del concerto del Live AID ricostruito in maniera incredibile. Le scene con la costruzione dei brani e il gran finale a Wembley (con immagini di grande effetto) sono il grande punto di forza e così ai titoli di coda ci si riesce anche a commuovere.

Insomma, operazione vincente anche per chi non ama particolarmente il genere biografico.

Non ci resta che il crimine. L'82 rivisto con gli occhi foderati di prosciutto.

Una sorta di Non Ci Resta Che Piangere dei poveri.




C'è sempre una componente inossidabile nei film con regia dell'ex Martellone Massiliamo Bruno: l'incapacità di saper prendere una strada ben precisa. Anche questo "Non ci resta che il crimine" resta a metà strada, non è una commedia, non è una farsa, non è un grottesco, non è un crime. Vuole essere un po' tutto e finisce per essere un nulla.

A differenza di altri film di Bruno, qua si parte pure molto male, con un montaggio che vorrebbe essere rapido ma che ha l'effetto di essere raffazzonato e confusionario, tanto che le scene sembrano incollate a forza una con l'altra senza un filo conduttore. Più avanti l'effetto negativo del montaggio per fortuna scema, ma si evidenziano tutte le carenze di una sceneggiatura blanda, capace solo di infilare le solite robette ruffiane per il pubblico di bocca buona (i Mondiali di calcio, lo spot del pennello Cinghiale) per poi portarci a una storia improbabile e poco interessante.
Così si vaga senza meta, senza sprazzi di vera ironia, con situazioni scialbe da commedia di corna anni '70 (ancora una volta la Pastorelli si trova a recitare una parte piena di cliche, perché per certo cinema italiano la donna è solo carne e null'altro: atroce), scemenze che servono giusto come riempitivo (le scommesse sportive, situazioni abusatissime e che quindi andrebbero affrontare con cattiveria e/o originalità che questo film non ha).

Anche il tris di attori protagonisti non convince. Detto tra parentesi della Pastorelli, lo stesso discorso lo si può fare per Alessandro Gassman, che sembra sempre recitare lo stesso ruolo in copioni diversi, un po' come faceva negli anni andati Renzo Montagnani (questi però con una capacità di improvvisazione decisamente superiore, pur ritrovandosi spesso con copioni ancora più scialbi di questo). Gianmarco Tognazzi al solito ha una sua professionalità, ma come sempre sembra un pesce fuor d'acqua in una commedia (ammesso che questo film sia una commedia): dal padre ha ereditato il cognome, non certo il sense of humor. Marco Giallini appare un po' più a suo agio, ma anche lui non appare particolarmente in vena.

Il risultato è un film che si dimentica immediatamente, una sorta di Non Ci Resta Che Piangere dei poveri.

Austin Powers. Il controspione. Ridere staccando il cervello

Magari c'è qualche pausa in più rispetto agli altri due film della serie, ma resta un gran bel film di comicità demenziale.




Bei tempi quando esisteva la comicità demenziale. E non importa se almeno la metà delle battute è a sfondo sessuale, perché (a differenza del presunto cinema demenziale di adesso, dove il tema principale è lo stesso) qui c'è sempre una costruzione comica.
E allora Austin Powers - Il Controspione resta un ottimo film per passare una serata rilassante a spegnere il cervello e ridere nel pieno di assurdità, in una parodia che ti porta un dentifricio a essere un'arma letale e che tocca argomenti sensibili che negli 007 nessuno aveva visto: nessuno pensa alle conseguenze nelle famiglie dei tirapiedi. Geniale.

Rispetto ai film successivi della serie, nel capostipite c'è qualche pausa in più, ma già tanti elementi cardine vengono inseriti (vedi gli oggetti a coprire scientificamente le nudità), Mike Myers si dimostra un vulcano irresistibile (purtroppo sparito dalla circolazione dopo il flop di The Love Guru, film peraltro non all'altezza della trilogia di Austin Powers ma nemmeno così da buttare. Un peccato davvero che questo buon attore non possa più fare queste allegre sciocchezzuole), Liz Hurley è deliziosa e funziona perfettamente come spalla del protagonista e sono tante le situazioni da ricordare.

Resta così un film fondamentale per chi ama un certo genere di comicità, quella per definizione "demenziale", quella comicità che è sì stupida ma che ha sempre dietro una certa costruzione: perché per fare del vero demenziale, bisogna saper ragionare. La comicità attuale per gli americani invece è pura stupidità fine a sé stessa, volgarità senza un fondo comico, buona quella sì per un pubblico di amebi.
Qui ci sono pure delle volgarità, ma costruite come la scena dell' "agguato" ad Austin nella toilette portano a ridere sguaiatamente. E' un altro mondo.

Non tutti i doppi sensi e i giochi di parole sono traducibili, ma tutto sommato il doppiaggio fa un buon lavoro.

Pupazzi senza gloria. Disastro inglorioso

Non si ride mai, tanto che a un certo punto si intraprende una strada da "noir serio". Con i pupazzi. Devastante (in senso negativo).




A parte le buone animazioni (che dopo 10 minuti non hanno più alcun effetto, ormai di mix tra cartoon e realtà ne abbiamo visti parecchi), in questo "Pupazzi senza gloria" non c'è davvero nulla che funziona. Simbolo di come ormai gli americani siano del tutto incapaci di fare un credibile cinema di "Serie B".

Alla lunga, visto che la vena umoristica del soggetto è pressocché inesistente, ci si ingarbuglia in una specie di noir coi pupazzi che non ha alcun minimo interesse.
Le gag comiche? Le solite da cinema americano da 10 anni a questa parte, tutte a sfondo sessuale, infilandoci dentro esagerazioni a iosa senza una minima costruzione comica. Per cui si dovrebbe ridere con robacce come la scena (tirata troppo per le lunghe) dell'eiaculazione infinita del pupazzo.
Evidentemente gli autori si fidano che l'istupidimento della società americana sia (già) arrivata al punto che si possa ridere con schifezze del genere.
Fino a un decennio fa gli americani erano i maestri del cinema demenziale, da 10 anni hanno completamente perso senso dell'umorismo e credono che piazzare oscenità a raffica sullo schermo basti per ridere. E sicuramente qualcuno dal QI a singola cifra potrà anche trovarci qualcosa di divertente, tutti gli altri assolutamente no (a conferma che paradossalmente per fare vera comicità demenziale devi essere intelligente).

Tra gli "umani", tremenda come sempre la scelta della protagonista Melissa McCarthy, che davvero non fa ridere neanche per sbaglio (e peraltro in questo film neanche ci prova più di tanto). Questo film le è valso la candidatura e la vittoria come peggior attrice protagonista ai Razzie Awards, peraltro in contemporanea con la candidatura agli Oscar (questa è stata candidata agli Oscar! Esempio di come se gli facessero fare un film biografico, persino Massimo Boldi potrebbe ritrovarsi candidato agli Oscar).

Nella versione italiana a peggiorare le cose ci pensa il doppiaggio del protagonista Phillips affidata a Maccio Capatonda, scelta tragica. Capatonda prova dei giochetti di parole da asilo nido e non ha alcun acume per reggere un ruolo simile. A questo punto sarebbe stato meglio affidare quel ruolo a delle voci ben più scafate e molto più adeguate, come quelle degli ottimi Mino Caprio e Nanni Baldini, che invece doppiano soltanto personaggi di poco peso.

Insomma, a essere senza gloria non sono solo i pupazzi.

Durante la tormenta. Gli spagnoli sono i nuovi maestri del thriller

Un thriller che si mescola con la fantascienza e un pizzico di dramma, molto particolare e molto complesso. E girato alla perfezione. Splendido.




Questo è grande cinema.
Non conosco moltissimo il cinema spagnolo, ma di recente ho avuto modo di appurare come i loro thriller siano spesso di buon livello.
Uno degli esempi che cito spesso è proprio un precedente lavoro del regista Oriol Paul, ovvero Contratiempo, che consiglio assolutamente nella versione originale e non nel remake all'italiana (solo per il fatto che al posto di buoni attori ci sia un cane totale come Scamarcio).

Se già Contratiempo era un film piuttosto complesso, questo "Durante La Tormenta" lo è ancora di più. Oltre al thriller più tradizionale (ma quello buono, quello che evita gli spettacolarismi all'americana) si aggiunge un plot da fantascienza e un pizzico di dramma. Il risultato è anche oltre le attese.

Il film è girato con tatto, senza eccedere con il ritmo le due ore volano in un niente e da subito si è catturati dall'atmosfera misteriosa, subito il film riesce a conquistare. In più vengono disseminati qua e là una miriade di dettagli, che scopriremo via via avere tutte un proprio senso.
E il mix funziona, le due storie (passato e presente) si amalgamano perfettamente, con il film che è forte anche di attori assolutamente credibili. Il nome più "noto" per noi italiani probabilmente è Alvaro Morte, ovvero il Professore de La Casa Di Carta, ma per quanto il suo ruolo sia cruciale i veri protagonisti sono Adriana Ugarte (bravissima e capace di attirare l'empatia dello spettatore nella sua disperata ricerca della "vecchia vita") e Chino Darìn (detective empatico con la protagonista).

Anche provandoci, non riesco a trovare difetti. Il film scorre benissimo, ogni particolare è al posto giusto, non ci sono riempitivi o eccessi di ogni tipo, la regia sembra non sbagliare un'inquadratura e il mix di generi riesce benissimo. Il film intriga e sa anche commuovere. Soprattutto non delude nel finale (cosa da temere in certi casi in thriller così complessi), perfettamente all'altezza.

Solo applausi e voto massimo.

Space Jam. Your Airness

Tra tante stupidaggini cartoonesche, è la presenza di Michael Jordan a impreziosire il film, grazie alla sua strepitosa ironia e autoironia (vedi i continui riferimenti alla sua carriera nel baseball). 




La commistione tra cartoon e realtà era riuscita decisamente meglio nell'indimenticabile "Chi ha incastrato Roger Rabbit", che pur viaggiando molto con la fantasia aveva un approccio più solido e più maturo.

In Space Jam in mezzo a tante stupidaggini cartoonesche, con gag infantili che lasciano il tempo che trovano, e un mix che non fa grandi passi avanti rispetto al suo illustre predecessore, a stupire è soprattutto (e forse unicamente) l'ironia e l'autoironia degli atleti protagonisti: l'ineffabile Charles Buckley (che infatti sarebbe diventato anche e più ancora un personaggio a fine carriera, strepitoso quando pur di riavere indietro il talento promette di non commettere più falli tecnici) & Co (Shawn Bradley, Patrick Ewing, Larry Johnson e Muggsy Bogues), diventati di colpo incapaci, attirano simpatia e piacciono.

Ma questo film ha ragione d'esistere solo per la presenza di Sua Maestà Michael Jordan, pure lui strepitoso per la dose di ironia e autoironia, soprattutto per il modo in cui sa prendere in giro il suo tentativo di sfondare nel baseball. Epica la scena del catcher che gli anticipa i lanci del pitcher (con Michael che va lo stesso strikeout), strepitosa la personalità anche fuori dal campo di quello che è e resterà per sempre uno dei miti unici nello sport.
L'operazione in sé infatti è una mezza stupidata, ma il coinvolgimento così convinto di uno come Jordan rende per certi versi unica questa pellicola e indimenticabili alcuni suoi momenti.

Io c'è. Il coraggio no.

Una buona idea iniziale, ma come troppo spesso accade nella commedia italiana attuale l'incapacità di sapere andare fino in fondo, anche per una certa mancanza di coraggio (e forse di idee).



Senza giri di parole: parliamo del solito film che parte ma non arriva (e se arriva lo fa col fiato cortissimo). Come purtroppo accade fin troppo spesso nella commedia italiana attuale.
Questo perché le idee di partenza sono poche e non sono sposate da una voglia di andare davvero fino in fondo. In film del genere noti sempre un punto in cui il "coraggio" si spegne nel tutto, la voglia di creare qualcosa di nuovo scompare e da quel momento si annaspa, per arrivare alla fine si punta su mezzucci stra-abusati, specialmente su sentimentalismi spicci e fini a sé stessi. In "Io c'è" il momento in cui tutto finisce è evidente, all'arrivo di Giulia Michelini.

Già prima non era certo un film perfetto, ma si poteva apprezzare nella prima parte qualche elemento, una (benché minima) satira di stampo religioso abbinato a un certo tono surreale, che aggiunto alla discreta vena degli attori (Buy e Battiston più ancora del protagonista Leo) rendevano il tutto discretamente simpatico e guardabile. Non tutto funzionava, non tutto era originale, ma il tentativo sembrava buono.

Al solito però arriva il momento in cui tutto si spegne, proprio si intravede una mancanza di coraggio, di andare fino in fondo con l'intento iniziale. E il film precipita, si spegne e annoia fino all'arrivo dei titoli di coda.

Ennesima occasione persa.

Tutti pazzi in casa mia. Non c'è pace per Clavier

Film del genere dimostrano che può bastare anche un'idea piccola piccola per fare una buonissima commedia leggera. 




A un po' tutti noi sarà capitato di attendere a lungo una determinata cosa (che sia in campo musicale, cinematografico, o anche più banalmente un evento sportivo) e una volta arrivato il momento tanto atteso di trovarsi in mezzo a casini che non permettono di godersi quell'ora tanto sognata.
Ecco, in "Tutti pazzi a casa mia" si estremizza questo concetto. L'idea è semplice semplice, rendere l'ora di tranquillità (dal titolo originale) di Clavier un totale inferno.
Quando si ha gusto e si riesce a far ridere, basta proprio un'idea così piccola a regalare un film molto divertente.

Poco importa se alla fine si tocchino temi non così originali, come la storia di corna e la paternità del figlio, perché l'obiettivo è solo quello di divertire e questo film sì riesce a regalare un'ora di buonissimo cinema.

Ovviamente tutto ruota attorno al solito Christian Clavier, assoluto mattatore, in grado di alternare momenti di calma apparente e di totale sclero, azzeccando non poche battute: ancora una volta, Clavier si dimostra una certezza ed eccelle.

Ritmi altissimi e risultato buono, come spesso capita con le commedie francesi.

Benvenuti a casa mia. Ospitali a casa tua!

Il bersaglio è trasversale, si mira al populismo dell' "allora ospitali a casa tua" così come all'ipocrisia tediosa di certi radical chic. Il risultato è riuscito, soprattutto perché il film mantiene quella leggerezza che ci vuole in una commedia divertente.



Ancora una volta mi ripeto e devo partire con una semplice premessa: i francesi le commedie le sanno fare.
Certo, si parla in linea generale, ci sono delle eccezioni non riuscite, ma di media quando mi trovo di fronte a una commedia francese il mio approccio è sempre positivo.

Questo "Benvenuti A Casa Mia" magari è inferiore a un film con simile tema razziale come "Non sposate le mie figlie" (che salta in mente subito visto che il protagonista è lo stesso, ovvero Christian Clavier), perché manca la coralità e la profondità di quel film, ma ancora una volta il bersaglio è centrato in pieno.

Nel mirino in questo caso in maniera trasversale c'è il populismo sciatto dell' "allora ospitateli a casa vostra" così come l'ipocrisia di certi radical chic, buoni a farsi belli con certi giri di parole ma vuoti nei fatti. L'idea allora è semplice, si fa arrivare un gruppo di rom in casa dello scrittore borghesissimo che ha appena pubblicato il libro "A braccia aperte" (da cui il titolo originale e il nomignolo con cui i rom lo chiamano, un tormentone azzeccatissimo), creando sconvolgimenti di ogni tipo. Il film funziona perché approccia il tema pesante con intelligenza ma anche con leggerezza, riuscendo a regalare 90 minuti da commedia brillante e allo stesso tempo evitando moralette pesanti da due soldi.

Funzionano un po' tutti i personaggi, con Clavier in particolare che si dimostra una sicurezza assoluta nel genere. Manca magari una certa profondità a rendere "indimenticabile" la pellicola, ma resta un film godibilissimo che merita un 7 pieno (tendente all'8).

Holmes & Watson: 2 (de)menti al servizio della Regina. Film frustrante

Dopo una prima mezz'ora eccellente, regia e sceneggiatura sbandano completamente e il film scialacqua un ottimo potenziale. 




Film del genere lasciano l'amaro in bocca per il loro andamento.
Si inizia davvero bene, con una mezz'ora devastante sul piano della comicità demenziale. La coppia Ferrell-Reilly è ben amalgamata e sembra in parte, il film spinge forte sul piano dell'umorismo demenziale che spicca ancora più di quello parodistico e questo porta a un paio di scene davvero strepitose, in particolare quella dell'autopsia in stile Ghost (che ha in sé anche un tocco di black humor favoloso).

Proprio quando sembra di vedere un film comico ben riuscito, ecco che tutto precipita, proprio da quella scena dell'autopsia in poi. La sceneggiatura non riesce più ad amalgamare l'aspetto "mystery" con quello comico e il dover andare avanti con la vicenda porta il film a schiantare. Il resto del film infatti non riesce più a far ridere con continuità, anzi finisce persino per annoiare.

Peccato davvero perché i due protagonisti erano in buona forma e il tutto poteva avere uno sviluppo molto diverso. Ciò che poteva essere un buonissimo film comico finisce per essere un film purtroppo da dimenticare.

I 4 Razzie Award vinti in ogni caso sono eccessivi. Forse ci sta quello per la regia (complice del disastro dell'ultima ora), molto meno quello per John C. Reilly. Eccessivo anche il Razzie per il peggior film del 2018, onestamente (pur con questi difetti) ho visto ben di peggio.

Amici come prima. Catastrofe annunciata

Un paio di burinate di De Sica non accendono un film che scopiazza e rattoppa situazioni già viste senza aggiungere nulla. Soggetto anche di Fausto Brizzi, garanzia di schifezza d'altronde.




Ci son volute una marea di teste (compreso l'ineffabile Fausto Brizzi, garanzia assoluta di fuffa) per scrivere soggetto e sceneggiatura di questo film che sostanzialmente (titoli di testa e di coda esclusi) raggiunge a stento i 70 minuti scenici e non certo a causa di un ritmo forsennato, quanto per una assoluta mancanza di idee. Anzi, le uniche idee sono delle complete scopiazzature da altri film.

L' "evento" (se di ciò si tratta) sarebbe la reunion tra Boldi e De Sica, che però è stanchissima e blanda, con dialoghi impalpabili e situazioni incapaci di creare un minimo interesse, per un film che pecca proprio nel non trovare un vero e proprio stile. Non è la solita "cafonata" (per quanto le burinate di De Sica siano gli unici sprazzi di vivacità), non è una commedia degli equivoci accettabile, non è una commedia agrodolce. Insomma, tutte queste teste sono state buone giusto per scrivere un non nulla.

De Sica riesce un minimo a salvare la faccia, dimostrando un minimo di professionalità e riuscendo a dare le uniche frasi interessanti del film (che per il resto finisce per abusare di auto-citazioni al limite dell'imbarazzante), anche se la sua regia a momenti appare raffazzonata (per quanto non sia certo il neo peggiore del film).
Disastroso come sempre negli ultimi 15 anni invece Boldi, sempre più imbolsito e sempre più convinto di poter far ridere con linguacce e scemenze assortite. Urge eutanasia cinematografica per lui (anzi, serviva una decina d'anni fa), perché il fondo del barile è completamente raschiato.

Il resto del film non esiste. La Orioli è antipatica come poche, tutti gli altri sono un contorno blando, soprattutto il personaggio del figlio di De Sica capace di regalare situazioni pessime.

A peggiorare le cose c'è tutto il finale. Si va di moraletta spiccia (ah, i cinesi che comprano tutto, certo...), di DJ Francesco e di un'ultima scena metacinematografica che chiude in modo pessimo un film senza alcuna ragion d'essere.

Pessimo.

Morto tra una settimana (o ti ridiamo i soldi). Troppi alti e bassi

A momenti fulminanti si alternano fasi banali e di stanca. Si lascia guardare, ma non supera la sufficienza.




Un soggetto promettente, porta a un film troppo altalenante.
A trovate clamorosamente fulminanti (la brochure per esempio) e dialoghi meravigliosamente surreali (la legalità del contratto con il killer), si alternano però momenti di stanca per non dire banali.

Il film funziona quando calca il piede dell'acceleratore con cattiveria, nei suoi momenti più puri da black comedy. E' eccellente infatti l'interazione tra i due protagonisti, il potenziale suicida e il killer, che regalano anche dei momenti interessanti trattando un argomento così delicato come quello della morte. In questi frangenti si ride anche di gusto, per chi ama il genere.

Molto meno bene però altre fasi, per un film che appare scollato. In particolare lascia il tempo che trova il subplot del pensionamento del killer.
Per questa sua incostanza il film non riesce ad andare oltre alla sufficienza.

About a Boy. Un ragazzo. Quel simpatico "bastardo" di Hugh Grant

Da un ottimo libro, un buon film. Con Hugh Grant che si cala perfettamente nei panni del protagonista. 




Il libro di Nick Hornby è superlativo e assolutamente da leggere, capace di essere allo stesso tempo toccante e divertente, con la solita qualità dello scrittore inglese.
Forte quindi di una base di livello, il film riesce a descriverne (almeno per tre quarti della propria durata) piuttosto fedelmente i tratti, risultando elegante e piacevole, riuscendo a riportare bene sullo schermo il particolare rapporto tra questo adulto mascalzone e questo ragazzino bizzarro, aggiungendoci un "Something to talk about" eccellente come colonna sonora.

E che dire della scelta del protagonista? Alcune volte la trasposizione in video di libri famosi e importanti non per forza combacia con la mia visione personale: esempio che faccio sempre, per me Robert Langdon non è Tom Hanks (per quanto Hanks sia un eccellente attore e una persona ancora migliore), proprio non ce lo vedo. Altre volte invece è impossibile discostare l'attore del film dal personaggio del libro: altro esempio, Jack Torrance è assolutamente Jack Nicholson.
Per quanto riguarda About A Boy siamo nella seconda casistica, Hugh Grant è assolutamente un Will Freeman perfetto: con il suo piglio e la capacità di essere ironico, Grant sembra nato per il ruolo di questo simpatico farabutto, capace di inventarsi con naturalezza estrema la balla di un figlio inesistente per rimorchiare al raduno dei single.

Azzeccando così il protagonista e forti di un ottimo libro, è difficile sbagliare il film, bisogna davvero fare un caos allucinante in sceneggiatura e questo non succede. Azzeccato pure il ragazzino per il ruolo di Marcus Freeman, il film va avanti liscio e riesce anche a essere discretamente divertente, per quanto comunque (ovviamente) non si arrivi alla profondità di situazioni del libro.

Il finale è completamente stravolto, per quanto comunque non disastroso.
Il vero peccato è vedere completamente tagliata nel film una parte fondamentale del libro, quella che riguarda il rapporto tra Marcus ed Ellie, tagliando così anche tutte le situazioni riguardanti Kurt Cobain (che nel libro Marcus crede sia un attaccante del Manchester United, in quella che è forse la mia parte preferita del romanzo). E' chiaro che per riportare in video un libro c'è bisogno di qualche potatura, ma togliere proprio questa parte è una scelta a mio modo di vedere discutibile.

Sarebbe però ingeneroso bocciare il film per questo. E' anzi un buon film, con un grande grande Hugh Grant.
Consigliato a chi ha amato (come me) il libro. Per chi non l'ha letto? Leggetelo assolutamente!

DolceRoma. Totale porcheria

Finché i recensori di professione continueranno (chissà, magari per compensi?) a pompare il marchio di una sciagura colossale come Fausto Brizzi, nel cinema italiano non cambierà mai nulla.




Già il fatto che due come Fausto Brizzi e Luca Barbareschi avessero unito le forze (il primo col soggetto, il secondo da protagonista) mi metteva i brividi. Il risultato è anche peggiore delle più disastrose attese.
Ne esce fuori un pastrocchio senza senso, una vera e propria porcata che vorrebbe unire vari generi e invece finisce per ridicolizzarli tutti.

Non si sa davvero da dove cominciare. Anzi sì: dalla solita immancabile noiosissima voce fuori campo onnipresente. Se in Italia venisse tassato l'uso della voce fuori campo, il 90% del cinema non verrebbe più prodotto. Solite frasi banalissime, per introdurre un personaggio poverissimo come quello di Lorenzo Richelmy, che sembra recitare per tutto il film sotto effetto di sedativi.

Il tutto per lasciare spazio a un insopportabile (persino più del solito, ed è un record mondiale) Luca Barbareschi, lasciato libero di esporre tutto il proprio estro e nemmeno capace di rendere credibile un personaggio che dovrebbe essere odioso (cosa che dovrebbe venirgli naturale). Forse si sente di essere l'Al Pacino italiano, forse glielo fanno credere, il risultato è disarmante.

Che è sto film? Il nulla. Scritto con i piedi, inizia come un Boris senza idee (ah, la denuncia al sistema dello spettacolo fatta da chi in quel sistema di sguazza allegramente da decenni, quanta credibilità). Procede inserendo dei camorristi scartati dalla peggiore puntata di Gomorra. Ci innesta un kitsch orripilante (ridicola la scena con la Gerini che esce nuda dalla vasca di miele, buttata lì per mostrare culi e tette gratuitamente come un po' per tutto il film: preferivo molto più le commedie trash anni '70 che almeno erano più sincere in questo). Ci regala dei poliziotti abbigliati come neanche nei film del Monnezza. Il tutto con la solita regia "finto-gggiovane", con un montaggio che però di botto si dimentica di legare diverse scene, provocando salti degni di filmini amatoriali.

Per arrivare al peggio del peggio. Il finale pseudo-thriller. Dove i nostri amabili sceneggiatori si inventano di quelle cavolate impresentabili e improbabili per i finti colpi di scena, finendo per toccare il ridicolo con venti e passa minuti tragicomici.
Non solo, in tutto ciò c'è una tecnica da Serie Z. Nell'era dello splatter, il sangue è credibile come neanche nelle serie tv Disney. Per non parlare degli effetti digitali, superati da almeno 40 anni. Le fiamme in particolare sembrano uscite da Totò All'Inferno.

E tutto ciò ancora viene rencensito positivamente da alcuni recensori professionisti. Continuiamo così, facciamoci del male.

La pseudo-novità del cinema italiano meriterebbe unicamente la definizione che Fantozzi diede della Corazzata Potemkin. E forse anche quella è generosa.
Perché si tratta di uno dei peggiori film che io abbia mai visto. E dire che di film brutti ne ho visti.

Bentornato Presidente! Puramente inutile

Tutta sta tiritera per far riconquistare al personaggio di Claudio Bisio una imbarazzante e antipaticissima Sarah Felberbaum. Come sempre, alla commedia italiana attuale manca la cattiveria e il coraggio per affrontare certi argomenti e si arriva automaticamente a un film impalpabile.




Il senso di proporre a distanza di 8 anni il sequel di un film già a sua volta improbabile come Benvenuto Presidente? Facile da dire, il cinema italiano ormai è talmente in crisi di idee che ricicla anche le idee brutte.

Il primo film era già particolarmente brutto, ma per certi versi si salvava dal tracollo un po' per i soliti sforzi (sempre vani, ahimè) di Bisio e un po' per la dolcezza e la bravura di Kasia Smutniak, finendo però per raccattare le solite boiate pseudo-romantiche che nulla dicono se non a quel tipo di pubblico che vuole sempre e per forza il lieto fine zuccheroso anche se forzato.

Cosa ha di diverso questo film? Sostanzialmente poco perché in sostanza (tra i flebili tentativi di "salvare il paese") il soggetto è di nuovo quello, con Bisio che ritorna per riconquistare la dama. Ed ecco che allora esce il tremendo problema di questo film, se la donna da conquistare 8 anni fa era la brava Kasia Smutniak, qua tutta la tiritera (con tanto di superflua figlia al seguito, giusto per allietare i faciloni, e per irritare gli altri prima ancora dei titoli di testa con una battuta imbarazzante sul nome della bimba) è per fare breccia su un personaggio reso tremendamente bloccato, irrigidito e antipatico da una impresentabile Sarah Felberbaum: già, un po' come Ritorno Al Futuro 1 e 2, il personaggio è lo stesso ma cambia l'attrice e qua la differenza si vede tutta. A confronto di questa Felberbaum che recita con un bastone addosso (per non dire di peggio), la Kasia Smutniak del primo film ne esce manco fosse una Meryl Streep.
Già in questo il senso del film va a farsi benedire.

Nessuno può accusare Bisio di non metterci di impegno, anzi si vede sempre che ci mette l'anima per provare a sfondare nel cinema, ma proprio (specialmente nei film in cui è protagonista) non ci riesce: forse è colpa proprio dei film in cui finisce continuamente per trovarsi, con sceneggiature che non riescono mai a sfruttare davvero le sue doti, forse lui stesso non riesce più a far ridere come riusciva una ventina di anni fa in tv e teatro, fatto sta che per il comico milanese (di adozione) è l'ennesimo buco nell'acqua. Lui si arrovella, si arrabatta, ma quando due-tre volte si ricorre all'ennesima originalissima battuta sulla sua mancanza di capelli (come succedeva ogni tre secondi a Zelig) davvero si capisce che di idee comiche non ce ne sono e infatti il suo personaggio non fa mai ridere.

A vedere il trailer invece avevo avuto la sensazione di un altro instant movie col tentativo di buttare lì quattro manfrine di attualità politica, dopo aver "assaporato" il tremendo cinepanettone di Netflix "Natale a 5 Stelle". Lo è, ma solo in parte.
L'unica fonte di vivacità infatti sono le non velate prese in giro alla classe politica attuale, vedi il Teodoro Guerriero di Calabresi che inizia bene nel fare il verso a Salvini. Alla lunga però si nota una certa ripetitività e la parlata strascicata stona (specialmente a chi ricorda il suo Biascica di Boris), finisce per stancare e per somigliare paradossalmente più a Bossi che a Salvini.

Meno presente (come peraltro nella realtà dell'ultimo anno) ma più gustosa la presa per i fondelli di Renzi e del PD, con anche alcuni spunti surreali come la partita di calcio balilla 80 giorni dopo le elezioni e i manifesti con la falce e martello alla sede del partito. Con un po' più di coraggio il Vincenzo Maceria di Marco Ripoldi poteva dare qualcosina.

Più sterile invece la rappresentazione pentastellata, con la storia della "bolla" che è troppo vicina alla realtà per essere divertente e un Guglielmo Poggi completamente spaesato nel Danilo Stella-Luigi Di Maio: anche qui troppo reale, perché lo stesso Di Maio è un pesce fuor d'acqua nella sua posizione.

Pure questa però è una cosa che sostanzialmente non dura che il tempo dell'introduzione dei personaggi, perché il film non ha il coraggio di colpire su quei punti, non ha il coraggio di infilare il coltello nella piaga.
E' così l'ennesimo film italiano scritto con paura di "urtare" qualche parte, finendo quindi per non centrare nessun bersaglio, per risultare impalpabile.
Il finale poi è pura fantascienza involontaria (rimediata in minima parte dal post-finale nel corso dei titoli di coda).
Bocciato come previsto.

Scappo a casa. Un buon Aldo Baglio versione solista

Dopo un inizio pessimo e caotico, il film prende fisionomia, entra realmente nella storia e risulta apprezzabile. Anche grazie al protagonista, con il buon Aldo Baglio capace di mostrarsi attore vero e non semplice macchietta. Alla fine il film strappa la sufficienza, anche per l'aver evitato la facile moraletta da due soldi.




Solitamente questo genere di commedia italiana parte a razzo, spara tutte le proprie cartucce nei primi 20 minuti e poi mostra di non avere più idee e si arriva stanchi ai titoli di coda.
"Scappo a casa" invece segue completamente il tragitto opposto, finendo forse per questo a piacere di più della media delle commedie italiane, finendo forse questo a farsi perdonare delle pecche pure evidenti.

L'inizio è completamente raffazzonato, piuttosto approssimativo, pagando una regia che vorrebbe essere brillante ma che crea solo confusione: questo finto ritmo impennato dell'inizio vorrebbe forse portare alla risata facile, ma è un buco nell'acqua, non caratterizza il personaggio principale e non diverte. Anzi, lì per lì viene da chiedersi "ma che cosa sto guardando?". In particolare, Rocco Barbaro (che appare in due scene come collega del protagonista) ha una parte decisamente infelice e sembra il preludio del disastro, così come l'arrivo di Aldo Baglio a Budapest con un montaggio casinista a luci stroboscopiche che sembra essere preso dal film "Spring Breakers". La stessa scena del furto dell'auto, con dentro documenti e cellulare, è buttata lì e archiavata in 30 secondi, per un inizio al più caotico, per non dire brutto.

Poi per fortuna la regia diventa più classica, il film prende una sua fisionomia chiara e si entra nella storia, con l'incomprensione che porta Aldo a essere scambiato dalle autorità ungheresi come un immigrato clandestino, portando la pellicola a essere più una commedia di avventura che una commedia degli equivoci, con un triangolo alla ricerca di una cassaforte che ricorda alla lontana (molto alla lontana, sia chiaro, non c'è nemmeno la voglia di fare un paragone) "Il buono, il brutto e il cattivo", in particolare nella dinamica con cui Aldo viene a sapere i codici della cassaforte e si fa trascinare da Jacky Ido: non so se ci sia stata da parte degli sceneggiatori un'ispirazione volontaria, ma il gioco dei ruoli (riammodernato e semplificato ovviamente) sembra con Aldo a essere un po' Eli Wallach, Jacky Ido a essere un po' Clint Eastwood e Fatou N'Diaye (davvero bellissima) nel ruolo di terzo incomodo un po' alla Lee Van Cleef.

Il film così cresce, ha delle forzature dovute a una sceneggiatura che cresce ma resta incostante, ma tutto sommato si fa apprezzare e non si spera che la fine arrivi il prima possibile, anzi si segue bene le disavventure di Aldo e Ido. La regia passa dall'essere dannosa e caotica all'essere semplicemente anonima (smettendo di essere una pesante zavorra) e tutto sommato è meglio così.

Il rischio portando uno come Aldo Baglio al cinema nel ruolo di solista, lasciando così (momentaneamente) il trio con Giovanni e Giacomo (che per la verità appariva stanco da una decina d'anni e giustamente s'è preso una pausa dopo l'improponibile "Il ricco, il povero e il maggiordomo"), è che il film diventi una sorta di "one man show", con Aldo a rubare la scena e improvvisare o forzare allo scopo di strappare la risata per forza. La prima mezz'ora sembra essere proprio questo, con Aldo a ripetere un po' le solite espressioni, i soliti "vafancuuulo" senza trovare ispirazione. Andando avanti però esce un Aldo Baglio diverso, meno sguaiatamente comico (e così paradossalmente si arriva a quelle due-tre situazioni che mi hanno fatto davvero ridere) e molto più dentro il personaggio, che passa dall'essere una macchietta all'essere umano. Così, molto più che nel trio comico, spiccano le sue qualità da attore vero e il siciliano diventa convincente, molto meno forzato, molto più naturale: e questo Aldo a me è piaciuto parecchio.

Oltre a una storia che finalmente aveva trovato una via, il film cresce anche con l'arrivo di Jacky Ido, che finisce per fornire ad Aldo una spalla costante sulla quale appoggiarsi, con la quale anche duettare nelle scene più simpatiche. Forte e fondamentale il suo personaggio per la riuscita del film.

E' un film che ha i suoi difetti piuttosto evidenti, ma che per fortuna trova una sua fisionomia e riesce a essere simpatico, riesce a lanciare Aldo Baglio in una forma nuova (e non per forza attesa) e che riesce a farsi perdonare alcune oscenità iniziali con una buona impennata finale. Tanti film ti fanno uscire dalla sala con l'amaro in bocca per una parte finale non convincente, mentre Scappo a casa cresce e finisce bene e forse proprio per questo riesce a strapparmi una sufficienza.

Apprezzabile soprattutto il fatto che, nonostante il film tratti un tema pesantissimo (e attualissimo) come quello della pessima e strumentalizzatissima gestione dell'accoglienza degli immigrati, qui ci si renda conto di non avere le qualità e la forza per fare una "denuncia sociale" ma si resti all'interno della storia dei protagonisti, evitando il tipico difetto delle commedie italiane attuali, quello di andare sulla moraletta superficiale da due soldi. In questi casi, meglio lasciar pensare lo spettatore piuttosto che esprimersi esplicitamente tanto per farlo e di conseguenza esprimersi male: la morale personalmente la voglio nei film che possono avere una scrittura profonda, non in semplici commediole come questa (perché alla fine possono solo far danni e non farebbero mai riflettere lo spettatore che è ideologicamente contro quel genere di idea e di messaggio). Forse anche per questo mi viene da essere buono e dare mezza stellina in più alla pellicola.

Adesso Aldo tornerà all'ovile con Giovanni e Giacomo, visto che i tre hanno già scritto (con il fido Massimo Venier) un nuovo film, sperando che sia tutt'altra roba rispetto alle loro ultime uscite (sperando che il loro stile possa essere rinfrescato, visto che secondo me il loro "declino" è dovuto all'incapacità di sapersi aggiornare con l'andare avanti della loro carriera), ma questa buona prova (ottima nell'ultima ora di film) deve convincerlo che può camminare bene anche sulle proprie gambe nel caso ne avesse bisogno.